Un quadro critico delle pratiche di genere dentro e attraverso i media. Questo, in estrema sintesi, il contenuto del volume Studi femministi dei media. Il campo e le pratiche, di Alison Harvey, che Edizioni Meltemi, con il contributo del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha tradotto e pubblicato nel mese di giugno di quest’anno (titolo originale: Feminist Media Studies, Cambridge, Polity Press, 2020). Alison Harvey è Associate Professor of Communications alla York University; la sua ricerca riguarda l’inclusività, l’accessibilità e la giustizia nei media e nelle culture digitali, con lo scopo di divulgare teorie, metodi e approcci fondamentali che permettono di muoversi in questo ambito.
La curatrice del testo, Federica Timeto, docente di Sociologia dell’arte e Critical Animal Studies all’Università Ca’ Foscari di Venezia e studiosa transfemminista di tecnoscienza, visualità e questione animale, nell’introduzione, scrive: «Intesi come configurazione disciplinare (ma interdisciplinare), gli studi femministi dei media emergono nel contesto della Terza ondata del femminismo, fra gli anni Ottanta e Novanta, quando a fronte di un rallentamento nelle ricerche empiriche legato al passaggio dai vecchi ai nuovi media si assiste a un principio di sistematizzazione […]. Di questo periodo, gli studi femministi dei media riflettono e insieme criticano le contraddizioni, sulle quali Harvey di frequente ritorna, in particolare quando esplora la radice neoliberale della retorica dell’impoteramento e della scelta ed evidenzia le più recenti ambiguità e complicità delle pratiche postfemministe, il passaggio dalla politica dell’identità alla politica delle differenze (Gill 2007; McRobbie 2009) e il sottile discrimine fra l’inclusione delle donne e la cooptazione della critica femminista nei contesti mediali1. […] Nello studio di forme, strutture, reti e pratiche del continuum di produzione-circolazione-consumo di media, gli studi femministi si muovono nel campo del visibile e delle mediazioni. Per il femminismo, la rappresentazione è un terreno di posizionamento fondamentale, una pratica, implicata in una serie di relazioni2. […] Se c’è un appunto che si può fare a questo libro, ma che accomuna gli studi femministi dei media, è che nella discussione sulle culture dei vecchi e nuovi media di informazione e comunicazione non fa spazio alla dimensione artistica, che per il femminismo è stata una forma di intervento fondamentale nel campo mediale a partire già dai primi anni Settanta, volta a decostruire i codici, le pratiche e le istituzioni dominanti»3.
Il volume è stato tradotto da Olga Solombrino, dottoressa di ricerca in Studi culturali e postcoloniali, interessata alle politiche di visibilità e ai processi di rappresentazione attraverso i nuovi media. La struttura del testo è suddivisa in sette capitoli.
Il primo, Introduzione agli studi femministi intersezionali dei media, delinea il contesto storico e concettuale degli studi femministi dei media, descrivendo al contempo l’esigenza di un approccio intersezionale. In questa prima sezione vengono presi in considerazione i concetti di ondate e genealogie, ponendo l’attenzione su quanto gli studi femministi dei media riguardino sia il modo in cui i media sono usati, prodotti e marcati dalle soggettività di genere, sia il potenziale contributo dei media alla creazione di un mondo più giusto e uguale per le persone che sono state escluse dai sistemi di potere egemonici. L’autrice consiglia di adottare, come da esortazione di Sara Hamed, la figura della femminista guastafeste, in cui risiede la forza intellettuale e collettiva e la resistenza all’oppressione4. Per comprendere il ruolo dei media nel sostenere o sfidare sistemi globali e diseguali di potere, Harveyrimanda, inoltre, al pensiero di bell hooks, nel riconoscere che «[…] quando ci permettiamo di parlare con una voce liberatrice intimidiamo anche coloro che inizialmente potrebbero aver detto di desiderare le nostre parole. Nell’atto di superare la paura di parlare, di essere viste come minacciose, nel processo di imparare a parlare come soggetti, prendiamo parte alla lotta globale per porre fine alla dominazione (1989, p. 18)]»5.
Il secondo capitolo, La critica femminista ai media, esamina metodologie e approcci agli studi femministi dei media, trattandone gli «aspetti pratici e politici attraverso una discussione dell’etica femminista della cura e delle pratiche di iterazione, riflessività e posizionamento nel disegno della ricerca e nell’analisi»6. Vengono analizzati modelli contemporanei di critica femminista dei media ed esposte le pratiche e le culture più proficue.
Il terzo capitolo, Rappresentare il genere, esplora in maniera approfondita la questione politica, tratta della percettibilità del genere nelle sue intersezioni, l’utilizzo di stereotipi e archetipi, forme di appropriazione e rivendicazioni. Vengono esaminate ricerche di tipo qualitativo e quantitativo sulla presenza e visibilità delle donne in testi di fiction e non, considerando in particolare le posizioni intersezionali dei soggetti. «Dimostrando la connessione tra rappresentazione e sistemi di potere, questo capitolo illustra come i ritratti mediali supportino e perpetuino le diseguaglianze sul piano sociale»7. Vengono messe in luce le ragioni per le quali la rappresentazione è importante, e con esse il suo ruolo nella vita sociale, e si analizza la produzione attiva di identità genderizzate sulle piattaforme digitali, per dimostrare quanto certe rappresentazioni restrittive siano anche create e riprodotte dagli e dalle utenti. Viene, inoltre, approfondita la questione che riguarda il latente aspetto negativo della visibilità, avvalorato dalla normalizzazione di molestie e abusi nella cultura digitale.
Nel quarto capitolo, Studi femministi transnazionali dei media, viene indicata una visione globale e transnazionale che trae sostegno dalla teoria postcoloniale e dalla teoria critica della razza per proporre un approccio decolonizzante sensibile alle relazioni e ai flussi globali. «Adottare un approccio transnazionale agli studi femministi dei media significa rendere conto delle asimmetrie e delle complessità di come culture, pratiche, ideologie e corpi migranti si spostano sulle linee che tracciamo tra Stati e aree in modo sessista. Quest’approccio riconosce allo stesso tempo come queste frontiere abbiano ancora conseguenze estremamente reali e non siano quindi annullate dal movimento e dalla circolazione, e quanto di fatto la migrazione sia un’esperienza impari, le cui condizioni dipendono dal contesto e dal relativo privilegio»8. L’oppressione sulla base del genere è una questione globale ed è necessario espandere gli studi femministi dei media «oltre il focus occidentale, nei termini degli studi con cui ci confrontiamo, delle teorie da cui traiamo spunto e che sviluppiamo, e dei luoghi e testi che prendiamo in considerazione nei nostri disegni di ricerca»9. Nel capitolo viene riportata una mappatura di concetti e insidie di cui tenere conto, dimostrando come una prospettiva transnazionale e approcci decolonizzati agli studi femministi dei media siano indispensabili per il futuro di questo settore.
La libertà è il concetto che caratterizza il quinto capitolo, Studi femministi dei media digitali, in cui vengono focalizzati dibattiti e sfide che fanno emergere le nuove frontiere dei media digitali. Viene introdotto un approccio critico e storicamente informato, che esamina la relazione tra media digitali e norme sociali, e sono offerte prospettive, tratte dall’analisi femminista della genderizzazione della tecnologia, dalla storia di internet e dagli studi su scienza e tecnologia. In particolare, vengono prese in considerazione due specifiche aree tematiche di ricerca femminista sui media, l’hashtag activism e la produzione di selfie, «che inglobano argomenti e questioni – tanto emergenti che di lunga durata – di interesse teorico e metodologico per il campo, in relazione a visibilità, potere e resistenza»10. Chiude il capitolo un’analisi dell’attivismo femminista attraverso i media digitali e una mappatura di alternative e interventi concentrati sull’intersezionalità.
Il sesto capitolo, Lavoro e genere nei media,esamina «l’economia politica dei media fra produzione e riproduzione, lavoro visibile e lavoro sommerso, informale, precario, affettivo, e problematizza il gender mainstreaming, cioè l’adozione di politiche e strategie per includere un maggior numero di donne in posizioni di potere o in ruoli chiave nell’industria dei media, sostenendo la necessità di soluzioni basate sulla costruzione di reti di solidarietà e azione collettiva»11. Viene analizzato come l’approccio del tipo: aggiungi più donne e rimescola per bene, tralasci «le basi culturali e strutturali che causano l’esclusione delle donne e non sia altrettanto in grado di tenere conto delle molteplici modalità con cui le donne partecipano effettivamente alla creazione dei media, storicamente e globalmente, ma in una cultura in cui il loro lavoro è sistematicamente sottovalutato e non riconosciuto»12. Per essere efficace, sostenibile e inclusiva, l’azione femminista nella sfera della produzione mediale deve affrontare le intersezioni tra sfruttamento e oppressione nel capitalismo anziché esaltare i successi individuali all’interno di sistemi escludenti: ciò implica un ripensamento del modo in cui concepiamo e parliamo delle diseguaglianze. Anziché usare un approccio economicista che si concentra su come una più ampia diversità nel lavoro possa portare a prodotti migliori, viene proposta una prospettiva etica sull’accesso e la partecipazione, «tenendo in considerazione la proposta di Banks13 di pensare in termini di giustizia creativa. Banks sostiene che “un lavoro nel settore culturale non è solo un’opportunità materiale significativa, ma offre anche la possibilità di assicurarsi uno status e un riconoscimento, di prendere parte a una pratica o, più in generale, alla creazione di vita sociale sociale e politica”14.
Nel settimo e ultimo capitolo, Il futuro degli studi e dell’azione femminista nei media, preso atto delle sfide e delle opportunità teoriche, metodologiche e pratiche citate nel libro, l’autrice riflette su come progredire nell’ambito degli studi femministi intersezionali dei media. Decisivo il «confronto ulteriore con gli studi esistenti e in sviluppo nell’ambito degli studi critici sulla razza, della teoria queer, degli studi critici sulla disabilità, della teoria postcoloniale e in una serie di aree complementari legate alla giustizia sociale»15.
Ogni capitolo presenta situazioni e gruppi alle prese con un impegno concreto orientato a creare pratiche e istituzioni, nelle culture, nelle industrie dei media e nella ricerca, mettendo a fuoco le sfide e le opportunità offerte dalle culture dei media, dalle piattaforme e dal lavoro, partendo dal passato fino ai nostri giorni.
Note
1 Alison Harvey, Studi femministi dei media. Il campo e le pratiche, Milano, Meltemi, 2023, pp. 9-10.
2 Ivi, p. 13.
3 Ivi, pp. 15-16.
4 Cfr. ivi, p. 65.
5 Ibidem.
6 Ivi, pp. 62-63.
7 Ivi, p. 107.
8 Ivi, p. 145.
9 Ivi, p. 147.
10 Ivi, p. 188.
11 Ivi, p. 15.
12 Ivi, p. 64.
13 Miranda J. Banks, Gender Below-the-Line. Defining Feminist Production Studies, in Production Studies. Cultural Studies of Media Industries, Edited by Vicki Mayer, Miranda J. Banks and John Thornton Caldwell, New York, Routledge, 2009, pp. 87-98.
14 Ivi, p. 267.
15 Ivi, p. 280.
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