La trasformazione dei tradizionali modelli di lavoro innescata dall’economia digitale è ormai una realtà che la pandemia ha drammaticamente accelerato palesando tuttavia sin da subito che lo sviluppo tecnologico non si accompagna necessariamente ad un pari progresso nel campo dei diritti sociali.
L’inadeguatezza dell’ordinamento ad assicurare idonee ed efficaci forme di tutela ai nuovi lavoratori impiegati dalle piattaforme si è immediatamente manifestata imponendo una riflessione sul rapporto tra l’inarrestabile sviluppo dei nuovi scenari aperti dallo sviluppo e l’esigenza di garantire anche nel mondo dell’economia regolata da algoritmi un lavoro dignitoso, e i fondamentali diritti sociali che ne costituiscono il nucleo essenziale.
La convinzione che l’algoritmo potesse in quanto tale garantire una imparziale e corretta gestione dell’offerta di lavoro idonea a assicurare condizioni ottimali di impiego si è subito manifestata come fallace e non sorprende, quindi, che il Tribunale di Bologna (Tribunale Bologna, 31 dicembre 2020) ne abbia disvelato le capacità discriminatorie sotto il profilo sindacale in un provvedimento adottato simbolicamente a conclusione dell’anno 2020 che a ragione può essere definito l’anno dei rider.
Le caratteristiche del lavoro digitale hanno inoltre indotto – almeno inizialmente – una certa riluttanza della magistratura a utilizzare lo schema classico del contratto di lavoro subordinato per qualificare la natura dei rapporti dei lavoratori delle piattaforme in una prospettiva che ne enfatizza la libertà di lavorare di cui formalmente godono.
Questi rapporti sono invero espressione di una globalizzazione del mercato assicurata dalla iperconnettività consentita dalle potenzialità tecnologiche, da cui consegue una connaturale estrema abbondanza e flessibilità della offerta di lavoro, che rende superflua per il datore di lavoro la necessità di avvalersi di un vincolo lavorativo esclusivo e continuato per realizzare la propria impresa.
I concetti racchiusi nella sharing economy, nel crowdworking, nella collaborative economy nella peer to peer economy, nel lavoro on-demand fino alla gig economy esprimono quindi complessi meccanismi economici e innovativi sistemi di lavoro spesso diversi tra loro, che solo recentemente e grazie alla rilevanza mediatica dei rider hanno ottenuto la necessaria attenzione dei giuslavoristi.
Il rapporto di lavoro di coloro che “dipendono” per il loro sostentamento dalle piattaforme se inizialmente veniva considerato un lavoretto e, quindi, un fenomeno sociale di scarso interesse per gli studiosi e gli operatori, nel tempo ha dimostrato, per la sua capacità espansiva e la crescente rilevanza del modello, la impellente necessità di una regolamentazione ed analisi per colmare l’iniziale drammatica assenza di diritti che caratterizza il neocapitalismo digitale.
L’assenza di fisicità dello spazio virtuale, la spersonalizzazione dei rapporti, il diffuso convincimento che considera la piattaforma una sorta di mondo virtuale potenzialmente libero da vincoli origina un malinteso senso di libertà da ogni regola, dando luogo a un cocktail di condizioni nel quale una assenza di norme efficaci rende potenzialmente drammatico il contesto lavorativo.
Non a caso, infatti, Luca Biewald, CEO di CrowdFlower, una delle principali piattaforme di crowdworker ha pubblicamente dichiarato: “Prima di internet sarebbe stato difficile trovare qualcuno, farlo sedere per dieci minuti e farlo lavorare per te, e licenziarlo dopo quei dieci minuti. Ma con la tecnologia puoi trovarlo, pagarlo quel minimo che gli devi e poi disfarti di lui quando non ti serve più”.
È una constatazione persino banale per la sua semplicità, che la digitalizzazione consenta di estendere oltre ogni aspettativa il mercato del lavoro grazie alle potenzialità delle nuove tecnologie, le quali permettono di utilizzare on demand il lavoro di una massa indistinta innescando una concorrenza tra prestatori bisognosi di “likes” per accedere a possibilità di impiego, che rischia di precarizzare oltre ogni aspettativa le vite dei lavoratori del terzo millennio.
Sono quindi molteplici i profili di interesse e di studio del lavoro digitale che spaziano dall’economia all’analisi sociologica ma uno degli aspetti che maggiormente può incidere nella lotta per la conquista dei diritti e arginare la deregolamentazione che connota tali rapporti è rappresentato dal riconoscimento della dimensione collettiva dei lavoratori digitali che si affianca alla dimensione individuale del rapporto di lavoro.
Questa dimensione è vitale nella economia digitale nel quale il prestatore, privo di momenti aggregativi reali, è sostanzialmente solo nel suo rapporto con le piattaforme che lo gestiscono sulla base di algoritmi che assicurano flussi di lavoro in ragione di costanti profilazioni della sua reputazione digitale.
Mentre la magistratura nazionale, costretta nel rigido schema del lavoro subordinato definito dalla norma codicistica espressa dall’art. 2094 c.c., frutto di un modello economico estraneo al mondo delle piattaforme, fatica a riconoscere come dipendenti i lavoratori “digitali”, il legislatore del jobs act, probabilmente in forma inconsapevole ha aperto nuovi orizzonti e prospettive.
L’art. 2 del d.lgs 15 giugno 2015 n. 81 nell’estendere alle collaborazioni organizzate la disciplina del lavoro subordinato rappresenta, oggi, la porta di accesso per assicurare quel “lavoro dignitoso” sancito dalla Carta Sociale Europea al quale hanno diritto tutti i lavoratori, compresi coloro che svolgono la loro attività nell’ambito delle piattaforme.
La previsione esprime una norma di disciplina che, come di recente affermato dalla Corte di Cassazione nella nota sentenza 1663/20, non introduce un tertium genus di rapporto, ma si limita ad estendere ai rapporti di lavoro etero organizzati senza alcuna perimetrazione una protezione equivalente del lavoratore subordinato.
Nelle motivazioni della Suprema Corte si evince, quindi, chiaramente la modernità del pensiero dei giudici di legittimità e si coglie la piena consapevolezza dell’imporsi di nuovi modelli economici, nei quali le forme di collaborazione non consentono una agevole riconducibilità dei tipi contrattuali allo schema proprio del lavoro subordinato.
L’esistenza di rapporti caratterizzati da una dipendenza economica derivante dalle loro intrinseche caratteristiche impone l’estensione di una “protezione equivalente” e conseguentemente l’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato.
“In una prospettiva anti-elusiva” – si legge nella sentenza – “non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato”.
Il lavoro digitale con i suoi schemi predefiniti e standardizzati rende manifesta l’inadeguatezza della tradizionale interpretazione del lavoro subordinato, e la necessità di adottare strumenti valutativi propri della nuova economia.
A prescindere dalle operazioni qualificatorie si osserva, tuttavia, che la Cassazione ha comunque preso atto che l’etero-organizzazione accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione rende comparabile il prestatore dell’economia digitale a un lavoratore dipendente, onde estendergli incondizionatamente l’intera disciplina senza necessità di operazioni di selezione “affidate ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici”.
Tali operazioni di perimetrazione tese ad arginare l’estensione dei diritti, nonostante la chiara affermazione della Cassazione, sono invece continuate anche dopo tale fondamentale presa di posizione in un effimero tentativo di individuare, nonostante l’inequivoca affermazione della Corte, norme ontologicamente incompatibili con il lavoro etero organizzato.
In questo continuo e persistente tentativo di perimetrazione, l’estensione a tali rapporti della dimensione collettiva e dei diritti sindacali, che ne sono espressione è oggi al centro di un accesso dibattito amplificato da recenti contrastanti pronunce della magistratura.
La querelle si incentra sul riconoscimento anche ai lavoratori etero organizzati dei diritti di matrice sindacale e delle garanzie delle forme di tutela proprie dell’organizzazione sindacale rappresentativa del lavoro subordinato.
Se da un lato si ritiene che l’assenza di un “datore di lavoro” impedisca di estendere norme basate sulla tradizionale contrapposizione con il lavoratore subordinato, per altro verso si rileva che l’esistenza di una dimensione collettiva è espressamente affermata dallo stesso art. 2 d.lgs 81/15, che prevede una contrattazione collettiva stipulata da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative, alla quale è demandata in via suppletiva l’adozione di “discipline specifiche”.
Il riconoscimento di una dimensione collettiva giustificata dalla disparità economica sancita in generale per i lavoratori delle piattaforme etero organizzati e in modo specifico per i rider dall’art. 47 quater d.lgs 81/15 impone l’adozione di adeguati mezzi di tutela e di repressione di condotte idonee a comprimere illegittimamente l’azione sindacale.
L’esistenza di un diritto di contrattazione organizzata contiene in sé anche il diritto a una libera azione organizzata per la tutela degli interessi collettivi, che rende manifesta l’esigenza di assicurare anche una adeguata ed efficace tutela della dimensione collettiva nell’ambito della necessaria contrapposizione di interessi che è alla base di qualsiasi accordo sindacale.
L’art. 2 del d.lgs 81/15, nel prevedere espressamente l’esistenza di un confronto negoziale organizzato tramite associazioni sindacali, riconosce giocoforza la dimensione collettiva per tali lavoratori alla quale deve, pertanto, essere garantita una efficace protezione e promozione.
D’altra parte è significativo che i primi provvedimenti giudiziari di Firenze, Milano e Bologna che hanno affrontato il delicato tema della sfera sindacale siano intervenuti in procedimenti per la repressione della condotta antisindacale promossi da organizzazioni, che hanno visto conculcato e falsato il loro diritto di contrattazione.
L’affermazione del diritto alla negoziazione impone – come minima tutela – quella di garantire una efficace promozione, protezione e un adeguato sistema di dissuasione da condotte che ne violino il concreto e genuino esercizio, che non può essere limitato sulla base di mere operazioni qualificatorie del rapporto idonee a privare dei fondamentali diritti sociali intere categorie di lavoratori assimilabili per esigenze e condizioni di lavoro ai prestatori subordinati.
I diritti di azione sindacale e di negoziazione non sono, infatti, patrimonio esclusivo delle associazioni sindacali dei lavoratori subordinati in quanto devono essere riconosciuti anche ai rapporti caratterizzati da uno squilibrio economico per i quali la contrattazione non può in alcun modo essere equiparata a una pratica contraria alla libera concorrenza (cfr reclamo n. 123/2016 Comitato europeo dei diritti sociali Irish Congress of Trade Unions v. Ireland).
In tale contesto, pertanto, l’esclusione dell’assetto normativo del titolo III dello Statuto dei lavoratori e delle norme di promozione e tutela dell’azione sindacale per i lavoratori delle piattaforme risulta una operazione anacronistica, che al contempo collide con il riconoscimento dell’azione sindacale come diritto sociale contenuto nelle norme internazionali che ne affermano il carattere fondamentale. Va da sé infatti che la qualificazione del rapporto sul quale è destinata a produrre effetti l’azione sindacale effettata sulla base di operazioni esegetiche interne non può in alcun modo incidere sulla portata universale dei diritti sanciti dalle convenzioni internazionali.
Il Tribunale di Firenze, tuttavia, con una recente decisione del 9 febbraio 2021 a conclusione di una complessa vicenda sindacale che vede contrapposte le organizzazioni alle imprese del food delivery resesi responsabili di gravi forme di discriminazione sindacale non ha ancora oggi esitato a negare il diritto a esperire il ricorso per condotta antisindacale, previsto dallo Statuto dei Lavoratori richiamando un remoto precedente della Corte Costituzionale.
Il richiamo alla decisione della Corte Costituzionale 241/75 contenuto nel provvedimento appare del tutto “fuori tempo” e colloca la decisione del Tribunale fiorentino in una dimensione temporale che ignora l’evoluzione normativa e l’equiparazione effettuata dal legislatore del 2015.
La decisione della Corte Costituzionale 241/75 è stata emessa all’esito di una ordinanza di remissione del giugno 1973 quando neppure era entrato in vigore il processo del lavoro ed era sconosciuta persino la parasubordianzione come modalità di lavoro.
L’evoluzione degli “scenari sindacali” è quindi del tutto ignorata dal Tribunale di Firenze che disconosce il lungo percorso del legislatore che ha portato da una iniziale netta differenziazione dei livelli di tutela, anche sindacale, basata sulla natura dicotomica autonoma/subordinata del rapporto alla consapevolezza della molteplicità dei rapporti.
La decisione inoltre non considera i vincoli che discendono anche per il giudice dall’adesione alle convenzioni in tema di diritti collettivi e sociali che gli avrebbero imposto una interpretazione adeguatrice della norma e, se del caso, l’attivazione di un procedimento di verifica di compatibilità costituzionali con le norme interposte sulla base delle cosiddette obligationes positives che scaturiscono dall’adesione ai trattati.
L’art. 11 della Convenzione Oil 87 stabilisce che: “Ogni Stato membro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per il quale sia in vigore la presente convenzione si impegna ad adottare tutte le misure necessarie ed appropriate al fine di garantire ai lavoratori e ai datori di lavoro il libero esercizio del diritto sindacale”; allo stesso tempo l’art. 5 della Convenzione Oil 154 impone agli Stati di adottare ogni iniziativa affinché “la contrattazione collettiva non venga ostacolata dall’assenza di regole (…)”.
La Convenzione Oil 98 impone a sua volta agli Stati aderenti di garantire una “adeguata protezione” avverso i comportamenti idonei a ledere la libertà sindacale in genere.
La Carta Sociale Europea vincola l’Italia a rendere “effettivo” l’esercizio dei diritti di contrattazione, consultazione e informazione favorendo l’esercizio di “azioni collettive”.
L’operazione di scissione effettuata dal giudice fiorentino tra la norma sostanziale e la norma processuale, al fine di negare l’ammissibilità del ricorso ex art. 28 stat. lav. alle organizzazioni sindacali rappresentative dei lavoratori etero organizzati, ha in sostanza negato “l’adeguata protezione” imposta dai Trattati internazionali e quella “protezione equivalente” ritenuta essenziale dalla Cassazione.
La decisione adottata quindi non convince.
Non a caso poco dopo su una simile vicenda giudiziaria simile il Tribunale di Milano il 25 marzo 2021 ha ritenuto che l’evoluzione della normativa e la parificazione tra rapporti etero organizzati e lavoro subordinato imponga anche una equiparazione dei diritti della dimensione collettiva.
Il Tribunale milanese, dichiaratamente discostandosi dal provvedimento fiorentino emanato pochi giorni prima, ha riconosciuto per la prima volta il diritto delle associazioni sindacali ad agire per la repressione dei comportamenti lesivi del loro ruolo e funzione da parte di aziende operanti su piattaforma.
La decisione milanese alla quale è seguito anche un analogo provvedimento del Tribunale di Bologna (Tribunale Bologna, 16 aprile 2021) valorizza una interpretazione adeguatrice dell’art. 28 dello Statuto ritenendo di poter superare anche la restrittiva definizione di “datore di lavoro” che solo apparentemente limiterebbe l’estensione della tutela antisindacale; tutela che invece deve essere ricompresa nell’ampio rinvio contenuto nell’art. 2 del d.lgs 81/15 non limitato alla sola dimensione individuale.
La decisione dei giudici milanesi e felsinei pertanto costituiscono una pietra miliare in quanto hanno riconosciuto il diritto dei lavoratori delle piattaforme, a prescindere dalla tipologia di rapporto, a fruire delle tutele sindacali in una ottica di completa equiparazione delle tutele e dei diritti già patrimonio dei lavoratori subordinati.
Il percorso giudiziario italiano promosso da un sindacato che progressivamente sta estendendo i diritti sociali ai lavoratori su piattaforma ha indotto anche il Financial Times pochi giorni dopo l’ordinanza di Milano ad affermare che l’Italia è all’avanguardia sul fronte della battaglia per i diritti nella gig economy.
Carlo de Marchis Gómez, avvocato, collabora con l’ufficio Vertenze della Filcams Cgil Nazionale.
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