Quasi un quarto di secolo fa, precisamente nel 2001, un economista britannico conservatore, che ricoprì cariche importanti nella Goldman Sachs e nel Governo di Cameron, Terence James O’Neill, coniò l’acronimo BRIC – ed è per questo che il mondo lo ricorda – avvertendo che Brasile, Russia, India e Cina erano destinate in un prossimo futuro a trainare l’economia mondiale. Possiamo dire che il barone inglese ci prese. Anche se per lui la profezia si presentava piuttosto distopica. Da allora, passando attraverso un crescente disordine mondiale, segnato da guerre di ogni tipo – 55 sono quelle attualmente in corso, secondo un attendibile calcolo – crisi molteplici di dimensioni planetarie, economiche, finanziarie, pandemiche che hanno bruscamente ridimensionato le sorti magnifiche e progressive della globalizzazione dell’ultimo ventennio del secolo scorso, il numero dei paesi attorno a quei primi quattro è venuto crescendo. Nel 2010 l’acronimo è cambiato in BRICS, grazie alla adesione del Sudafrica. Più recentemente si sono uniti al gruppo paesi – tra loro assai diversi per ragioni economiche e politiche – quali l’Egitto, l’Etiopia, l’Iran, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Di conseguenza anche la sigla iniziale è cambiata ancora una volta: “BRICS Plus”.
In questo modo si è giunti al XVI vertice dei BRICS, tenutosi tra il 22 e il 24 ottobre nella città della Federazione Russa di Kazan, sotto la presidenza di Vladimir Putin. La versione BRICS Plus/Outreach, adottata nell’ultimo giorno del summit, ha permesso di allargare la partecipazione a paesi che stanno maturando l’adesione al gruppo o sono comunque interessati a esso, raggiungendo quindi la cifra di 36 paesi, perlopiù appartenenti a quello che è stato chiamato il Global South, con la presenza anche di Stati aderenti alla NATO, come l’onnipresente Turchia fisicamente rappresentata da Erdogan. Erano presenti anche l’ANP con il suo presidente Abu Mazen in rappresentanza dello Stato di Palestina e il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres. Quest’ultima presenza ha particolarmente indispettito la stampa internazionale di orientamento mainstream, fino a spingere alcuni commentatori a scrivere che questo atto di presenza di Guterres era solo l’ultima dimostrazione di quello che secondo loro le Nazioni Unite avrebbero perso, ovvero l’autorità morale di parlare a nome dell’umanità. Accusa non lieve, che si aggiunge, questa sì, a un continuo processo di delegittimazione dell’ONU, dei suoi organi, del suo Segretario generale, che è arrivato fino all’aggressione armata all’UNIFIL da parte dell’esercito israeliano, alla dichiarazione da parte di Israele di persona non gradita – e quindi impedita all’ingresso in quel paese – nei confronti dello stesso Guterres e all’indicibile dichiarazione di Netanyahu sull’Assemblea dell’ONU quale “ palude di bile antisemita”.
Malgrado i tentativi della stampa europea e filostatunitense di sminuire l’importanza delle decisioni assunte dal summit, appare evidente l’impossibilità di ridurre l’evento a una platea per Putin o di sostenere l’inconsistenza degli esiti raccolti nella Dichiarazione finale. È evidente che siamo di fronte a un evento mondiale di prima grandezza, ben di più di una speranza che si accende in un mondo e in un periodo cupi. L’incontro di Kazan, anche per il contesto mondiale nel quale si è venuto a collocare, costituisce un sensibile passo in avanti rispetto ai precedenti vertici dei BRICS, senza bisogno di nascondere limiti e problemi che pure si sono evidenziati e non avrebbero potuto non esserci né restare nascosti.
Anzitutto va ricordata la dimensione quantitativa, sotto diversi aspetti, che i BRICS rappresentano nel contesto mondiale. Le cifre non possono essere esatte all’ultimo decimale, ma anche i commentatori meno favorevoli attribuiscono al blocco dei BRICS il 35,6% del Pil globale in termini di parità di potere d’acquisto, superando quindi il G7 che non raggiunge il 31%, mentre contano il 44,4% della popolazione mondiale contro meno del 10% che vive nei paesi del G71. Rappresentano dunque quasi la metà della popolazione vivente sul pianeta. Non solo, ma sono in crescita da ogni punto di vista, mentre le aggregazioni dei paesi forti non godono di particolari successi2. Impossibile quindi non prenderne atto, seppure in dimensioni molto riduttive e svalorizzanti come ha fatto la stampa internazionale mainstream.
Uno dei modi per depotenziare gli esiti di un incontro politico, quando non si può usare il silenzio né altri sistemi, è quello ben noto di attribuire al medesimo pretese che in realtà non erano in partenza realistiche per poi gridare al fallimento. Ed è il metodo che è stato seguito in questo caso. Si sono visti, sì erano tanti, hanno chiacchierato, ma infine non hanno concluso nulla. Questo è il cliché utilizzato a piene mani. Così è stata trattata la Dichiarazione finale in 134 punti, come se fosse un albo dei sogni senza nessuna possibilità di attuazione, anche perché, si è subito sottolineato, non tutti erano d’accordo su tutto. Va detto che a questo clichè si è sottratto Romano Prodi, giustamente preoccupato dell’assenza di un ruolo dell’Europa in questo grande processo di cambiamento del quale i BRICS si offrono come parte attiva3. Che “Cindia” fosse una invenzione linguistica e che invece tra Cina e India siano in corso tensioni non solo di confine, ma anche di carattere economico e di relazioni internazionali, non è un segreto per nessuno. Ma anche su questo punto l’incontro di Kazan ha forse rappresentato qualche passo in avanti, visti i numerosi colloqui bilaterali che si sono tenuti a margine del vertice tra i principali leader, come quello tra il Presidente cinese Xi e il Primo ministro indiano Modi, tra i quali non avveniva un incontro formale da cinque anni e di cui sicuramente andranno valutati con attenzione gli effetti in un futuro prossimo ravvicinato.
Ma appunto questa è una delle principali caratteristiche della modalità che unisce i BRICS: quella di non considerare l’appartenenza a questi ultimi come esclusiva ed escludente rispetto ad altre contemporanee collocazioni. Il caso della Turchia è esemplare da questo punto di vista: è un paese della NATO, ma non per questo non viene accettata, anzi, nel concerto dei BRICS. Il che comporta una visione del mondo dentro un processo di trasformazione, per cui blocchi e alleanze, egemonie e supremazie, dipendenze e protagonismi non sono dati una volta per tutte, ma possono essere oggetto di una modificazione anche radicale. Si tratta di una critica implicita, ma profonda, a una logica divisiva cui erano e sono tuttora legate visioni della separazione del mondo in blocchi: o con me o contro di me. La lettura prevalente, anche nel campo dei simpatizzanti, degli esiti del vertice di Kazan come di una sfida lanciata all’Occidente, rischia di adagiarsi sullo schema teorizzato e praticato da chi fin qui ha dominato il mondo e vuole continuare a farlo, e quindi, di essere deviante. Se non ci si libera da questa interpretazione unilaterale risulta difficile comprendere, ad esempio, come Lula possa essere uno dei principali e più attivi attori nel rilancio e nella crescita dei BRICS, e al contempo si prepari a ospitare in Brasile il 18 e 19 novembre il G20, annunciando che le proprie priorità riguardano l’inclusione sociale, la lotta alla fame, la transizione energetica, il sostegno allo sviluppo e le riforme del sistema di governance internazionale. Coerentemente si sottolinea la positività della inclusione dell’Unione Africana nel G20, già decisa a Nuova Delhi nel 2023 (punto 14 della Dichiarazione).
Un programma ambizioso, come si vede, che naturalmente riempie anche le pagine della Dichiarazione finale di Kazan. Ad esempio, in uno dei primi punti, il settimo, si riconosce esplicitamente il valore della “chiamata all’azione del G20 sulla riforma della governance globale lanciata dal Brasile durante la presidenza del G20”4. La strategia per la costruzione di un mondo multipolare, equo e sicuro (come dice il titolo della Dichiarazione finale di Kazan), non poggia principalmente sulla creazione di un altro polo contrapposto a quello statunitense da tempo in declino – ma ancora persistente – creando le condizioni di un nuovo bipolarismo, quanto su un lavoro di erosione, riforma e/o sostituzione delle istituzioni politiche ed economiche che hanno retto il mondo dopo il secondo conflitto mondiale, sia ai tempi della “guerra fredda” fra USA e URSS, sia a quelli del Washington consensus del post ’89.
Non è forse azzardato intravedere qui – cioè nella concezione di un mondo che per la propria pace rifiuta alla radice la divisione in blocchi contrapposti – tracce lasciate, e lungamente sedimentate nel tempo, dalla Conferenza di Bandung del 1955, svoltasi in una situazione mondiale completamente diversa dall’attuale, che intendeva unire quelli che allora venivano definiti i “paesi non allineati”, quindi non attratti né nella sfera statunitense né in quella sovietica.
Quindi la Dichiarazione (punto 8) difende l’ONU dall’attacco cui è attualmente sottoposto dalle forze di destra e filoatlantiche, Israele in testa, ribadendo però la necessità di una sua integrale riforma “incluso il suo Consiglio di sicurezza, al fine di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed efficiente e [prevedendo] la rappresentanza dei paesi in via di sviluppo al suo interno”. Così si sottolinea l’importanza della riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) dando vita, a questo fine, all’istituzione del Brics Informal Consultive Framework, denunciando al contempo le “misure coercitive unilaterali illegittime, tra cui le sanzioni illegali, sull’economia mondiale” (punto 10).
L’impianto della Dichiarazione risponde quindi alla necessità di rimuovere le cause di fondo, economiche e sociali, che non solo determinano le profonde diseguaglianze esistenti tra i paesi e al loro interno, ma costituiscono anche la base materiale su cui si sviluppano le guerre. Non è un caso – io credo – che si giunga a parlare esplicitamente e dettagliatamente di un impegno a prevenire i conflitti “anche affrontandone le cause profonde” solo dal punto 25 in poi. Ove la parte preponderante è dedicata alla condanna di Israele e alla richiesta del “cessate il fuoco” immediato a Gaza e in Libano, nella prospettiva della “istituzione di uno Stato di Palestina sovrano, indipendente e vitale in linea con i confini riconosciuti a livello internazionale nel giugno 1967, con Gerusalemme Est come capitale che vive fianco a fianco, in pace e in sicurezza con Israele” (punto 30). La Dichiarazione sottolinea la necessità di porre fine alle “guerre dimenticate” dell’Africa subsahariana, ribadendo il fondamentale principio delle “soluzioni africane ai problemi africani”.
Quasi assente è invece ogni riferimento al conflitto russo-ucraino. Per quanto se ne possano comprendere le ragioni – cui si aggrappa la stampa mainstream per qualificare Kazan come un palcoscenico per Putin – non si può non vedere qui uno di quei limiti che, come detto all’inizio, non vanno sottaciuti e tantomeno nascosti. Se ne parla solo al punto 36, ove vengono ricordate “le posizioni nazionali relative alla situazione in Ucraina e dintorni, come espresse nei forum appropriati, tra cui l’UNSC e l’UNGA” e si sottolinea che “tutti gli Stati dovrebbero agire in modo coerente con gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite nella loro interezza e interrelazione”. E si prende atto “con apprezzamento delle pertinenti proposte di mediazione e buoni uffici, volte a una risoluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo e la diplomazia”. Per quanto corretti siano questi richiami, essi appaiono troppo generici e isolati in un documento così corposo. Chi ha voluto o volesse derubricare il vertice di Kazan a una passerella filoputiniana, dovrebbe riflettere sul fatto che Putin ha invece perso l’occasione per fare emergere, in una sede così autorevole, che piani di pace sono stati avanzati ma del tutto ignorati sull’altare della prosecuzione della guerra fino alla vittoria. In particolare sono state le potenze occidentali che hanno alimentato questo mito, visto che la prosecuzione dello scontro bellico conviene a chi punta a creare un sistema e un’economia di guerra. La crescita in Borsa delle imprese collegate alla fabbricazione di armamenti non lascia dubbi su chi se ne avvantaggi.
La Dichiarazione si occupa anche di sostenere l’ONU nello sforzo di dare vita a una governance globale dell’intelligenza artificiale (punto 78), ma indubbiamente il piatto forte del vertice di Kazan, e su cui era sfidato dalle potenze a esso contrarie, era ed è quello che concerne il complesso tema di una nuova architettura finanziaria globale. Chi si attendeva che da Kazan potesse nascere immediatamente un nuovo Bancor5, può anche fingere di dirsi deluso, ma rientriamo nei casi in cui si alza troppo l’asticella per assicurarsi che qualunque balzo risulti fallimentare. Il percorso di creazione di una nuova moneta, alternativa alla primazia del dollaro, quale sbocco logico e concreto al processo di dedollarizzazione già in corso negli scambi internazionali, non è certamente breve né lineare, ma possiamo dire che è cominciato e che il vertice di Kazan ha fornito una spinta importante, se non decisiva, al suo tragitto. Ed è proprio la persistente forza del dollaro, per quanto meno rifulgente di un tempo, il terreno su cui ancora resiste, oltre che su quello militare, il primato mondiale degli Stati Uniti.
La Dichiarazione ne parla diffusamente in diversi punti raccolti nel capitolo “Promuovere la cooperazione economica e finanziaria per uno sviluppo globale equo”. Mette in rilievo il “ruolo chiave” che in questo ambito può e deve giocare la New Development Bank (NDB), la banca per lo sviluppo diventata operativa nel 2016 con sede principale a Shanghai, di cui è presidente dal marzo del 2023 Dilma Rousseff. In sostanza i BRICS puntano a “esplorare la fattibilità di collegare l’infrastruttura dei (loro) mercati finanziari […]la fattibilità dell’istituzione di una infrastruttura indipendente di regolamento e deposito transfrontaliero, BRICS Clear, […] nonché la capacità di riassicurazione indipendente BRICS con partecipazione su base volontaria” (punto 66). Non sono solo parole. Già negli ultimi anni si sono sviluppati gli scambi bilaterali fra i BRICS. Nell’ultimo anno anche come effetto delle sanzioni e del tentativo di isolamento della Russia operato dalle potenze occidentali, si è verificato l’aumento degli scambi tra Russia, India e Cina e tra Russia e Iran avvenuto sulla base delle monete locali. Lula, in particolare, da quando è tornato a essere il presidente del Brasile, è un sostenitore dell’interscambio che scavalchi il dollaro e usi le monete dei singoli paesi.
La Dichiarazione ha anche affrontato i problemi alimentari su scala mondiale, sottolineando al punto 73 “che la resilienza delle catene di fornitura e il commercio senza ostacoli in agricoltura assieme alla produzione nazionale sono fondamentali per garantire la sicurezza alimentare e i mezzi di sussistenza, in particolare per gli agricoltori a basso reddito o con risorse limitate, nonché per i paesi in via di sviluppo importatori netti di cibo”. Da qui il favore verso l’istituzione di una piattaforma di cereali (BRICS Grain Exchange) come proposto dalla Russia, con l’intenzione di estendere le sue funzioni anche ad altri settori agricoli.
Di particolare rilevanza appare il punto 108 dedicato alle politiche del lavoro e dell’occupazione, puntando a quella piena e di qualità, grazie ad un apprendimento permanente e sostenuta da una retribuzione “equa e una protezione sociale per tutti”. Mentre gli ultimi articoli riguardano il ruolo fondamentale della cultura nell’ottica di uno sviluppo sostenibile e dei rapporti con la società civile, in particolare con i movimenti femminili. Un accenno fugace, certamente, ma non di poco conto.
Siamo quindi di fronte all’ambizione di trattare molti degli aspetti che sconvolgono il mondo contemporaneo, cercando di fornire delle risposte in positivo. Non tutti, e non tutti nel modo adeguato. La continua ripetizione della locuzione “sviluppo sostenibile” non può certamente nascondere l’assenza di una adeguata riflessione propositiva sulle tematiche cruciali del riscaldamento climatico e delle scelte da operare per contenerlo. Così come il tema di un percorso pacifico in un innovativo sviluppo globale, entro un nuovo ordine mondiale da costruire, presente in quasi tutte le 32 pagine del documento finale, rende ancora più necessaria, direi obbligatoria, un’iniziativa per il disarmo e la non proliferazione del nucleare sia militare che civile. Su questi limiti e mancanze ha pesato certamente il carattere eterogeneo dal punto di vista economico, politico e sociale dei paesi presenti. Allo stesso tempo tali diversità non hanno provocato contrasti insanabili, anzi sono insieme una ricchezza e una sfida da superare per chi si riconosce in un simile percorso, che bisognerà seguire con attenzione, evitando, in particolare noi che viviamo nel vecchio continente, ogni forma di eurocentrismo. Esattamente il contrario di quanto hanno scritto in modo spregiativo quanto stolido, Aleksandr Gabuev e Oliver Stuenkl su Foreign Affairs, per i quali l’eterogeneità farebbe dei BRICS una “zuppa di lettere cucinata da un analista di Goldman Sachs”6.
Note
1 Poiché, come ho già accennato sia sulla stampa generalista quanto in quella dal taglio più specializzato sulle questioni internazionali, vi sono differenze nel calcolo di queste quantità, ho preferito fare riferimento a uno degli articoli più antipatizzanti verso gli esiti del summit di Kazan, come quello di Rosalba Castelletti “I BRICS crescono e litigano” in Affari&Finanza del 28 ottobre 2024. Confidando su studi più approfonditi in un prossimo futuro.
2 Come osserva giustamente Tonino Perna “Brics. Rivoluzione monetaria e nuovo ordine mondiale”, il manifesto, del 22 ottobre 2024.
3 Scrive infatti Romano Prodi in un editoriale su Il Messaggero del 26 ottobre 2024 (“Sfida Brics. L’Europa grande assente”): “…nessuno poteva illudersi che il vertice di Kazan cambiasse l’esistente ordine mondiale e nemmeno mettesse le basi per un futuro cambiamento. Il vertice tuttavia ha raggiunto alcuni obiettivi non certo trascurabili …”.
4 Le citazioni dalla Dichiarazione finale di Kazan del 23 ottobre 2024, contenute nel presente articolo, sono tradotte dall’originale inglese consultabile al seguente link: https://cdn.brics-russia2024.ru/upload/docs/Kazan_Declaration_FINAL.pdf?1729693488349783
5 Ovvero l’unità di conto internazionale che John Maynard Keynes propose, non ascoltato, a Bretton Woods nel 1944.
6 La citazione è riportata nel già citato articolo di Rosalba Castelletti su Affari&Finanza.
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