Internazionale, Politica, Temi, Interventi

Articolo pubblicato su “Transform!Italia” il 13.11.2024.

Che giornata: ci siamo alzati con la vittoria di Trump e siamo andati a dormire che era crollato il Governo.

Caren Miosga, moderatrice e giornalista politica

A vittoria conclamata di Trump, il 6 novembre precipita la situazione in Germania. Dopo settimane di contrasti interni alla coalizione sulle sorti del bilancio, durante l’incontro per una mediazione definitiva, fissato il giorno in cui era previsto l’esito elettorale negli Stati Uniti, e l’ultimo utile prima del dibattito parlamentare, crolla il governo di Spd, Verdi e Liberali (Fdp). Qualche giorno prima, il 27 ottobre, Volkswagen (VW), l’icona non solo del modello economico tedesco ma della Germania tout court, annuncia la chiusura di almeno tre stabilimenti, il ridimensionamento degli altri siti, quindi decine di migliaia di licenziamenti e riduzioni di salario fino al 20%: con buona pace della Mitbestimmung, la co-decisione, il sistema istituzionalizzato di accordi tra padronato e sindacati, “elemento centrale dell’economia sociale di mercato” in quanto “gelebte Demokratie“, cioè “democrazia vissuta” ovvero praticata sul posto di lavoro, come si legge in un opuscolo della fondazione del sindacato unitario DGB, la Hans Böckler. È senza precedenti lo schiaffo subito dal mondo del lavoro, e la IG Metall, con 2,2 milioni di iscritti il maggior sindacato di settore al mondo, lo definisce “una dichiarazione di guerra di dimensioni storiche”. Una grave cesura per questo modello di relazioni industriali. A completamento di questo periodo di passione, il 7 novembre viene approvata al Bundestag, il parlamento tedesco, una discussa risoluzione sull’antisemitismo che, anche se non vincolante, intende istituzionalizzare la persecuzione delle voci solidali con la Palestina e critiche nei confronti delle politiche di Israele, in particolare nel mondo della cultura, con conseguente taglio dei fondi pubblici. Sembrano saltare tutte le certezze. Il mito del Paese economicamente forte, con l’auto come suo elemento costitutivo, politicamente stabile, socialmente sostenibile, che ha fatto i conti con la Storia, subisce un colpo devastante, in una sorprendente quanto inquietante inadeguatezza ad affrontare le pur impressionanti sfide di questo nostro mondo malato.

Cronaca di un divorzio annunciato

Se il finale non è proprio a sorpresa, il colpo ad effetto, almeno nelle modalità, c’è stato. Il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz entra in scena circa un’ora dopo che le agenzie avevano diffuso la notizia del suo “licenziamento” del ministro delle finanze, Christian Lindner. Il governo, già nel suo “Accordo di coalizione” aveva clamorosamente sbagliato i conti: un anno fa la Corte costituzionale bocciò la conversione di crediti di emergenza (60 miliardi) per la pandemia in un fondo per il clima e la trasformazione, così “sottraendo la base finanziaria del governo”, secondo il quotidiano finanziario Handelsblatt. A questo sono seguiti aspri contrasti interni che hanno portato alla paralisi. Quasi volesse far dimenticare la propria inadeguatezza di fronte alla deriva economica del Paese, con insolito piglio energico ed autoritario, il cancelliere lancia la sua invettiva davanti ai microfoni contro Lindner, “irresponsabile” per aver messo gli interessi di bottega (i Liberali del partito FDP) davanti a quelli del Paese. Con il suo documento di “svolta economica”, in chiave ultraliberista Lindner ha provocato l’ira di Scholz: sgravi fiscali per imprese e redditi alti, tagli a sussidi sociali, al reddito di cittadinanza (Bürgergeld), allentamento degli obiettivi climatici, e la Schuldenbremse, o “freno al debito”, cioè il vincolo di bilancio, non si tocca. Secondo Lindner, la reazione di Scholz era “calcolata”, anche se pare, come ricostruisce Handelsblatt, che Lindner stesso puntasse alla rottura, rimandando al mittente le quattro proposte del cancelliere poi rese note nella sua dichiarazione sulla crisi di governo: “Primo, offrire energia a costi accessibili e copertura finanziaria per le infrastrutture necessarie; secondo, un pacchetto di misure a garanzia dei posti di lavoro nell’automotive e nell’indotto; terzo, introduzione di un premio per investimenti e possibilità di ammortizzamento per incentivare investimenti delle imprese in Germania; quarto, un aumento del sostegno all’Ucraina, che dovrà affrontare un duro inverno, dopo le elezioni negli Stati Uniti, un chiaro segnale per dire: di noi ci si può fidare”. Per quest’ultimo obiettivo Scholz voleva sospendere il vincolo di bilancio, evocando la condizione di necessità prevista dalla Costituzione (Grundgesetz, agli articoli 109 e 115).
La narrazione del cancelliere e questo suo decisionismo tardivo però convincono poco. Con il Paese in recessione per il secondo anno consecutivo, l’azione del governo è stata piuttosto latitante. Non a caso, da un sondaggio pubblicato il 4 novembre, solo il 14% ne era soddisfatto. Alla recente offensiva di VW, per esempio, Scholz rispondeva “che non si possono scaricare sui lavoratori e lavoratrici gli errori del management”. Oltre ad essere politicamente a dir poco deludente, come uscita pare un po’ imbarazzante, visto che il Land della Bassa Sassonia, sede della centrale di VW, è secondo azionista del gruppo con il 20% (dei diritti di voto) ed è stato governato per lo più dalla Spd, attualmente in coalizione con i Verdi.
Scholz suggerisce aggiustamenti, mentre servirebbe un cambio di passo. Anzi, persevera su una strada il cui governo-semaforo (dai colori dei partiti che lo compongono), impazzito, ha fatto deragliare la Germania. È infatti sulle spese militari e il sostegno all’Ucraina che Scholz voleva la deroga all’austerità. “Dobbiamo investire molto di più per la nostra difesa e il nostro esercito, ”perché l’aggressione della Russia all’Ucraina ha cambiato il quadro della sicurezza per gli anni a venire. A maggior ragione adesso, dopo il voto negli USA. Da noi hanno trovato rifugio (…) 1,2 milioni di cittadine e cittadini ucraini. Abbiamo speso finora quasi 30 miliardi di Euro per sostenere la difesa dell’Ucraina (…) perché è nel nostro proprio interesse in termini di sicurezza. Una vittoria russa verrebbe a costarci molto di più (…)”. Poi, rivolto a Lindner, il cancelliere continuava: “Non sono disposto a finanziare il sostegno all’Ucraina e la nostra difesa a spese della coesione sociale, delle pensioni e della sanità (…) e non porrò le cittadine e i cittadini di fronte alla scelta (…) tra sicurezza e coesione. Questa contrapposizione porta acqua al mulino dei nemici della democrazia (…), è soprattutto inutile perché la Germania è un Paese forte. Tra tutte le altre democrazie forti economicamente il nostro indebitamento è di gran lunga inferiore”.
Ne viene fuori che Scholz difende la necessità del binomio riarmo-stato sociale come se non fosse un ossimoro, e non gettasse benzina sul fuoco. Non c’è bisogno di far ricorso alla Storia, e in Germania. E da ultimo è proprio la guerra in Ucraina con le sanzioni contro la Russia ad aver inferto un colpo letale al modello economico-industriale tedesco, già in sofferenza, visti i mancati investimenti in infrastrutture e innovazione tecnologica, e la concorrenza cinese nell’auto elettrica che ha messo in crisi l’export (per un saldo negativo di 59,8 miliardi rispetto alle importazioni dalla Cina di 157 miliardi).

Precaria stabilità made in Germany

Che i tempi fossero cambiati lo si sarebbe dovuto capire già con la pandemia che ha messo in evidenza la vulnerabilità delle catene di rifornimento in un mondo costruito negli ultimi decenni su intricate interdipendenze. Mamma (Mutti) Angela Merkel garantiva una stabilità fondata su un equilibrio precario, con un’economia che troppo si affida all’export (avvantaggiandosi di euro – tedesco – debole e energia a buon mercato dalla Russia), creando una disparità nella bilancia commerciale, a scapito anche degli altri Paesi membri dell’Unione europea, in cui la Germania esporta di più che nei Paesi terzi (2023: 66,3%) –  tra questi al primo posto gli Usa, ora pericolosamente in bilico per l’incubo dazi minacciati da Trump, e la Cina scesa al quarto posto. Più che governato, la cancelliera Merkel aveva amministrato l’esistente, fatta eccezione per gli anni della pandemia, con la sua inflessibilità sul rigore finanziario, condiviso a larghissima maggioranza dalle forze politiche, (dopo Schäuble, nel 2018-21 il ministro delle finanze è stato proprio Scholz), costituzionalizzato nel 2012. Anche per l’opinione pubblica avere i “conti in ordine” è un’etica di riferimento e base di sicurezza e di un certo autocompiacimento per essere i primi della classe, “quelli che fanno i compiti per casa”, come era solita dire Merkel. Difficile, specialmente nel Paese Exportweltmeister (campione mondiale di export) farsi strada con una narrazione alternativa. Nel frattempo, però, le infrastrutture, reti energetiche, di comunicazione e ferroviarie si rivelano drammaticamente non all’altezza di una grande economia. Il digitale fatica a prendere il sopravvento sul cartaceo. Solo da alcuni mesi, per esempio, è stata introdotta la ricetta medica elettronica, le connessioni internet lasciano ancora a desiderare e la Germania è in fondo alla classifica per diffusione di fibra ottica (2023: 8,1% contro il 16,4 di Italia, media OCSE 35,9, con Spagna e Francia rispettivamente all’81,2 e 51,41.
L’austerità si è rivelata una tragica trappola anche per il resto dell’UE a cui è stata imposta con il Patto di Stabilità, anche senza pietà (leggasi alla voce Grecia), alimentando propagande razziste nei confronti nei Paesi del Sud Europa, e creando terreno fertile per l’insorgere di risentimenti di vario tipo e di forze politiche di estrema destra come AfD. La Germania ha dominato incontrastata in Europa. Anche senza visione politica, chiusa la parentesi del fondo comune Next Generation EU, la tedesca Ursula von der Leyen (CDU), rieletta la scorsa estate presidente della futura Commissione europea (su cui al momento grava però incertezza per i contrasti tra il gruppo popolare di maggioranza e il gruppo socialista sulle nomine dei commissari), ha fatto capire la direzione di marcia. Se mai avrà deroghe l’austerità, sarà a favore dell’industria bellica? Intanto il gruppo Rheinmetall, con cui Leonardo ha siglato una joint venture per la produzione di nuovi carri armati, registra un più 40% di volume di affari per probabili 60 miliardi di commesse entro la fine del 2024. Mentre, come rileva l’Ifo2, le commesse scendono ancora per ben il 47,7% delle imprese del manifatturiero, in particolare nel settore metalmeccanico (68,3 nella lavorazione e produzione di metalli e 59,9 nel prodotto finito, automotive 44,33) e per gomma e plastica (59,6). Secondo un sondaggio della Camera di Commercio e Industria (DIHK) il 40% delle imprese nell’industria pensa di ridurre gli investimenti in Germania.
Il contesto non pare propizio al mondo del lavoro. Comunque IG Metall, dopo aver subito lo smacco alla VW, che non ha ancora concretizzato il piano di tagli, ma che ha distribuito tra il 2021 e il 2023 circa 22 miliardi agli azionisti (il giugno scorso 4,5 miliardi), ha appena raggiunto, dopo alcune settimane di mobilitazione, un accordo sul rinnovo dei contratti per l’intero settore metalmeccanico che conta 3,9 milioni addetti. Nonostante la crisi è riuscita a strappare un 5,5% di aumento (dei 7 punti rivendicati).

Una crisi esistenziale

Con il governo di minoranza SPD-Verdi dopo la fuoriuscita dei Liberali e l’indisponibilità della CDU a varare leggi d’urgenza come proposto dal cancelliere Scholz, rimane da vedere cosa si può ancora fare prima che si sciolga il parlamento. Dopo giorni di pressione, Scholz si è deciso a fissare il voto di fiducia al Bundestag per il 16 dicembre (e non in gennaio, per elezioni da tenersi in marzo come avrebbe voluto). Le elezioni anticipate sono state fissate per il 23 febbraio 2025. In assenza di maggioranze alternative in Bundestag, secondo la Costituzione, per evitare vuoti di potere, devono trascorrere 21 giorni prima che il Presidente della repubblica, su richiesta del cancelliere, sciolga il parlamento, dopo di che entro 60 giorni si deve andare al voto. È la quarta volta (1972 con Willy Brandt, nel 1983 con Helmut Kohl e Schröder nel 2005) nella storia della Repubblica federale tedesca l’elettorato viene chiamato alle urne prima della scadenza regolare.
L’incertezza politica domina il quadro: secondo l’ultimo sondaggio è in testa la CDU (32%) seguita dall’estrema destra AfD (19), SPD stabile al 15, i Verdi al 10, mentre Linke è al 4 e la BSW di Sahra Wagenknecht al 7%. Lindner con la sua FDP al 4 spera di essere di nuovo ministro delle finanze in una futura coalizione con la CDU. Un po’ troppo ottimistiche anche le previsioni di Scholz per cui sarebbe “del tutto recuperabile lo stacco dalla CDU”. Che il decisionismo (retorico) dell’ultim’ora regali all’impopolare Scholz un secondo mandato pare assai poco probabile (la SPD deve comunque ancora votare sulla sua autocandidatura). Servirà poco a invertire lo scontento generale nei confronti anche la sua improvvisa disponibilità a interloquire con Putin.
Di fronte alla vittoria di Trump si è come “paralizzati (…) assolutamente impreparati alle conseguenze”, è il commento del Professor Stefan Fröhlich, docente di Relazioni internazionali all’Università di Erlangen-Norimberga. Scholz si dice convinto che la Germania avrà un ruolo guida per la sicurezza in Europa a fronte dei 30 miliardi a favore dell’Ucraina. Su Trump: “Bisogna ballare con chi è in sala”. Scholz intende approfondire i rapporti con gli Stati Uniti e ritiene che Trump confermerà l’intenzione di Biden di stazionare i missili Tomahawks a medio raggio in Germania, a cui Scholz, in assoluta autonomia, aveva dato l’assenso.
Più che nel resto dell’Occidente il dibattito è ipotecato dal transatlantismo. L’opinione pubblica, se pur in maggioranza contraria all’invio di armi in Ucraina (51%) e in Israele (60), stenta a mobilitarsi ed è come tramortita per il rapido susseguirsi di eventi destabilizzanti. Domina l’inquietudine nell’87%, mentre il 65% chiede il ritorno alle urne il prima possibile.
Nonostante la consueta liturgia delle ricorrenze, non c’era molto da festeggiare, il 9 novembre, a 35 anni dal crollo del muro, e paradossalmente con un Paese più diviso che mai da disuguaglianze economiche (come le persistenti gabbie salariali a est, fino al 20% in meno in busta paga) e strutturali, congenite alla (ri)unificazione. Nel dibattito si riaffaccia l’idea che si sia trattato di “un’annessione”, di una vera e propria “colonizzazione” dell’ex DDR da parte della Germania occidentale. Le pubblicazioni che studiano il fenomeno diventano best-seller. Per un muro che è scomparso ne sono sorti innumerevoli anche intorno alla fortezza Europa, dentro e anche ai confini della Germania, che mantiene il controllo alle frontiere contro i migranti indesiderati. Tutti i nodi (europei) irrisolti vengono al pettine tedesco.

Nero-verde militare

Alla guida della CDU e capogruppo al Bundestag dal 2022, Friedrich Merz è uomo agli antipodi della ex cancelliera, che, in virtù di una forte motivazione etica, era anche stata capace di grandi scelte come l’addio al nucleare e l’accoglienza di un milione di profughi siriani. Dai toni provocatori, Merz sfoggia con gusto l’appartenenza ai ceti alti e con lui la CDU si è decisamente spostata a destra. Alla fine del 2004 perse in aperto dissidio con Merkel l’elezione a capogruppo. Nel 2009 non si ricandidò al Bundestag e si dedicò esclusivamente al lobbysmo, rivestendo tra gli altri anche un incarico nel Consiglio di sorveglianza del superfondo Blackrock, con imprecisati compiti, tanto da far ipotizzare conflitti di interesse, qualora Merz diventasse cancelliere. Di nuovo eletto nel 2021, è contrario al reddito di cittadinanza e contro i percettori (in totale 5,7 milioni) “non intenzionati a lavorare”.
Intanto il ministro verde Habeck chiede per la difesa e prima delle elezioni, in considerazione dell’elezione di Trump e la centralità della responsabilità europea, l’istituzione di un ulteriore Sondervermögen, un investimento straordinario fuori dal computo del bilancio, per cui servono i due terzi del voto parlamentare. Mentre la guerrafondaia per eccellenza, la ministra verde degli esteri Annalena Baerbock, che si ricandida a rivestire questo incarico, sostiene che per la difesa il due% del PIL non è più sufficiente. “Per garantire democrazia, pace e libertà” la Germania e l’Europa devono spendere di più. Qualcosa lascia pensare che i Verdi, per rimanere al governo, non disdegnerebbero di coalizzarsi con la CDU, con cui del resto governano ormai da anni da soli in tre Länder (Nord-Reno/Vestfalia, Baden-Württemberg, e Schleswig-Holstein). In settembre questi ultimi hanno avanzato la richiesta al governo centrale di una politica di migrazione più restrittiva (per esempio respingimenti più rapidi e maggiori controlli). Da un sondaggio di ottobre 12 su 16 federazioni regionali della CDU si dichiarano aperte nei confronti di alleanze con i Verdi a livello nazionale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *