La gestazione per altre persone
Gestazione per altri/e è la locuzione con cui si indica la pratica, oggi perlopiù eseguita con le tecnologie riproduttive, grazie a cui una donna porta in grembo un/a bambino/a che poi cederà ad altri/altre. È a dire il vero pratica antica: era costume abbastanza diffuso che una famiglia con molti figli ne cedesse uno o una a parenti che non ne avevano. Le tecnologie della riproduzione, tuttavia, hanno profondamente mutato lo scenario, sia sul piano empirico che su quello culturale e simbolico (Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa, L’eclissi della madre, 1998), permettendo di estrarre ovuli, fecondarli con spermatozoi e poi introdurre l’embrione concepito in utero. Si realizza così una filiazione senza rapporto sessuale e che ha attori plurimi. Non cambia tuttavia il ruolo centrale delle donne nella riproduzione: se qualsiasi donna fertile, volendo, può aver figli senza un uomo (bastandole una goccia di sperma), nessun uomo può viceversa fare a meno della relazione con una o più donne.
Questa pratica, richiesta in maggioranza da coppie eterosessuali che non possono avere figli, può essere regolata per contratto, come avviene per esempio in alcuni Stati degli USA e in alcuni paesi dell’Est Europa, ammessa solo se gratuita (è il caso del Regno Unito), o proibita, come in Italia: dove però una partoriente può decidere di non riconoscere il nato, lasciando di fatto questa possibilità al padre biologico (possibilità mai ricordata né discussa). Il dibattito, però, si è incentrato soprattutto sulle richieste di gpa da parte di uomini o coppie gay, mettendo così in ombra non solo il fatto sociologico di cui sopra, ma anche la perdurante centralità delle donne nella procreazione (Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa, Oltre l’incantamento biologico, 2017).
Non c’è dubbio che la gravidanza per altri (chiamata da chi vi si oppone “utero in affitto”) sia una pratica problematica e che mette a rischio in primo luogo la salute della portatrice così come quella della donna che cede o vende gli ovuli, sottoposta a cicli ormonali pesanti. I contratti sono spesso onerosi e punitivi e i diritti delle portatrici messi in mora o ignorati. Ma non è ovunque così. Vi sono portatrici, soprattutto statunitensi e canadesi, che dicono di aver provato soddisfazione nell’aver contribuito a fare un figlio per altri. Vi sono casi in cui si è stabilito un rapporto tra coppia o singola/o committente e portatrice. E casi in cui la pratica è avvenuta tra due donne parenti tra loro, senza dunque scambio di denaro. Insomma, la questione è complessa e non può essere ridotta a istanza di sfruttamento, dominio patriarcale, così come le portatrici non possono essere ridotte a “vittime”, la cui presa di parola non conta e non deve dunque essere ascoltata.
Vietare, punire
La campagna di parte del femminismo per rendere la gpa “reato universale” ha infine, in Italia, avuto successo, grazie al Governo più di destra della storia repubblicana. La legge 40 già la vietava: la novità è che essa è reato anche se è effettuata in paesi dove è lecita e legale. Una tipica legge manifesto, inapplicabile di fatto, e tuttavia non senza conseguenze, in primo luogo, ma non solo, simboliche e culturali. Ne faranno le spese le coppie gay, per cui sarà più difficile tornare in Italia con un/a neonato/a in braccio, mentre le coppie etero, ma anche le lesbiche, non correranno grandi rischi. Non li dovrebbero correre nemmeno i/le neonati/e, visto che in Italia vige il principio del superiore interesse del minore e già esiste una direttiva europea in tal senso.
Sul piano simbolico e culturale, si riaffermano centralità e primato del penale come strumento di “risoluzione” dei conflitti e gestione di ciò che è considerato problematico, contribuendo a rafforzare un senso comune impregnato di “punitivismo”, nonché, in maniera più sfumata e indiretta, la stigmatizzazione delle scelte genitoriali non tradizionali.
In questo breve articolo intendo riflettere su ciò che chiamo “femminismo punitivo” (in ambito anglosassone carceral feminism), ossia su quella parte del mondo femminista la quale ritiene che alcune pratiche, ossia la gestazione per altri e la prostituzione, vadano sanzionate penalmente.
Le richieste di criminalizzazione rispetto a qualcosa che si considera problematico, sbagliato, non sono da ritenersi scontate. Che oggi in qualche modo siano percepite come tali è riconducibile al senso comune di cui dicevo, la cui origine e diffusione non posso qui affrontare (Tamar Pitch, Il malinteso della vittima, 2021). Ciò che viene considerato, o costruito, problematico potrebbe, in linea di principio, essere affrontato con altri strumenti. La criminalizzazione ha avuto successo per molte ragioni, ma se la vediamo dalla prospettiva di attori sociali impegnati a estendere l’area delle libertà, dei diritti civili e sociali, come il femminismo, essa può essere intesa come una mossa politica che da una parte semplifica la questione e dall’altra legittima chi la richiede come interlocutore politico. Lo slittamento da un discorso dell’oppressione a un discorso della vittimizzazione può allora essere letto come indicativo di una più generale presa di parola: attori che hanno in comune soltanto l’esperienza di essere (stati) vittime (o, potenzialmente, di diventarlo) danno vita ad una pluralità di conflitti, i quali però si pongono orizzontalmente sulla scena sociale, in linea del resto con la razionalità neoliberale che si afferma in quegli stessi anni.
Inoltre, il femminismo punitivo può essere considerato una conseguenza del tentativo da parte dei movimenti femministi di rendere riconoscibili come delitti i “mali” sofferti dalle donne, ossia di denaturalizzarli e de-privatizzarli. La violenza intrafamiliare, per esempio, a lungo invisibile e misconosciuta (e ancora adesso spesso non considerata da tribunali ordinari e tribunali per i minorenni quando si tratta di decidere l’affidamento di figli minori); le persecuzioni subite da parte di partner che non tollerano la separazione (ora nominate come reato di stalking); le molestie sui luoghi di lavoro, a scuola, nelle università (ancora adesso derubricate spesso a innocui corteggiamenti). In tutti questi casi, l’uso del termine violenza e il richiamo al penale sono serviti a costruire questi comportamenti come non “normali”, non nell’ordine delle cose, ma, appunto, come mali da combattere.
Il penale si presenta in questo modo come una risorsa politica importante. Che lo sia, e lo sia stato, per movimenti e forze politiche orientate al passato, ossia a perimetrare e a rinsaldare i confini di ciò che non deve mutare (la “tradizione”, la famiglia “naturale”, i valori del buon tempo antico, la “nazione” incontaminata da presenze estranee) non sorprende. Ma che lo sia diventata anche per movimenti orientati al futuro, ad allargare o addirittura ad abolire i confini del già dato, è meno ovvio. E il rapporto tra guadagni e costi va interrogato, specialmente in un momento, come quello attuale, in cui le destre radicali, al governo in Italia e in altri paesi europei, fanno della moltiplicazione di reati e pene la loro cifra distintiva.
Il femminismo della seconda ondata, in verità, non era scettico solo di fronte alla giustizia penale, lo era anche nei confronti del diritto in quanto tale, percepito come frutto di compromessi e riduttivo rispetto alle istanze proposte. Tanto che la posizione maggioritaria sulla questione dell’interruzione volontaria di gravidanza si limitava a chiedere un “aborto libero, gratuito e assistito”, rifiutando di proporre una legge propria.
Il mutamento avviene con la campagna per cambiare la legge contro la violenza sessuale. L’iniziale proposta di legge popolare, del Movimento di Liberazione delle Donne (MLD), si limitava a volere lo spostamento dei delitti di violenza sessuale dal Titolo XI del codice penale (delitti contro la morale) al Titolo XII (delitti contro la persona), la riunificazione in un’unica fattispecie di reato della violenza carnale e degli atti di libidine violenti, nonché la procedibilità d’ufficio invece che a querela di parte. Una proposta di legge, dunque, non particolarmente punitiva, e tuttavia osteggiata da una parte del femminismo, che avrebbe preferito agire nel processo attraverso, si diceva, un’alleanza tra vittima, avvocata e magistrata capace presumibilmente di mutare l’interpretazione della legge esistente. La procedibilità d’ufficio fu comunque osteggiata da molte, in quanto considerata lesiva dell’autonomia delle donne: e anche questo indica che la gran parte del femminismo, almeno fino alla metà degli anni Ottanta, pur utilizzando il potenziale simbolico del penale, non aveva ancora una postura “punitivista”. Nel corso degli anni, tuttavia, cambiano il clima culturale e politico, la scena sociale si frattura sempre più lungo linee orizzontali e identitarie, il paradigma vittimario diventa egemonico e la giustizia penale ritorna centrale. La questione della violenza sembra occupare oramai la maggior parte dello spazio di interesse e mobilitazione femminile/femminista, così che la nuova legge acquisisce caratteri più punitivi, la sessualità scivola da luogo di sperimentazione e liberazione ad attività pericolosa e da perimetrare attentamente, soprattutto per quanto riguarda le persone minori di età. Violenza e vittimizzazione diventano di fatto i temi fondamentali per molto femminismo.
C’è da dire che il modo come il sesso e la sessualità vengono costruiti e percepiti cambia considerevolmente negli anni ‘80 e ‘90: si passa dalla visione positiva dominante nella cultura del 1968 e successivi, dove il bersaglio polemico erano piuttosto la famiglia tradizionale, le sue gerarchie, il suo autoritarismo (la sessualità dunque come luogo e strumento di liberazione e libertà), a una negativa (l’esercizio della sessualità come pericoloso, sempre a rischio di sfociare in violenza, dunque da circondare di precauzione e cautele). Interrogarsi sulla propria sessualità, sul proprio desiderio, era stato un punto fondamentale dei gruppi di autocoscienza degli anni Settanta: la critica della sessualità maschile, dell’eterosessualità obbligatoria, la scoperta di un piacere disgiunto dalla penetrazione non implicavano paura, o addirittura rifiuto della sessualità, quanto piuttosto una ricerca, troppo presto abbandonata e lasciata piuttosto all’universo lgbtq+. Negli anni Ottanta, complice anche l’epidemia di Aids, l’esercizio della sessualità torna ad essere percepito come pericoloso: un mutamento cruciale, che sottende l’attuale “strana alleanza” tra alcuni movimenti femministi e movimenti ultratradizionalisti ispirati dalla Chiesa cattolica e/o dalle chiese evangeliche, queste ultime particolarmente influenti negli USA e in molti paesi dell’America latina. Nelle campagne cosiddette “abolizioniste” in difesa del modello nordico di gestione della prostituzione, questa concezione della sessualità è del tutto evidente. Come, del resto, una concezione tradizionale della famiglia è evidente nelle campagne per il divieto universale di gravidanza per altri.
L’assunzione dello status di vittima è connessa al dilagare della parola “violenza”, ormai utilizzata, anche in documenti internazionali, come sostituto di tutto ciò che non va bene. La parola violenza, apparentemente più “forte” di discriminazione, sfruttamento, prevaricazione, dominio, disuguaglianza, quando venga usata in questo modo, finisce per perdere di pregnanza; riduce il problema, la situazione, cui viene applicata a una sola dimensione, quella penale. E richiama, anche aldilà delle intenzioni, l’intervento della giustizia penale. Nel tempo il termine violenza ha finito per descrivere la condizione delle donne in generale, unificando le loro esperienze prescindendo dalle differenze di classe, origine etnica, cittadinanza, età.
Sessualità, maternità
Nelle riflessioni delle femministe italiane contrarie alla gestazione per altre persone questa pratica è sempre accostata alla prostituzione (da ultimo, Adriana Cavarero, Olivia Guaraldo, Donna si nasce, 2024). Viceversa, le femministe dubbiose o favorevoli lo sono anche rispetto alla prostituzione. L’uso dei termini è rivelatorio: per le prime, si tratta di utero in affitto e, appunto, prostituzione. Per le seconde si tratta di gestazione per altre persone e di lavoro sessuale. Questo accostamento non vale solo per il femminismo, anzi è molto diffuso e ci dice che in questione sono i due aspetti tradizionalmente legati al femminile, cruciali per il dominio maschile sulle donne. Per questo, sono i due aspetti su cui il femminismo della seconda ondata si è concentrato. Da una parte, come dicevo, attraverso una ricerca sul piacere femminile libero dalla procreazione e dalla penetrazione (cfr. Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, 1971) dall’altra parte decostruendo la maternità non solo come destino, ma come ciò che fa di una donna una donna “vera”. Per questo, sono i due aspetti su cui si concentra l’attacco di destre e di chiese più o meno fondamentaliste (Dio, patria, famiglia) che agitano lo spettro del “gender” come distruttore della “nazione”. Le femministe contrarie sia alla gpa che alla prostituzione non sembrano imbarazzate da questa convergenza di fatto, rivendicando la loro autonomia rispetto a tutti gli schieramenti politici e culturali. Destre e fondamentalismi, viceversa, non esitano a esibire e a utilizzare questa convergenza, pur essendo il loro obiettivo quello di riportare le donne sotto il controllo maschile. Nancy Fraser, in un testo ormai famoso (Fortunes of Feminism, 2013), denuncia la cattura di molto femminismo (anglosassone) da parte del neoliberalismo attraverso la conversione di istanze politiche e sociali “strutturali” in questioni identitarie. Differenze declinate come identità da valorizzare e tutelare piuttosto che disuguaglianze da combattere. Molto si può dire su questa diagnosi (vedi per es. Ida Dominijanni, Editorial: Un/domesticated feminism, in Soft Power Journal, 2018) e sulla sua valenza per altri contesti sociali politici e culturali. Qui, tuttavia, mi preme mettere in evidenza come la congruenza tra razionalità neoliberale e parte del femminismo si può cogliere non solo nella prevalenza di politiche dell’identità rispetto a politiche contro le disuguaglianze ma, appunto, nel sostegno di fatto, non importa quanto intenzionale, al lato punitivo e securitario del neoliberalismo, nonché ai suoi versanti moraleggianti e conservatori.
Se la questione della prostituzione è antica e ha sempre diviso il femminismo, quella della gpa è recente, almeno nei termini odierni. Nel femminismo, la divisione è tra chi ritiene che prostituzione e gpa siano gravi fenomeni, inquadrabili nella violenza di genere, da combattere con la repressione penale, e chi invece, con sfumature diverse, pensa che si debba distinguere tra chi è costretta e chi invece sceglie. Secondo le prime, non si potrebbe parlare di libertà di scelta e ancor meno di autodeterminazione in contesti di povertà e di marginalità (vedi ad esempio Valentina Pazé, Libertà in vendita, 2023), ma anche Adriana Cavarero e Olimpia Guaraldo (op. cit.). La gpa solidaristica è considerata marginale, oppure il mascheramento di un passaggio di denaro, e le voci delle donne che dicono di non essere/sentirsi costrette sono considerate inautentiche e quindi inascoltabili. Le seconde rilevano come sia strano che libertà e contesto non vengano richiamati quando si tratta di lavori, altrettanto pericolosi per la vita e per la salute delle donne, per esempio il lavoro agricolo stagionale, quello delle operaie a cottimo del settore dell’abbigliamento, ecc., ossia lavori malpagati, precari, esposti all’arbitrio dei datori di lavoro (Melinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale, 2015). All’analisi di Cooper e Waldby sulle gestanti surrogate in India e sulle alternative lavorative che avrebbero, si può aggiungere il caso, anche italiano, delle badanti, spesso lavoratrici in nero, anch’esse esposte all’arbitrio dei e delle datrici di lavoro. Come dice Angela Balzano: “se davvero ci indigna pensare che per iscriversi all’università una donna debba vendere pezzi di corpo, allora occorre mettere in discussione i rapporti di forza economico-politici, piuttosto che vietare la prostituzione o le nuove forme di lavoro riproduttivo” (Angela Balzano, Carlo Flamigni, Sessualità e riproduzione, 2015).
La richiesta di introduzione di un divieto universale di gestazione per altri era ed è motivata dunque da molti movimenti femministi europei attraverso la costruzione delle portatrici (spesso razzializzate) come “vittime” di ricchi profittatori che ne sfruttano la capacità procreativa. Ma a questo argomento se ne aggiungono altri, che spiegano l’alleanza di questi movimenti con movimenti cattolici e tradizionalisti. In primo luogo, un ritorno non troppo velato alla mistica della maternità, vista come ciò che distingue le donne dagli uomini, ovvero come l’incarnazione della differenza sessuale. L’accusa rivolta a chi intende avvalersi della gpa è quella di cercare di appropriarsi della capacità riproduttiva femminile, in continuità con l’espropriazione di essa da parte del patriarcato. La differenza sessuale, che per il femminismo italiano della cosiddetta seconda ondata è principio di libertà politica delle donne – e dunque del tutto privo di rimandi essenzialistici e identitari – viene convertita in principio naturale e biologico, ossia essenzialistico e identitario (Maria Luisa Boccia, La differenza politica, 1998).
Come si sa, tuttavia, la criminalizzazione può avere effetti perversi e comportare danni, piuttosto che benefici, proprio per coloro che si vorrebbe proteggere. Nel caso di divieto universale della gravidanza per altri non è improbabile che, a dispetto della proibizione, la pratica continuerebbe a esistere clandestinamente – succede dopotutto con altri proibizionismi, alcol e cosiddette droghe, per esempio – ma con costi molto più alti e assai minori garanzie sia per le madri portatrici che, soprattutto, per i bambini così nati. A questo proposito, si può notare che la CEDU ha già mitigato la portata dei divieti per i paesi europei, come il nostro, che la proibiscono (Paola Ronfani, I nuovi scenari della filiazione e della genitorialità, in “ Sociologia del diritto”, 1/2020). Pur delegando ai singoli Stati la regolamentazione giuridica della gravidanza per altri, la Corte ha posto limiti alla loro discrezionalità, disponendo che il superiore interesse del minore e il diritto alla privacy non debbano essere pregiudicati dal mantenere i bambini in uno statuto di filiazione incerto, o separandoli dai genitori con cui hanno stabilito una relazione affettiva, siano questi i genitori biologici o no, o negando loro la cittadinanza quando i tribunali nazionali si rifiutino di trascrivere l’atto di nascita (Richard Oudreaogu, Saisir les enjeux de la maternité de substitution sous le prisme de la théorie générale du contrat, in “Droit et Culture”, 73/2017).
Conclusioni
Ciò che chiamo femminismo punitivo non solo utilizza indiscriminatamente la parola violenza, ma si appella alla giustizia penale, con l’aggravante, rispetto a trenta anni fa, di costruire la “nostra” soggettività politica attraverso la definizione delle “altre” come vittime: “noi” parliamo e le “altre”, le “vittime”, sono da “noi” parlate, e dunque ridotte al silenzio. Se poi, come capita, “le altre” vogliono dire qualcosa, rifiutando per esempio lo statuto di vittime, si può sempre ricorrere, magari dandogli un altro nome, alla vecchia categoria di falsa coscienza (Catharine A. MacKinnon, Le donne sono umane?, 2007, mi sembra a questo proposito un esempio paradigmatico).
E un’altra aggravante: si ignora, o si vuole ignorare, come effettivamente funziona la giustizia penale, e che cosa, effettivamente, sia il carcere.
Si può sul serio pensare che sfruttamento, oppressione, disuguaglianza di risorse, di potere (anche simbolico), discriminazioni varie si possano affrontare con la giustizia penale? Certo, come già notavo trenta anni fa, se tutta questa serie di processi e condizioni che un tempo ritenevamo “strutturali” viene ridefinita “violenza”, il primo passo in questa direzione è compiuto. Tra l’altro, la giustizia penale sembra offrire una soluzione semplice e a portata di mano. Solo che non è la soluzione, e nemmeno una parte della soluzione: piuttosto, è una parte consistente del problema.
Alcune autorevoli giuriste femministe italiane (Silvia Niccolai e Elisa Olivo, Maternità filiazione genitorialità, 2017) evocano il principio giuridico di derivazione romanistica mater semper certa est, in quanto baluardo fondamentale della libertà femminile. Questo principio, secondo cui è madre chi partorisce, in effetti regola(va) la maggior parte delle legislazioni europee in materia di filiazione. Tuttavia, questa antica massima non è più vera, giacché appare in palese contraddizione con la realtà di una situazione in cui maternità genetica e gestazione sono separabili: in nome di quale logica possiamo dire che sono “madri” solo le donne che partoriscono e non quelle i cui ovuli vengono fecondati?
C’è un’alternativa, per un verso alla proibizione e per altro verso a contratti spesso onerosi e punitivi? Molte femministe italiane (vedi ad esempio Il Gruppo del mercoledì, 2017) si sono espresse per una legge che non vieti, ma piuttosto riconosca il diritto prevalente della portatrice, cui si lasci l’ultima parola (come accade per esempio nel Regno Unito).
Non che questo risolva tutti i problemi, anche perché lascia irrisolta la questione della maternità genetica: l’asimmetria naturale tra uomini e donne rispetto alla riproduzione, come dicevo, non si limita alla gestazione, giacché ottenere ovuli è molto più difficile e oneroso che ottenere spermatozoi. Tuttavia, potrebbe servire da principio guida per una regolazione giuridica di questa pratica. Se ciò che ci sta a cuore è la libertà femminile, la gestazione per altri non può essere proibita, poiché rende possibile la maternità anche a donne che, sebbene fertili, non possono portare avanti una gravidanza. Ma una regolamentazione è necessaria, per tutelare le donne che accettano di farlo in loro vece, la cui libertà è altrettanto importante e preziosa. Il principio cardinale, ritengo, è la centralità delle donne nel processo riproduttivo.
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