L’Unione europea ha fatto una montagna di guai con la politica dell’austerity. Ora sappiamo che può farne di ulteriori, e persino peggiori, con la politica della memoria. La quale memoria è cosa di cui i parlamenti, i governi, gli stati e i superstati farebbero bene a non occuparsi, essendo essa un luogo proprio della soggettività, il luogo in cui gli individui, i gruppi, i popoli elaborano il proprio rapporto con la storia. Sede dunque di produzione simbolica e di conflitti simbolici, non di sistemazioni e prescrizioni istituzionali come invece pensa il parlamento di Strasburgo.
Il quale ci ha messo quattordici anni ad approvare (con 535 voti favorevoli, 66 contrari e 52 astensioni) una “risoluzione sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che già quando venne proposta nel lontano 2005 dal conservatore svedese Goran Lindblam il Guardian, giornale non propriamente sovversivo, commentò con il seguente titolo: “Il comunismo è morto, ma non abbastanza. Dietro una battaglia sulla storia il tentativo di provare che non c’è alternativa al nuovo capitalismo globale”. Nel frattempo il comunismo non è resuscitato ma la UE a sua volta non sta tanto bene, e prova a tamponare la sua crisi di legittimazione riaprendo la caccia al solito fantasma che evidentemente continua ad aggirarsi per l’Europa, e gemellandolo d’ufficio al fantasma del nazifascismo. Che però, a differenza del primo, si è reincarnato in una vasta gamma di esperimenti autoritari sparsi per il continente: e già da qui è chiaro che qualcosa non torna.
Preceduto da 16 “visto” e 13 “considerando”, quasi una barricata di paletti burocratici a protezione dell’enormità della sparata, la risoluzione è un impasto di riscrittura del passato e di comandamenti per il futuro, dove la prima è funzionale ai secondi come sempre accade nell’uso pubblico della storia. Due i cardini della vicenda europea novecentesca su cui ruota l’intero asse del testo: la seconda guerra mondiale vista come “conseguenza immediata del patto Molotov-Ribbentrop e dei suoi protocolli segreti”, e l’equiparazione senza se e senza ma dei “regimi nazisti e comunisti”, sotto la comune categoria del totalitarismo e sotto la comune colpa di avere commesso “omicidi di massa, genocidi e deportazioni”. Da qui la centralità nella storia europea delle vittime dei due totalitarismi, e da qui la necessità, secondo il parlamento di Strasburgo, di una “cultura della memoria condivisa” contro i crimini fascisti e stalinisti, allo scopo di “promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia” provenienti oggi soprattutto da movimenti, formazioni e governi razzisti e xenofobi quando non dichiaratamente neofascisti o, chissà mai domani, neocomunisti. Seguono, a completamento, l’istituzione di due giornate di commemorazione delle vittime e degli oppositori dei regimi totalitari, l’invocazione di processi e risarcimenti perché una dose di giustizialismo non guasta mai, la condanna della diffusione di ideologie naziste, fasciste, staliniste, razziste, antisemite e omofobiche, “l’inquietudine” per l’uso pubblico dei relativi simboli nonché per la permanenza in alcuni stati europei di monumenti commemorativi dei passati regimi – tipo quello ai caduti dell’Armata rossa vicino alla porta di Brandeburgo a Berlino: che ci fa ancora lì?
Votata quasi all’unanimità anche dai partiti della famiglia socialista europea e passata sotto silenzio nei media mainstream, la risoluzione ha scatenato una sollevazione sui social network, cui seguirà forse qualche contestazione a Strasburgo e Bruxelles da parte delle sinistre radicali. Nel mirino c’è soprattutto la disinvolta, ma tutt’altro che innocente o inconsapevole, riscrittura della storia che il parlamento europeo controfirma, legittimando una corrente revisionista che scava da almeno tre o quattro decenni nella coscienza europea e ne violenta, essa sì, la memoria.
Inaccettabile è infatti un’interpretazione decontestualizzata del pur scelleratissimo patto Molotov-Ribbentrop, che tace le pesanti reticenze delle democrazie inglese e francese di fronte alla politica espansionistica di Hitler e le loro responsabilità nel fallimento di una possibile intesa antitedesca con l’URSS. Inaccettabile, ancorché divenuta ormai di uso corrente, è l’equiparazione fra nazismo e comunismo – nonché quella sottostante fra comunismo e stalinismo –, che all’ombra di un uso estensivo e approssimativo della categoria del totalitarismo tace le differenze sistemiche, ideologiche, programmatiche, sociali, politiche fra i due regimi. Inaccettabile è infine che all’esito di queste due operazioni l’URSSrisulti corresponsabile dello scoppio della seconda guerra mondiale mentre ne viene cancellato il ruolo decisivo nella sua fine e nella sconfitta del nazismo, così come viene cancellato il ruolo dei partiti comunisti occidentali nella resistenza al fascismo. Svarioni da matita blu, sui quali è superfluo insistere se non per chiedersi perché e a quale fine il parlamento europeo ne faccia l’ossatura di una risoluzione ufficiale.
Come il diavolo, la risposta si annida nei dettagli, e nella fattispecie nei “considerando” iniziali, dove meglio risaltano i destinatari, l’obiettivo polemico e il senso politico del testo. Fra i destinatari, la Polonia che più di tutti subì le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop, i paesi baltici che trent’anni fa, nell’estate dell’89, di quel patto celebrarono il cinquantenario commemorandone le vittime con una catena umana da Vilnius a Tallin, e più in generale i paesi dell’Europa centrale e orientale che, “alla luce della loro adesione alla UE e alla Nato, sono tornati in seno alla famiglia europea di paesi democratici liberi e hanno dato prova di successo nelle riforme e nello sviluppo socioeconomico”. L’obiettivo polemico invece è uno solo, la Russia di Putin, rea di “continuare a insabbiare i crimini del regime comunista, e ad esaltare il regime totalitario sovietico”, all’interno “della guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica allo scopo di dividerla”.
È chiaro a questo punto a che cosa servano le forzature della storia e le prescrizioni della memoria. Si tratta, quindici anni dopo l’allargamento della UE a Est, di ribadire e raddoppiare gli errori di una costruzione europea già contrassegnata ab origine dalla dannazione dell’esperimento sovietico, dalla glorificazione del binomio fra democrazia (neo)liberale e capitalismo come unico orizzonte politico possibile e pensabile, e dal “ritorno in famiglia” dei paesi dell’Europa centro-orientale condizionato all’accettazione di questi presupposti.
Questi errori erano già patenti quindici anni fa, quando la risoluzione in questione venne concepita mentre l’allargamento a Est era in corso. Ma tanto più è perverso ripeterli e raddoppiarli ora che il tempo ha dimostrato quanto essi abbiano pesato nel portare l’Unione nella crisi politica ed economica in cui versa. All’origine delle attuali minacce alla democrazia che tanto sembrano preoccupare il parlamento di Strasburgo e che provengono in primo luogo dai paesi “annessi” alla UE non ci sono infatti i residui del totalitarismo sovietico ma le premesse sbagliate e le promesse mancate della democrazia neoliberale, che hanno aperto la strada alle sue contorsioni illiberali di oggi, ivi compresi i rigurgiti neofascisti, xenofobici e razzisti di fronte ai quali Strasburgo invoca “resilienza”.
Del tutto illusorio dunque è cercare di frenare queste contorsioni e il fantasma neofascista che esse riportano a galla agitando il fantasma di un comunismo di pari o superiore pericolosità. Viceversa, proprio l’equiparazione fra i due totalitarismi, che la risoluzione di Strasburgo adotta dal revisionismo storico che a sua volta ha accompagnato la costruzione europea, è una causa non secondaria della attuale deriva infelice dell’idea e della prassi democratica. Se si cancella la differenza fra i due totalitarismi, se si dimentica il contributo decisivo dell’Unione Sovietica e dei partiti comunisti alla sconfitta del nazismo e del fascismo, non si capisce neanche la differenza fra la qualità delle democrazie del dopoguerra e le democrazie senza qualità del dopo-’89. Non dall’equivalenza ma dalla asimmetria fra i due totalitarismi dipende la piegatura, socialdemocratica o neoliberale quando non illiberale, che la democrazia ha preso e può prendere in Europa e in tutto l’occidente.
I rapporti fra Germania hitleriana e URSS staliniana
E’ opportuno svolgere qualche riflessione riguardante quanto viene spesso affermato e rivendicato da alcuni che sostengono “in coro” che «la barbarie nazifascista fu battuta anche e soprattutto grazie al contributo decisivo dell’Unione Sovietica, coi suoi circa 25 milioni di caduti e pagine epiche come la resistenza dei leningradesi a 900 giorni di assedio o la vittoria di Stalingrado» (da “Futura Umanità”). Qui è veramente il caso di fare delle (in sé, di banale evidenza) precisazioni che ci si augurerebbe definitive. Lo “scelleratissimo patto Molotov-Ribbentrop” (così lo ha definito Ida Dominijanni) fu siglato il 23 agosto 1939, quando il regime nazista aveva ormai abbondantemente svelato la sua natura dittatoriale e razzista: «Una settimana dopo Hitler poté attaccare la Polonia e scatenare la Seconda guerra mondiale. Il 17 settembre, mentre la macchina bellica tedesca travolgeva le difese della Polonia, l’URSS invase la parte orientale del paese, come era previsto nel patto. Il 28 settembre l’URSS e la Germania strinsero un trattato di amicizia [ ! ], che sanzionava la spartizione della Polonia e prevedeva una nuova ripartizione delle sfere d’influenza assegnando a Mosca, oltre alla Lettonia e all’Estonia, anche la Lituania» (Silvio Pons, libro citato).
Dunque, come è noto anche a chi sembra se ne dimnentichi,, l’URSS non è che insorse a difendere la sovranità della Polonia: da notare che il 3 Settembre, due giorni dopo l’invasione hitleriana, Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania, pur non avendo subito alcuna azione aggressiva ai danni dei loro Paesi, e quindi il loro fu un atto di deciso contrasto, coraggioso e generoso, ai disegni del folle dittatore di Berlino. L’URSS invece lo lasciò fare, in forza del “patto” siglato, avendo in cambio mano libera per le proprie azioni aggressive (invasione della Polonia orientale, della Finlandia, annessioni di Paesi, ecc). Di più: Hitler dilagò in Europa (invase la Danimarca, la Norvegia, Belgio e Lussemburgo, la Francia con la “guerra lampo”, provò perfino senza riuscirvi di entrare in Inghilterra), e Stalin continuò a lasciarlo fare: non certo un comportamento a difesa della libertà e dell’autonomia dei popoli. Poi, Hitler, per le mire economiche che aveva (il petrolio, soprattutto. La Germania disponeva, per i suoi bisogni energetici, solo di carbone: quello delle miniere tedesche e dei Paesi occupati. Grazie al trattato di amicizia stipulato con l’Urss poté contare sino al giugno del 1941 su forniture di carbone sovietico), venne meno al suo patto ed aggredì l’URSS (“operazione Barbarossa”, 22 giugno 1941): il Paese fu costretto a difendersi, cos’altro poteva fare? La difesa fu letteralmente eroica, l’URSS fu sul punto di capitolare ma, a prezzo di enormi sacrifici e grazie al comportamento incredibile non solo dei suoi soldati ma anche dei cittadini (le battaglie di Stalingrado e Leningrado resteranno simboli eterni di valore civile e militare. Anche per questo Svetlana dice che fu loro insegnato «come morire per la libertà», anche se non vivevano in libertà), riuscì a sventare la disfatta e mosse all’attacco della Germania, insieme alle altre Nazioni che già contro di essa belligeravano. L’apporto dell’URSS, Paese grande e militarmente forte, fu molto importante, al pari di quello degli altri grandi Paesi: nella divisione dei compiti e delle aree di belligeranza fra le diverse forze, all’Armata Rossa sovietica toccò il compito, importantissimo ed anche di forte valore simbolico, di liberare Aushwitz (27 gennaio 1945), il che va però ascritto a merito non suo esclusivo ma di tutte le forze alleate contro Hitler.
Dunque, ricapitolando: dal 1° settembre 1939 fino al 22 giugno 1941, per circa 22 mesi, l’URSS non alzò un dito a difesa dei Paesi invasi da Hitler; si mosse solo quando fu costretta a difendersi, non per uno slancio libertario democratico e generoso a favore di altri. Subì molti morti: ma larga parte di quei morti caddero per la difesa della loro Patria, non per quella di altri. Questa è la pura, unica e vera realtà storica, per quanto esposta succintamente ed in modo “amatoriale”, da non-specialista. Perciò, la ripetizione “campanilistica” (in senso politico) dei “milioni di morti” e del “fondamentale contributo per la vittoria sul nazismo” (che nessuno nega, come d’altronde nessuno può negarlo per gli altri Paesi alleati) avanzata da alcune aree politiche è retorica ed anche falsa, perché non tiene conto del reale svolgimento dei fatti storici.
P.S.: Analoga osservazione, per onestà storica, vale per gli Stati Uniti, che si mossero contro la Germania solo dopo l’attacco, inaspettato e per loro disastroso, di Pearl Harbor, del 7 dicembre 1941: per 27 mesi dunque, dall’invasione hitleriana della Polonia, gli Stati Uniti si erano guardati bene dall’intervenire contro la Germania, e lo fecero solo quando questa, alleata al Giappone, portò la guerra nel Pacifico, quindi al fine precipuo di difendere sé stessi dall’aggressione nippo-tedesca. E gli americani vennero in Europa non allo scopo di difendere la sua democrazia e libertà, ma per aprire un altro fronte contro la Germania. Poi andò come sappiamo, per fortuna di noi tutti.
Barbara Spinelli – ben nota alla sinistra “radicale”, che si raccolse intorno a lei nelle elezioni europee del 2014, formando il soggetto politico che fu denominato “L’altra Europa con Tsipras” (Spinelli ne fu una delle figure di maggior riferimento) – esprime in molti luoghi del suo libro “Il sonno della memoria. L’Europa dei totalitarismi” (Mondadori 2001) critiche durissime al «privilegio di cui si è avvalso il totalitarismo comunista: privilegio dell’indulgenza, se non dell’oblio» (pag. 9). Ed ancora: «La memoria che resta all’erta sul fascismo e si addormenta sul comunismo ha finito con l’intorbidare ogni esercizio mnemonico e autocritico………» (pag, 13).
Fra le molte altre cose, Spinelli ricorda «….quel che accadde nella foresta di Katyn, presso Smolensk, nell’aprile ’40: il massacro su ordine di Beria e Stalin dell’élite militare della Polonia (4500 ufficiali, prigionieri dal ’39 in tre campi russi, freddati con un colpo di pistola alla nuca e senza processo, cui vanno aggiunti altri 10.500 militari fucilati a Piatikatki e Tver). Massacro contrabbandato per decenni come crimine nazista – nonostante le prove che il governo polacco in esilio aveva messo a disposizione delle democrazie fin dal 1943 – e le cui responsabilità sono state ammesse dai sovietici solo in era gorbacioviana, nell’aprile del ’90. Il complice silenzio degli occidentali su Katyn (Winston Churchill era convinto che gli assassini fossero i sovietici, ma tacque) è il fondamento immorale su cui si basò la spartizione dell’Europa negoziata a Jalta» (pag. 154).
La Storia è stata e non può essere né cambiata né ignorata.
Da “La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991”, di Silvio Pons (Einaudi 2012):
«Stalin formulò una visione strategica che rivelava obiettivi geopolitici espansionistici dell’URSS nell’Europa centro-orientale. Tali obiettivi potevano trovare interlocutori a Berlino, non a Londra. Il patto di non-aggressione concluso da Stalin con Hitler il 23 agosto 1939 prevedeva nei suoi protocolli segreti, in sostanza, la spartizione della Polonia e una sfera d’influenza nel Baltico. Una settimana dopo Hitler poté attaccare la Polonia e scatenare la Seconda guerra mondiale. Il 17 settembre, mentre la macchina bellica tedesca travolgeva le difese della Polonia, l’URSS invase la parte orientale del paese, come era previsto nel patto. Il 28 settembre l’URSS e la Germania strinsero un trattato di amicizia, che sanzionava la spartizione della Polonia e prevedeva una nuova ripartizione delle sfere d’influenza assegnando a Mosca, oltre alla Lettonia e all’Estonia, anche la Lituania. Oggetto di interminabili polemiche politiche e storiografiche, il patto costituiva in realtà l’esito di una condotta che Stalin aveva tenuto da alcuni anni……l’opzione per l’alleanza con Hitler non fu il risultato di un’improvvisazione e di una neccessità………..il patto segnava l’inizio di una nuova fase nella storia dello Stato sovietico e del suo ruolo internazionale. Tenuto all’oscuro della trama reale della politica estera sovietica, il gruppo dirigente del Comintern si trovò all’improvviso a fare i conti con la liquidazione dell’orientamento antifascista……..La nuova svolta del Comintern generò però smarrimento e confusione persino nel suo gruppo dirigente, oltre che, come era inevitabile, tra i partiti comunisti europei………La svolta provocò fra i comunisti europei sconcerto e disagio…………….L’antifascismo del tempo di pace era naufragato……..Il patto con Hitler fu l’espressione internazionale del culto della potenza e dell’idolatria dello Stato in URSS» (pagg. 118-127, passim).
Sivio Pons (Firenze, 1955) è dal 2018 docente ordinario di Storia Contemporanea alla Normale di Pisa e Presidente della Fondazione Istituto Gramsci.
NOTA: All’epoca del “patto”, 1939, Hitler era già Fuhrer da oltre 5 anni (e cancelliere da oltre 6) ed aveva già manifestato la sua natura sanguinaria. Ad esempio: il 23 marzo 1933 il Reichstag gli aveva concesso un potere dittatoriale con il cosiddetto “Decreto dei pieni poteri”, che concentrava nella sua figura sia il potere legislativo che quello esecutivo, così che egli potesse promulgare leggi senza l’approvazione del Parlamento; il 15 settembre 1935 c’era stata la promulgazione delle Leggi di Norimberga, che privavano i tedeschi ebrei o di origine ebraica del diritto di cittadinanza e ne decretavano l’espulsione da tutti gli uffici pubblici e dalle attività economiche; il 7 Marzo 1936 la Germania nazista aveva occupato la Renania; il 26 aprile 1937 aerei della Luftwaffe e dell’aviazione italiana avevano raso al suolo la città basca di Guernica; nel Marzo 1938 la Germania aveva annesso l’Austra (Anschluss); il 9-10 novembre 1938, nella “Notte dei cristalli”, le SS avevano preso d’assalto i negozi e le sinagoghe ebraiche in Germania e nelle regioni controllate dai nazisti, in una delle principali manifestazioni di odio antisemita; il 14-16 marzo 1939 la Boemia e la Moravia erano state occupate dai tedeschi e annesse al Reich.
Che uno Stato “socialista” stringesse un patto con un Signore di tal genere non appare molto edificante per il primo: è evidente che si trattò di atti di politica di potenza, ben lontani da ideali “socialisti”. Ognuno può farsene una sua idea.