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I cosiddetti accordi di Abramo si iscrivono nella tradizionale politica mediorientale di Washington che ha un duplice obiettivo: conciliare la piena e acritica solidarietà con Israele e l’alleanza di fatto con alcuni Stati arabi “moderati”; e togliere Israele dal suo isolamento diplomatico nella regione.

Vi si era cimentato quasi mezzo secolo fa il democratico Jimmy Carter, artefice degli accordi israelo-egiziani di Camp David, approfittando della volontà di pace coraggiosamente manifestata dal presidente egiziano Anwar Sadat (che avrebbe pagato con la vita, nel 1981, questo suo coraggio). Una seconda occasione per attenuare l’isolamento diplomatico di Israele fu offerta a un altro presidente democratico dagli accordi di Oslo del 1993. Tali accordi, che istituivano l’autonomia palestinese e prospettavano la possibilità (non la certezza) di uno Stato indipendente, suggellati a Washington dalla stretta di mano fra Arafat e Rabin, offrirono al presidente Bill Clinton lo spunto per favorire nel 1994 la normalizzazione dei rapporti fra Israele e un altro vicino arabo, la Giordania.

La mancata realizzazione delle promesse di soluzione della questione palestinese, e anzi l’inasprimento della repressione in Cisgiordania e la moltiplicazione degli insediamenti ebraici, impedirono che la normalizzazione con Egitto e Giordania si estendesse dai rapporti diplomatici ai rapporti economici e culturali e ai flussi turistici. E rendevano improponibili nuovi accordi di collaborazione fra Israele e altri paesi arabi.

Ciononostante, durante la sua prima presidenza Donald Trump affidò questo incarico al genero Jared Kushner, ebreo praticante e in rapporti di affari con gli sceicchi del Golfo. Kushner seppe sfruttare l’ostilità di quelle monarchie arabe verso l’Iran, il pragmatismo (per non dire cinismo) degli Emirati Arabi Uniti e in particolare il loro interesse a ottimizzare la collaborazione con Washington e ad acquistare i più moderni sistemi di arma americani. Agli EAU si accodò il Bahrein e in seguito Marocco e Sudan, sedotti dai generosi incentivi politici ed economici, rispettivamente, offerti da Washington.

A questi accordi di normalizzazione conclusi nel 2020 fu appiccicata la stucchevole etichetta di “Accordi di Abramo“ (un’operazione cosmetica analoga a quella del “Piano Mattei“ inventata da Giorgia Meloni). Questa denominazione alludeva chiaramente alla radice religiosa ed etnica comune di arabi musulmani ed ebrei, un modo per mettere in secondo piano la condanna per la continua repressione in Cisgiordania e l’asprezza delle periodiche campagne punitive contro Gaza.

L’Arabia Saudita, pur non essendo condizionata da una vera e propria opinione pubblica, tardava a superare questi scrupoli e ad aderire agli Accordi di Abramo. Ma l’interesse a una sempre più fruttuosa partnership con Washington e la realpolitik che contraddistingue il principe Mohammed Bin Salman minacciavano di erodere il tabù dell’adesione agli accordi, malgrado la politica dell’occupante in Cisgiordania sempre più aggressiva.

Ciò ha spinto Hamas a precipitare la crisi lanciando la barbara operazione del 7 ottobre 2023. Di conseguenza gli Accordi di Abramo non sono più all’ordine del giorno per Riyad. A fronte di questo relativo successo diplomatico, per i palestinesi il massacro del 7 ottobre ha avuto un costo altissimo, e non solo in termini di vite umane e distruzione a Gaza. Non ha costretto Israele a interrompere l’annessione strisciante della Cisgiordania, anzi ha offerto lo spunto per accelerarla e spinto Netanyahu a sottoporre la stessa Gaza a un draconiano programma di pulizia etnica. In più, l’opinione pubblica israeliana è stata investita da una ondata di sete di vendetta, di insensibilità per le sofferenze dei civili arabi, di ostilità verso le Nazioni Unite, che tentano di alleviare quelle sofferenze e predicano la creazione di uno Stato palestinese. Un bilancio (provvisorio) disastroso.

Il bilancio per il governo Netanyahu è non ottimale, ma largamente positivo. Non ha eliminato Hamas (obiettivo impossibile, dato che i dirigenti e miliziani uccisi verranno sempre sostituiti, rispettivamente, dai loro vice e da nuove reclute); non ha ottenuto che Egitto e Giordania accogliessero nei loro deserti gli abitanti della Striscia; ha perso 900 dei suoi militari nelle operazioni a Gaza (molti di più dei morti che avrebbero causato i razzi sparati da quel territorio nei prossimi decenni in mancanza dell’invasione); e ha sacrificato la vita di decine gli ostaggi. Ma, speculando sulla presunta “minaccia esistenziale“ a cui sarebbe esposto, e accampando quindi il “diritto a difendersi”, ha avuto carta bianca da Washington (e piena comprensione da molti politici e opinionisti europei timorosi di essere sospettati di antisemitismo) per commettere le peggiori atrocità a Gaza, scatenare i coloni contro villaggi della Cisgiordania, disarmare con attacchi preventivi la Siria, Hezbollah e l’Iran.

Sentendosi forte, anzi invincibile, sta ora rispolverando l’obiettivo della pulizia etnica. Il nuovo piano, avallato da Washington, prevede di raggruppare 600.000 gazawi in un grande lager da costruire a Rafah (estremo sud della Striscia), dal quale si potrà uscire solo accettando di trasferirsi in un altro paese. Man mano che si svuoterà, il “campo di transito umanitario” servirà a ospitare altri candidati alla “emigrazione volontaria“; e così via, fino a esaurimento. Il quotidiano spargimento di sangue, i continui ordini di spostarsi in altre zone, il blocco degli aiuti umanitari mirano a far apparire l’emigrazione come il male minore. In Cisgiordania il processo è necessariamente più lento, e difficilmente potrà essere completo, ma è avviato: non si tratta più solo di repressione e di intimidazione per prevenire ribellioni e attentati, ma di espulsioni degli abitanti dai loro villaggi e di violenze miranti a indurne l’emigrazione.

In questo contesto l’iniziativa dei cinque sceicchi di Hebron capeggiati da Wadi al Jaabari, che si propongono come protettorato di Israele e futuro firmatario degli Accordi di Abramo, quasi una riedizione dei defunti bantustan sudafricani, è solo una nota di colore. Nella strategia di Israele l’Emirato fantoccio non è una alternativa alla politica di annessione e emigrazione, al massimo vi si affiancherà.

Come classificare le azioni del Governo israeliano contro i palestinesi? Certamente è un gigantesco crimine di guerra e contro l’umanità la pulizia etnica, così come lo è la punizione collettiva, l’affamare e terrorizzare la popolazione, espellerla dalle sue città, privarla di ospedali e scuole, ammazzare ogni giorno fra 50 e 100 civili innocenti, definendoli collateral damage di presunte uccisioni mirate contro singoli guerriglieri. È giusto parlare addirittura di genocidio, come fanno la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori occupati Francesca Albanese, e numerose ONG? Alcuni mesi fa scrivevo che se questi comportamenti non si configuravano univocamente come l’uccisione di un popolo (genocidio), di certo costituivano una prolungata tortura, con possibile esito letale; e mi domandava se la tortura fosse un crimine meno inumano che l’uccisione. La questione diventava dunque più nominalistica che di gravità del crimine.

Di fronte al rilancio del programma di svuotamento di Gaza e alle violenze miranti a indurre i palestinesi ad emigrare dalla Cisgiordania, si potrebbe però argomentare che ci sono tutti i requisiti del genocidio, dal momento che l’obiettivo di Israele è di disperdere la popolazione di Gaza, e a più lungo termine della Cisgiordania, nel grande mare arabo, e di annientare così l’identità palestinese: identità che – è vero – non ha radici storiche antiche, ma è andata comunque formandosi nel corso della prima metà del XX secolo. Non importa che il tentativo di spingere gran parte della popolazione della West Bank ad andarsene abbia scarse probabilità di successo: perché si possa parlare di genocidio, in base alla Convenzione del 1948, basta l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale.

Cosa può fare il mondo esterno per salvare il popolo palestinese dal dissanguamento? Condannare le atrocità, così come rispettare le decisioni della CPI, o anche sospendere il trattato di associazione UE-Israele, è moralmente giusto e necessario, ma non scalfisce la tracotanza del governo Netanyahu. Parlare di two-state solution e riconoscere un inesistente Stato palestinese sono possibili gesti simbolici, ma agli occhi degli israeliani non fanno che sottolineare l’irrilevanza degli europei, la loro vocazione a praticare una politica esclusivamente declaratoria.

Fare i conti con la realtà significa riconoscere che non siamo in grado di esercitare pressioni su Israele né di indurre Trump a sganciarsi dal suo sodale Netanyahu; che, di qualunque colore sia la prossima Amministrazione, gli USA non vorranno o non saranno capaci di esercitare un’influenza decisiva su di lui; che l’elettorato israeliano si è stabilmente spostato verso l’estrema destra suprematista. Dobbiamo perciò concentrarci sull’azione umanitaria. E insistere nei nostri contatti con Washington sull’urgenza della cessazione delle operazioni militari, sul libero accesso degli aiuti umanitari e sul ritorno alla collaborazione con le agenzie delle Nazioni Unite.

Sul piano politico, un obiettivo non irrealistico potrebbe essere quello di convincere il Governo statunitense (coordinando i nostri sforzi con quelli dei paesi arabi suoi alleati) a moderare i propositi bellicosi di Netanyahu, opporsi alla pulizia etnica, patrocinare la ricostruzione e smilitarizzazione di Gaza sotto supervisione di una forza di pace araba, indurre il Governo israeliano a mantenere lo status quo in Cisgiordania reprimendo le sistematiche violenze dei coloni. E rinunciare alla prospettiva della annessione parziale della Cisgiordania prevista dal cosiddetto piano di pace di Trump.

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Un commento a “Gli Accordi di Abramo e la guerra di Gaza”

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