Le menzogne di Stato
«Mai si mente così tanto come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo una battuta di caccia» ironizzava Bismarck, e aveva tre volte ragione. A cominciare dalle elezioni: quelle organizzate in Russia, in Bielorussia e in altre repubbliche dell’ex-Unione Sovietica sono state sempre manipolate senza vergogna. In genere il potere otteneva oltre il 90% dei suffragi, dopo aver accuratamente eliminato dall’arena politica partiti o esponenti politici ingombranti.
Per non dire delle guerre, dove le menzogne abbondano come gramigna. Nell’aggressione all’Ucraina si è raggiunto l’acme: per il Cremlino la “guerra” neppure esiste, si tratta di una “operazione speciale”. Stroncato il dissenso interno, il regime ha convinto la gente che lo scopo dell’operazione speciale sia “metter fine all’espansione dell’America e al suo progetto di dominio globale” (così in un’intervista alla tv l’11 aprile il ministro degli Esteri Lavrov, un tempo stimato per buon senso e abilità diplomatica). Risultato? La retorica di regime ha convinto che l’Ucraina sia diventata un avamposto neonazista e che vada liberata dai suoi demoni. Peccato che siano pochi gli ucraini desiderosi di essere “liberati” dai russi o da mercenari filonazisti della Wagner…
Quanto alle battute di caccia citate da Bismarck, cos’altro è se non un tiro al piccione quell’accanirsi a sparare contro cittadini inermi e lasciati morire per strada? Eppure, il Cremlino sostiene trattarsi di finti cadaveri posati qua e là dagli ucraini ad uso dei fotografi; insomma, una messa in scena. All’epoca Bismarck non poteva immaginare l’invenzione dei social e quanta fuffa siano in grado di spargere tra i consumatori di notizie. Questo conflitto non si combatte solo sul terreno, ma anche nella infowar. É la disfatta dell’informazione. Parecchi russi ormai credono che l’Ucraina si sia venduta agli USA per destabilizzare la Russia, ad esempio contaminando la popolazione con dei virus creati apposta (sic).
Un caso scandaloso riguarda le micidiali cluster bombs, vietate dalla Convenzione di Oslo del 2008 e ratificata da oltre 100 Stati (ma non da Russia né Ucraina). Le bombe a grappolo che conosco funzionano così: un aereo sgancia degli involucri che roteando nell’aria si aprono e lasciano cadere grappoli di piccole bombe; alcune esplodono subito, altre si depositano intatte sul terreno o sugli alberi in attesa che passi un malcapitato, spesso un bambino attirato da quel simil-ninnolo. (L’aviazione israeliana, prima di ritirarsi dal sud del Libano dopo la guerra del 2006, ne sganciò uno stock sugli uliveti; quando arrivai sul posto con i “caschi blu” dell’Onu, le cluster bombs avevano già mutilato un bimbo e impedivano la preziosa raccolta delle olive). Adesso Kiev accusa i russi di averle usate; Mosca lo nega contro ogni evidenza (quanto a Israele, si limitò al solito no comment).
Una legge russa varata a marzo condanna fino a 15 anni di carcere chi propaga “false notizie”. A norma di legge, quindi, i primi ad esser condannati dovrebbero essere i propagandisti del Cremlino, incluso Kirill, il paludato papa di Mosca, che da vecchio agente del KGB ha officiato il 3 aprile una cerimonia religiosa in cui ha proclamato in stile mussoliniano: “Abbiamo spezzato le reni al fascismo”. Di fronte a questa alleanza fra trono e altare non resta che consolarsi con la saggezza di Lucrezio: tantum religio potuit suadere malorum (a tali misfatti può indurre la religione).
Il fallimento della diplomazia: un conflitto evitabile
«Chi dimentica il passato sarà condannato a riviverlo» scriveva il filosofo americano George Santayana, osservando quanto poco importasse ai suoi concittadini la storia del passato. Parole profetiche. Dato che la retorica bellica può fare strame della verità perfino dove c’è libertà di stampa, è doveroso accennare anche alle nostre responsabilità in questa crisi. La brutale aggressione russa, infatti, non implica che l’Occidente benefici di un’indulgenza plenaria. Anzi, un onesto “autodafé” è segno di forza, non di debolezza.
Al crollo del Patto di Varsavia, Mosca ritirò le sue truppe dai Paesi satelliti, contando su un sistema di sicurezza collettiva sotto l’egida dell’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione Europea, forte di 57 membri). La “Carta della nuova Europa” adottata dall’Osce nel 1990 riconosceva che la sicurezza è indivisibile e si costruisce su fiducia e disarmo. Ma la Nato non resisté alla tentazione di espandersi fino a circondare la Russia da Capo Nord all’Anatolia. L’Ucraina, col Memorandum di Budapest (1994), accettò di trasferire in Russia i suoi 1900 ordigni atomici in cambio del rispetto della propria indipendenza e integrità territoriale, violata ora da Mosca.
Il 10 febbraio 2007 Putin partecipò a Monaco all’annuale Conferenza sulla Sicurezza, dove presentò un nutrito cahier de doléances davanti a un pubblico piuttosto infastidito. L’anno dopo, al Consiglio Nato-Russia di Bucarest Putin fu umiliato di nuovo: Bush aveva disinvoltamente proposto di aprire la Nato all’Ucraina e alla Georgia, guadagnandosi l’onore – caso unico al mondo – di vedersi intestata una George W. Bush Avenue a Tbilisi. Non importa che Kiev disti 3000 chilometri dall’Atlantico e solo 700 da Mosca. Anche un bimbo avrebbe giudicato inaccettabile l’espansione dell’Alleanza Atlantica fino a incidere il “ventre molle” della Russia. In un tentativo di reset Obama firmò con Putin un nuovo trattato (Start III) per la riduzione di ogive nucleari strategiche e Mosca offrì una bozza di Trattato sulla Sicurezza Europea contenente misure di prevenzione delle crisi. La Nato oppose una fin de non recevoir e intanto installava sistemi antimissili in Polonia, con la scusa di intercettare eventuali missili provenienti dall’Iran (dall’Iran!?).
Nel 2014 a Kiev il movimento Euromaidan cacciò il presidente filorusso Janukovich. Il nuovo governo decretò l’ucraino unica lingua ufficiale, benché il russo fosse la lingua comune a tutti. Mancava solo che la Nato riaprisse le porte all’adesione di Kiev… Ecco infatti Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, ribadire stoltamente il “sacrosanto” principio che non si può impedire a un Paese europeo di entrare nell’Alleanza. A tanto la cieca hubris aveva trascinato l’Occidente, invece di puntare alla soluzione ragionevole suggerita da Kissinger: la neutralità, sul modello di Austria, Finlandia, Svizzera, Svezia, Irlanda, Malta e Cipro.
A quel punto la Russia reagì. Si riprese senza colpo ferire la Crimea, russofona, che Kruscev aveva trasferito all’Ucraina nel 1954. Due provincie del Donbass a maggioranza russa richiesero più autonomia da Kiev; per accordargliela, tra il 2014 e il 2015 vennero siglati a Minsk due Protocolli, mai implementati. Così iniziò un conflitto strisciante nell’indifferenza generale. Nel dicembre scorso Mosca fece due ultime offerte: propose agli USA un Trattato bilaterale sulle Garanzie di Sicurezza e alla Nato un pacchetto di Misure di Sicurezza più vincolanti di quelle concordate nel 1975 a Helsinki. Offerte ovviamente strumentali, con l’esercito russo che si stava già schierando; ma averle archiviate senza neppure discuterle è stato l’ennesimo affronto. Quante sono state le occasioni perdute dalla diplomazia in un ventennio? Tante, troppe.
L’armamentario di guerra
«Occhio per occhio e il mondo diventa cieco» predicava il Mahatma, poco ascoltato dai suoi conterranei – induisti e musulmani – intenti a scannarsi nel più sanguinoso conflitto dell’epoca. Conviene dare subito i numeri. Le spese militari nel mondo hanno superato la fatidica soglia dei 2000 miliardi di dollari, raddoppiando quella che parve a suo tempo scandalosa: la soglia dei 1000 miliardi. A questa cifra stratosferica si è arrivati grazie soprattutto agli Stati Uniti, che da soli investiranno quest’anno 800 miliardi di dollari. Oggi gli USA spendono 12 volte più della Russia (attestata sotto i 70 miliardi); e la Nato nel suo complesso spende 17 volte più della Russia. Chi ci guadagna? Anzitutto le aziende produttrici, in particolare le “sette sorelle”: Lockheed Martin (prima nel mondo in quanto a profitti) e poi Raytheon, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics, Bae Systems e Norinco, l’unica non statunitense (è cinese). Il 13 aprile il Pentagono le ha convocate (tutte salvo la Norinco) per informarle che l’Amministrazione intendeva quadruplicare l’aiuto militare all’Ucraina e le invitava ad accelerare le rispettive produzioni. Quasi fosse necessario convincerle! Come dice papa Francesco: “Le guerre servono per testare nuove armi”.
Biden ha stanziato l’ingente pacchetto di aiuti all’Ucraina (40 miliardi di dollari) ai sensi del Lend-Lease Act, la cosiddetta “legge affitti e prestiti” del marzo 1941 con cui Roosevelt – senza ancora entrare in guerra – poté fornire enormi quantità di aiuti ai Paesi belligeranti, Urss compresa. Affitti e prestiti per modo di dire, visto che non furono mai risarciti né lo saranno stavolta. Ma è un dettaglio di poco conto. Ciò che importa ora è monitorare il tipo di armamenti consegnati alle forze ucraine, per due buoni motivi: che siano strettamente difensive (benché sia arduo distinguere tra difensivo e offensivo) e perché troppe volte è accaduto (vedi Iraq e Afghanistan) che armi USA di alta tecnologia siano finite in mani avversarie e usate poi contro gli americani stessi.
Varcando i ben vigilati cancelli della Nato alla periferia di Bruxelles, impressiona notare quanta nuova burocrazia si è creata dopo la fine della minaccia sovietica. Al crollo dell’Urss un grande esperto d’America, Georgy Arbatov, ironizzava: “Vi faremo una cosa terribile, vi priveremo del nemico”. Si sbagliava. Aveva ragione, invece, l’ex-ambasciatore americano a Mosca George Kennan: “Anche se l’Urss sprofondasse in mare domani, il nostro complesso militare-industriale resterebbe intatto in attesa di inventarsi altri avversari”. In effetti, se si guarda il mondo con l’occhio di Mosca viene da chiedersi: che ci fanno 200.000 militari americani super-armati in 750 basi sparse sui cinque continenti? Nel frattempo, la Nato si è data un nuovo ruolo: esportare la democrazia, un compito non proprio adatto per un organismo militare, come si è visto nel disastro afghano. Se è vero che la funzione crea l’organo, qui è stato l’organo a creare la funzione.
I costi di questo apparato sono cresciuti man mano che si allargava. Washington insisteva da anni per aumentare le rispettive quote, finché nel 2014 si concordò di destinare alla spesa collettiva almeno il 2% del Pil (per ironia dei numeri, il 2% corrisponde alla percentuale del Pil che Washington investì per il Piano Marshall). Devolvere il 2% del Pil è un impegno gravoso per molti, tra cui l’Italia, che infatti ha traccheggiato finora facendo ammuina. Invece la Gran Bretagna post-Brexit, nostalgica dell’impero e insensibile all’impoverimento dei suoi concittadini, propone di rafforzare la Nato devolvendo oltre il 2% del Pil dei suoi membri. Ed è quanto faremo, nonostante la stagflazione. Ma questa continua corsa al riarmo ha senso? Aumentare di continuo gli armamenti è come costruire sempre nuove autostrade per alleggerire il traffico: in realtà lo incentiva.
Fra Europa e Stati Uniti gli interessi si divaricano
«When America shits the bed, the rest of the world must lie in it» (quando l’America la fa nel letto, il resto del mondo deve dormirci dentro). Sarà una battuta triviale, ma esprime bene il concetto.Ruotando un mappamondo si scovano pochi luoghi in cui gli USA non siano intervenuti con armi o denaro per installare despoti di fiducia («He may be a son of a bitch, but he’s our son of a bitch»). Dall’Africa di Lumumba alla Grecia dei colonnelli; dall’America Latina (Cile, Panama, Cuba, Guatemala, Santo Domingo, Grenada, Nicaragua, El Salvador, Bolivia) all’Asia (Iran, Indonesia, Vietnam, Laos, Cambogia, Filippine, Afghanistan, Iraq). Perfino San Marino, retto nel dopoguerra da una coalizione social-comunista, subì le attenzioni di Washington: bastò nel 1957 distribuire un pugno di dollari agli esponenti socialisti del governo locale.
Secondo Fukuyama “oggi il maggior pericolo di politica estera per gli USA è la divisione degli americani in politica interna”. Perciò l’Amministrazione Biden è spronata non solo a respingere l’invasione dell’Ucraina, ma anche a piegare l’attuale regime russo. Lo si intuì a marzo, allorché Biden si lasciò sfuggire a Varsavia un cri de coeur spontaneo (“per carità di Dio, quell’uomo non può restare al potere!”) che fece rabbrividire i diplomatici, mentre al Cremlino si brindava alla sua gaffe. Il mese dopo ci pensò il Segretario alla Difesa Lloyd Austin a rincarare la dose: “Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto da non poter più fare cose come invadere l’Ucraina”. Mancavano solo due paroline – regime change – e la frittata era completa.
Ironizza Jeffrey Sachs, economista americano di vaglia e consigliere del governo russo nei primi anni Novanta: «Cosa significa “sconfiggere la Russia”? Conosco bene il mio Paese. I nostri leader sono pronti a combattere fino all’ultimo ucraino! Sarebbe meglio fare la pace che distruggere l’Ucraina in nome della “sconfitta” di Putin» (intervista al Corriere della Sera del 2 maggio). Jeffrey Sachs sa di cosa parla. Il 7 maggio, mentre Zelensky ammetteva implicitamente di poter rinunciare alla Crimea, il Segretario Generale della Nato Stoltenberg si faceva intervistare dalla stampa europea per proclamare: “L’annessione illegale della Crimea non sarà mai accettata dai componenti della Nato”, aggiungendo – bontà sua – che ovviamente spetterà agli ucraini decidere. A parte il fatto che la parola “mai” non esiste in politica, è bene fargli sapere che gli europei, abituati da mille anni a modifiche di confini, preferiscono salvare la vita degli ucraini piuttosto che la intangibilità delle frontiere.
Mosca ha trascinato l’Ucraina verso una guerra di attrito e di logoramento, in cui la Russia è invincibile: così accadde contro la Svezia nel ‘700, contro Napoleone nell’800 e contro la Germania nazista nel ‘900. Saranno gli europei e gli africani, dopo gli ucraini, a pagarne il prezzo più elevato, con un’inflazione che sta sfiorando le due cifre. Il caro-energia è completamente a nostro carico, mentre i produttori americani possono solo guadagnarci. La nuda realtà è che, a differenza degli Stati Uniti, l’Europa occidentale confina con la Russia e dipende in gran parte ancora dal suo gas. Ma tutto ciò lascia indifferente molti membri del Congresso e alti funzionari come Victoria Nuland, Sottosegretaria al Dipartimento di Stato, famosa per aver urlato nel 2014 a Kiev “Fuck off Europe”, mentre arringava gli ucraini contro Mosca con metodi da Far West e offensivi per l’Unione Europea.
Le sanzioni contro Mosca
«Quando gli elefanti combattono fra loro, è l’erba che ci rimette». Sanzionare i governi che si comportano “male” nei giudizi di Washington è sempre visto “bene” dal popolo americano: le sanzioni suonano come una punizione meritata senza essere cruenta. Lo scolaretto indisciplinato viene messo in un angolo della classe senza esser preso a vergate sul sedere. In tempi recenti Washington ha sanzionato Cuba, Iran, Corea del Nord, Iraq, Afghanistan, Myanmar, Venezuela, col risultato di aver rafforzato quei regimi. Oggi tocca alla Russia. Però, il Fondo Monetario calcola che il Pil della Russia diminuirà quest’anno non oltre il 10%: vale a dire una perdita non così drammatica per un popolo abituato a ben altri sacrifici.
Ancora non è calcolabile, invece, quanto le sanzioni costeranno a chi le applica, cioè a noi, ma lo sapremo presto. Finora stiamo vivendo la fase euforica di solidarietà verso gli aggrediti, a cui fatalmente seguirà il momento dei dubbi: la Crimea e il Donbass valgono tutti questi sacrifici in caro-energia, inflazione e decine di miliardi per ricostruire l’Ucraina? Già oggi gran parte del mondo non europeo mostra scarso interesse alla sorte del popolo ucraino. In Asia solo tre Stati si sono allineati alle sanzioni: Giappone, Singapore e Corea del Sud. Quanto alla Cina, nessuno poteva sperare di renderla partecipe delle sanzioni, ma sarebbe stato saggio convincerla almeno a tenere una posizione meno vicina a Mosca. Invece Putin ha agito prima e meglio di noi.
E l’India? Di fronte alle pressioni occidentali per indurla a sanzionare il petrolio russo, il ministro delle Finanze indiano ha ribattuto: “Io faccio gli interessi della mia gente. Se quel petrolio mi viene offerto scontato del 30%, perché non dovrei comprarlo?” (e una volta raffinato, troverà modo di rivenderne una parte). Anche il suo collega, ministro degli Esteri, a un certo punto è sbottato: “E’ ora che l’Europa si liberi da un atteggiamento mentale secondo cui i suoi problemi sono problemi del mondo intero”. Ha ragione: liberarci dal nostro radicato eurocentrismo sarà un passaggio penoso ma indifferibile.
Chi soffre di più sono i milioni di indigenti nel mondo che hanno visto raddoppiare e triplicare i prezzi dei cereali e dei fertilizzanti, di cui Russia e Ucraina sono i massimi produttori ed esportatori. Calcolando che ogni arabo consuma tre volte più pane e semola di ogni europeo, gli effetti si notano su tutte le mense arabe delle famiglie non facoltose: in Egitto 50 milioni di persone devono convivere con una penuria tale da far temere disperate rivolte del pane. Lo stesso accade nel resto del Nordafrica e nel Corno d’Africa, regioni già colpite da una prolungata siccità. Che fare? Tutti i Paesi che soffrono di una penuria dovuta alla guerra nel Mar Nero dovrebbero almeno firmare un appello collettivo a Russia e Ucraina per mettere i due contendenti in mora di fronte a tale disumanità.
Intanto c’è chi accumula profitti insperati. Sono le multinazionali di trading di cereali, fertilizzanti e composti azotati (Cargill in testa). Sono le multinazionali (Gunvor, Glencore, Trafigura, Vitol e poche altre) che trattano materie prime indispensabili come il nickel, il ferro, l’alluminio, il rame, il piombo; e purtroppo anche il carbone, ridiventato una commodity di prima necessità, alla faccia degli impegni internazionali presi a Parigi. Le quotazioni di queste società sono più che raddoppiate in un anno; eppure il loro nome non dice nulla alla gente comune, perché dalle loro sedi di Ginevra, Londra o Singapore evitano accuratamente di farsi pubblicità. Non ne hanno bisogno.
Putin, la sua Russia e i rischi nucleari
«Quos Deus vult perdere, dementat prius». In “Guerra e Pace” Tolstoj cita questa antica massima per spiegare l’azzardo fatale di Napoleone partito in campagna contro lo zar Alessandro. Altrettanto azzardata è la campagna di Putin in Ucraina. Possibile che ignorasse con quale entusiasmo sarebbe stato accolto? Certo, si dovrebbe porre la stessa domanda agli americani: possibile che nessuno avesse spiegato alla Casa Bianca come sarebbero stati accolti in Iraq? Possibile che le migliaia di agenti della Nato in Afghanistan ignorassero che i talebani erano già presenti nelle 34 province del Paese per assumere il comando l’indomani del ritiro degli occidentali?
Tutti ci siamo posti il quesito: Putin ha deciso la campagna d’Ucraina per timore della Nato o per timore della democrazia? Probabilmente per entrambi i motivi. Cresciuto nel KGB, non può liberarsi dal complottismo. Le testimonianze di chi lo ha incontrato nel corso del tempo coincidono. Condoleezza Rice ricorda un uomo “freddo e calcolatore, ma ora erratico, vittimista, che se la prende con Lenin per aver creato l’Ucraina”. William Burns, direttore della Cia, conferma: “Negli anni ho visto Putin nutrirsi sempre più di un’esplosiva miscela di rancore, ambizione e insicurezza”.
La “esplosiva miscela” cui accenna Burns va monitorata, perché ogni dittatura tende all’autarchia e l’autarchia conduce all’autismo politico. Lo ha rivelato platealmente l’ex-presidente Dmitrij Medvedev su Instagram: “Li odio. Sono bastardi e degenerati. Vogliono la morte della Russia. Finché sarò vivo farò di tutto per farli sparire”. Uno sfogo che non lascia dubbi sul suo malessere paranoide: far sparire l’Occidente in una palingenesi cosmica? L’autismo degli autocrati è una grave minaccia per tutti, a partire dai propri concittadini: oggi si ha l’impressione che l’intero popolo russo sia stato rinchiuso dietro le possenti mura del Cremlino per sfuggire a chissà cosa. L’autismo politico è pericoloso, a tal punto da giustificare una riforma che al momento suona velleitaria: nominare in ogni governo uno psicanalista giurato e indipendente, come lo è nelle moderne democrazie l’ombudsman, il difensore civico. La Roma imperiale l’aveva già capito, se è vero che sul carro del vincitore stava dietro di lui un commesso tenuto a ripetergli all’orecchio: memento mori.
I capi di Stato delle potenze nucleari, prendendo in consegna la valigetta con le chiavi dell’arma atomica, ricevono un’investitura che li incatena a una potenza distruttiva. Va sempre rammentato l’angosciante quesito posto dal filosofo Günther Anders: l’umanità si è forse fatta sorpassare dalla propria potenza distruttiva? Quell’incubo torna a scuotere i nostri sonni, dopo aver udito i velati accenni di Putin a ricorrere, se necessario, a qualche ordigno nucleare tattico. Nel 2010 Obama riunì a Washington i 47 Paesi dotati di materiale fissile (tra cui l’Italia). A loro confessò l’incubo che lo inseguiva da quando, senatore, aveva visitato i precari arsenali nell’ex-Unione Sovietica. E impegnò tutti a riunirsi ogni biennio: a Seul nel 2012, all’Aja nel 2014, a Washington nel 2016, immaginando che il successore avrebbe proseguito la lotta contro i rischi di un “inverno nucleare”. La vittoria di Trump ha messo fine a ogni speranza.
Adesso l’intero continente, Russia inclusa si trova pericolosamente esposto. Sono scaduti uno dopo l’altro il Trattato sui Missili Antibalistici, il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa e il Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie. Resta in vigore (fino al 2026) solo il Trattato del 2010. Urge una Conferenza al massimo livello, pari a quella conclusa con successo a Helsinki nel 1975, per concordare un nuovo sistema di sicurezza europea. Nel frattempo noialtri – come Ungaretti nelle trincee della Grande Guerra – “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.
Proposte balzane per avvicinarsi alla pace
«Al momento di marciare – molti ignorano – che alla loro testa marcia il nemico. – La voce che li comanda – è la voce del loro nemico. – E chi parla del nemico – è lui stesso il nemico». Chi in Russia non ricorda Bertolt Brecht e “La resistibile ascesa di Arturo Ui”, tra le sue opere più popolari? Memorabile il prologo: “Oggi, spettabile pubblico, presentiamo la cavalcata storica dei gangster… E in prima assoluta, ecco il gangster di tutti i gangster, il notorio Arturo Ui!”. Sarebbe il momento di rimetterla in scena, con le guglie del Cremlino sullo sfondo, perché quel regime assomiglia sempre meno a una dittatura tradizionale e sempre più a una gang di malfattori.
A questa andrebbe aggiunta un’altra opera teatrale: “Lisistrata”, la commedia di Aristofane che narra delle donne ateniesi scese in sciopero del sesso finché i mariti non la smettono di combattere la disastrosa guerra nel Peloponneso. “Siamo noi a portare della guerra un peso doppio – si lamenta Lisistrata adirata – partoriamo i nostri figli e poi li mandiamo a fare gli opliti”. Mettere in scena “Lisistrata” sarebbe un’idea balzana? Va chiesto alle mogli e alle fidanzate dei russi al fronte.
Secondo l’istituto russo di sondaggi Levada, la Russia odierna è una “società chiusa”. Però i giovani padroneggiano internet, si interessano al mondo esterno e guardano poco la tv governativa. Conviene puntare sui giovani e chiedere a loro: se l’Ucraina è parte del Mondo Russo, perché Putin si ostina a distruggerla? Chi pagherà per ricostruire il Donbass? E le sofferenze umane? E i vostri imberbi coetanei provenienti da famiglie povere della Siberia spediti al fronte senza sapere perché? Con l’assalto all’Ucraina Putin ha raggiunto un consenso interno dell’80%; altrettanto repentino sarà il dissenso se i giovani si scrolleranno di dosso questa cappa di torpore e di timore. Fu la piazza a segnare la fine dell’impero zarista. Se il popolo ebbe il coraggio di ribellarsi ai massacri del 1905 e del 1917, perché non potrebbe farlo con i mezzi odierni di comunicazione?
La Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, che ha sede a Budapest, vanta al suo attivo l’organizzazione di 19 Festival della Gioventù, dal primo nel 1947 a quello di Soci nel 2017, a cui intervennero 30.000 giovani di ben 185 Nazioni. L’Austria, Paese neutrale ed accogliente, potrebbe ospitare il prossimo. Questo e altri incontri fra giovani finirebbero per suggellare alleanze transfrontaliere in nome del comune destino: salvarsi dalle catastrofi climatiche. Il pauroso scioglimento del permafrost in Siberia, l’inquinamento da energie fossili, il sollevamento dei mari, i fenomeni estremi del clima sono tutte tragedie incombenti, che rendono quasi infantile e suicida la voragine di spese per armamenti e la violenza bellica scatenata per accaparrarsi fette di territorio devastato dalle bombe.
I governi terzi facciano la loro parte. Convincano i due contendenti almeno a una tregua, se non a un armistizio, offrendo proposte di confidence building. La Crimea? Senza perdere la faccia il governo ucraino proclami la Crimea formalmente restituita alla Russia, interpretando la cessione decisa da Kruscev nel 1954 come un “prestito temporaneo” per celebrare un anniversario. In cambio Mosca dovrebbe accettare di riaprire sotto l’egida dell’Osce gli accordi di Minsk sul Donbass e di mettere sotto protezione internazionale il ponte che lo unisce alla Crimea.
Si tratta di idee insensate? Forse, ma nulla è più insensato del rovinoso conflitto in corso.
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