Theodore Herzl, fondando nel 1897 il movimento sionista, sognava uno Stato ebraico quale «bastione dell’Europa contro l’Asia, avamposto della civiltà contro la barbarie». Su quella linea si attennero i “padri fondatori”. Ben Gurion: «Dobbiamo lottare contro lo spirito del Levante che corrompe gli individui e la società, e preservare gli autentici valori ebraici fissati nella diaspora». Abba Eban: «L’obiettivo è inculcare uno spirito occidentale, invece di farci trascinare verso un orientalismo contro natura». Infine, il negazionismo di Golda Meir (intervista al Sunday Times del 15/6/1969): «Non esistono palestinesi. Non è come se esistesse qui un popolo palestinese che si reputa tale e noi fossimo venuti a buttarlo fuori. I palestinesi non esistono» (sic). Per la verità, fino al primo ‘900 erano mezzo milione, a fronte di circa 50.000 ebrei. Poi affluirono gli scampati ai pogrom e ai lager, ma ancora nel 1945 si contavano solo 600.000 ebrei (pari a quanti risiedono oggi – ironia dei numeri – nei Territori Occupati).
Nel 2017 Israele ha festeggiato il centenario della “Dichiarazione Balfour”, una lettera con cui il ministro degli Esteri britannico prometteva a Lord Rothschild uno Stato ebraico in Palestina. Questo il commento di Gideon Levy, editorialista di Haaretz: «Non era mai successo nulla di simile: un impero [la Gran Bretagna] promette una terra non sua [la Palestina] a un popolo che non ci vive [gli ebrei] senza chiedere il permesso a chi ci abita [i palestinesi]». L’ironia di Gideon Levy faceva giustizia del falso mantra: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
La tragedia della nakba nel 1948 – e poi le vittorie militari del 1956, 1967, 1973 – permisero a Israele di lanciarsi in una politica d’immigrazione a tutto campo. Dalla sola Urss sbarcò un milione di ebrei, veri o presunti, in genere digiuni di giudaismo. Israele, retto da ashkenaziti, fece di tutto per cancellare dai Paesi arabi le comunità sefardite e mizrahi. Lo denunciava nel 1978 Ezra Ben Hakham Eliyahu: «L’immigrazione di massa in Israele ha sradicato le comunità sefardite. Hanno perso i loro paesi, le proprietà, usanze, lingua, l’intero patrimonio culturale». E un sefardita marocchino, Reuben Abarjel, lamentava: «Nessun governo arabo ha mai esercitato sui mizrahi una violenza simile a quella del regime ashkenazita, che ha rapito bimbi per darli in adozione e ha sterilizzato donne ritenute incapaci di migliorare il “genio ebraico”». Il rapimento si riferisce agli anni ’50, quando 1060 bimbi portati via dallo Yemen furono tolti ai genitori e affidati a famiglie ashkenazite. Sono memorie da cancellare affinché si continui a vedere i “padri fondatori” come idealisti – e non pochi lo erano. Ma di fatto fu un’operazione neo-coloniale ammantata di retorica del kibbutz.
Israele fece nel 1956 l’imperdonabile scelta di unirsi a francesi e inglesi nel tentativo di riappropriarsi del Canale di Suez nazionalizzato da Nasser. Si capì allora con chi stava il giovane Stato: era ormai una testa di ponte occidentale, definita “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Vero è che la dichiarazione d’indipendenza recita: «Israele garantirà completa parità sociale e politica a tutti gli abitanti, senza distinzione di religione o di razza». Ma in realtà discrimina chi ebreo non è: ha incarcerato almeno una volta il 40% dei palestinesi maschi; attua esecuzioni mirate senza rispettare le proprie leggi; vieta i matrimoni misti; concede ai coloni (illegali) ogni diritto negato ai palestinesi che vivono (legalmente) a casa propria.
Con lo sguardo lungo si scorge meglio quando è iniziato il cammino verso il suicidio: il 4 novembre 1995, con l’assassinio di Rabin per mano di un ebreo estremista. Pochi giorni prima eravamo al Vertice di Amman e tutto lasciava presagire una pace imminente. «La pace si negozia con i nemici – ripeteva Rabin – e la faremo a ogni costo». A ogni costo? A lui costò la vita. Poi fu un seguito di occasioni sprecate e di violenze inaudite.
Marzo 2002. Da osservatore al vertice della Lega Araba a Beirut, vidi il re saudita Abdullah presentare un vero piano di pace, approvato da tutta la Lega. Finalmente ci siamo – pensavo. No, Israele non la pensava così e il Piano Abdullah fu riposto in un cassetto.
Gennaio 2006. Libere elezioni in Palestina e netta vittoria del partito di Hamas a Gaza; ma Israele spinse gli USA e l’UE a disconoscerne l’esito, benché gli osservatori internazionali avessero confermato la piena regolarità delle elezioni. Hamas ne trasse le conclusioni. Altrettanto fece Netanyahu, a modo suo. Dal 2012 iniziò a foraggiare Hamas con fondi del Qatar, allo scopo di indebolire l’ANP e spaccare il fronte palestinese. Ma Hamas stornava parte dei fondi per armare la Striscia di Gaza e Netanyahu non guardava: una partita a poker sui bordi del precipizio. Entrambi erano pronti a tutto pur di ostacolare la formula “due popoli, due Stati” (come aveva detto Ben Gurion: «Più la tireremo in lungo, più ci porterà vantaggio»). Il premier chiuse gli occhi anche quando nel 2023 lo avvisarono che oltre i muri di Gaza si stavano facendo esercitazioni militari non proprio difensive.
Fino all’orrore del 7 ottobre. Fu una sorta di rivalsa postuma dopo i massacri di donne e bambini perpetrati nel ’48 nei villaggi palestinesi – famosa la strage a Deir Yassin – a opera della “banda Stern” guidata da Begin, allora terrorista e più tardi Primo ministro. A dicembre del ’48, Einstein e Hannah Arendt cofirmarono una lettera premonitrice: “Nella comunità ebraica si è predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Nelle azioni di Begin il partito terrorista tradisce il suo reale carattere; dalle sue azioni possiamo giudicare ciò che farà nel futuro”. Si deve alla lungimiranza dei due illustri ebrei se ora capiamo meglio dove vuol arrivare questo Paese mediorientale, così ben armato che preferisce tenere aperti cinque fronti di guerra piuttosto di accettare la convivenza con chi laggiù abita da sempre. Gli conviene?
Agli israeliani, protetti dagli USA, si è condonata finora ogni lesione del diritto internazionale, benché la dichiarazione d’indipendenza proclami che “Israele sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Possibile che un popolo così dotato sia capace di tali efferatezze a Gaza? Possibile che un piccolo Stato tenga in scacco da decenni una superpotenza? Il Governo Netanyahu ha optato per la soluzione di “uno Stato” apartheid. L’occupazione militare ha eroso il Paese dall’interno, mettendo in pericolo la sicurezza stessa che dovrebbe garantire. L’hanno capito anche l’ex-presidente della Knesset, Avraham Burg, e l’ex-premier Olmert, che non da ieri scongiurano di «salvare Israele da se stesso».
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