In un rapporto recentemente pubblicato, l’Istat ha diffuso le stime preliminari sulla povertà assoluta relative al 2020, l’annus horribilis della pandemia di COVID. Dati drammatici, che hanno il merito di squadernare davanti agli occhi di tutti e tutte una realtà forse già prevedibile ma ora certificata dall’impietosa evidenza dei numeri. Ricapitolo per brevi cenni: l’anno passato ha visto circa un milione di individui varcare la soglia della povertà per andare a ingrossare le fila di un esercito di povere e poveri che a oggi conta 5,6 milioni di effettivi (quasi il 10% della popolazione). A essere più colpite sono le famiglie “con stranieri”, rispetto alle quali l’incidenza del fenomeno ha toccato il 25,7% del totale (contro il 22% del 2019), ma anche nel caso delle “famiglie composte solamente da italiani” il tasso è aumentato di più di un punto percentuale (dal 4,9% al 6%). Sarebbe interessante confrontare questa serie con una che fotografi quanto accade al capo opposto della scala sociale. A mia conoscenza non esistono ancora dati affidabili relativi all’Italia ma ad esempio, come riportato dal Washington Post, negli Usa nove titani dell’industria tech hanno guadagnato nel corso dell’ultimo anno più di 360 miliardi di dollari. Presi insieme, questi due opposti fenomeni sembrano confermare – per quanto, certo, in modo solo impressionistico – le paure e gli allarmi del progressismo più avvertito: la crisi sanitaria (ed economica, e sociale) globale sta agendo da moltiplicatore esponenziale delle diseguaglianze, allargando a dismisura la forbice tra ricchi e poveri e polarizzando ulteriormente lo spettro sociale.
Tuttavia, per quanto il processo abbia probabilmente subito una brusca accelerazione negli ultimi mesi, le sue radici sono in effetti più risalenti. Come rilevato da Thomas Piketty in un celebre libro di qualche anno fa, la tendenza a una crescita costante del rapporto capitale/reddito, registrata globalmente sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha finito oggi per attestarsi sugli stessi livelli osservabili per il Sette e Ottocento, chiudendo la parentesi di relativa eguaglianza aperta in seguito alle due guerre mondiali e rilanciando il movimento di concentrazione patrimoniale a ritmi mai visti dai tempi della belle époque1. La rivincita del capitale sul reddito, della rendita sul salario, dello stock sul flusso, marca il profilo contemporaneo della disuguaglianza: profilo che ormai ha ben più dello strutturale che del contingente.
In un contesto segnato da dinamiche di questo tipo, la povertà non può più essere solo l’oggetto di una indignata, doverosa, appassionata denuncia. L’aumento regolare del tasso di sperequazione nella distribuzione della ricchezza, fossilizzato da quasi un quarantennio di misure neoliberali, richiede un cambio di passo teorico oltre che politico. Ne I poveri possono parlare?, che esce in questi giorni per i tipi di Ediesse/Futura nella collana Citoyens del CRS, abbiamo allora provato a usare la povertà come grimaldello per un ripensamento complessivo – sia pur solo abbozzato – di alcune delle categorie fondamentali di una militanza politica saldamente ancorata “a sinistra”. Il volume riunisce i contributi di cinque ricercatrici e ricercatori provenienti ciascuno da una prospettiva disciplinare differente: diritto, sociologia, etnografia, filosofia politica, critica letteraria. La scommessa è che i diversi protocolli d’indagine approntati nei rispettivi campi per confrontarsi con l’oggetto “povertà” possano essere utilmente messi al servizio di un lavoro di concettualizzazione politica, e che le questioni metodologiche poste dai singoli casi di studio possano contribuire alla rubricazione dei principali nodi pratici che un’eventuale azione collettiva dovrebbe proporsi di sciogliere. Pur nella diversità di approcci e strategie argomentative, sotto la penna di Carolina Amadeo, Enrico Gargiulo, Veronica Pecile, Maurilio Pirone e Sara Sermini la povertà emerge come l’indice di un campo di forze, il denominatore comune di un insieme di «circostanze» che alcuni – i poveri – «trovano immediatamente davanti a sé» come ascissa e ordinata della loro capacità di azione.
Non un insieme qualsiasi però: suo tratto caratterizzante è che a definirlo non è la posizione in un rapporto di produzione (capitale/lavoro) o di dominio (élite/popolo) ma di distribuzione della ricchezza. La determinante concettuale specifica è qui la relativa presenza/mancanza di risorse, o di una combinazione di risorse – economiche, sociali, culturali. Il povero non è, in prima istanza, il proletario o il subalterno: il che ovviamente non impedisce che le tre figure possano anche coincidere. Non si tratta di profili mutualmente esclusivi, ma di una distinzione analitica che mette l’accento su alcuni aspetti più che su altri. Il non avere, o l’avere meno – e non, per dire, il produrre valore o l’appartenere a un certo gruppo di dominati – è dunque il paradossale modo d’essere della povertà, la condizione qualificante che apre al suo agire peculiare.
Povertà non è perciò qui un’ipostasi sociologica, e nemmeno l’indicazione di un nuovo soggetto politico, ma la proposta di un punto d’osservazione sul cambiamento sociale, uno spazio di aggregazione di traiettorie e strategie individuali e collettive differenti, che possono talvolta dare vita a combinazioni e alleanze particolari ma senza che debbano perciò necessariamente solidificarsi nella forma di una classe universale. Guardare al presente dal punto di vista della povertà significa infatti, innanzitutto, fare un passo di lato rispetto allo strumentario politico elaborato a partire dall’esperienza eroica del movimento operaio, e in generale dei conflitti sociali otto-novecenteschi – lavoro, classe, partito, rivoluzione e poi, col secondo dopoguerra, cittadinanza sociale e Welfare State. Una costellazione potente ma che presenta oggi più di un segnale di affaticamento, una sclerosi epistemologica che le rende sempre più difficile leggere – e cambiare – la realtà. Il passo di lato che proponiamo dovrebbe allora servire a rimetterla in moto, fluidificando le relazioni reciproche e i confini altrimenti irrigiditi dei concetti che la compongono. Mettersi, o rimettersi, nella prospettiva della povertà – guardare cioè alla divisione e al conflitto sociale non dall’angolatura della produzione ma da quella della distribuzione della ricchezza e della riproduzione delle forme di vita – consente cioè di acquisire un luogo di osservazione decentrato rispetto all’archetipo novecentesco, fissandolo, per così dire, dal di fuori: non come punto di partenza dato e obbligato ma come punto d’arrivo contingente e ogni volta mutevole. Nel mondo dei nuovi (come in quello dei vecchi) working poor,avere un’occupazione – più o meno garantita, più o meno occasionale – «non basta» ad assicurare la sopravvivenza2. Il lavoro rappresenta solo uno dei tanti ingredienti di una ricetta complessa, di una «economia di espedienti» funzionale alla reintegrazione continua delle condizioni di esistenza.
Ne segue una parziale ma importante conclusione: i confini tra i poveri e “noi” sono molto più labili di quel che si crede. Questo libro non parla di un altrove geografico o di un passato perduto, ma del nostro presente globale. De te fabula narratur. L’effetto d’insieme dovrebbe essere quello di un’inversione dello sguardo: almeno nella definizione ampia e accogliente che abbiamo cercato di darne, il povero non è l’“altro” da compatire e soccorrere, ma il “noi” da dichiarare e organizzare – migranti e precarie, lavoratori sottopagati e disoccupate, senza casa e rider. Non si tratta ovviamente di negare l’esistenza e la persistenza di livelli di privilegio (di genere, razza, classe) radicalmente differenti, ma di riconoscerli e di trovare gli arnesi politici adatti allo sforzo di composizione che proprio queste differenze rendono necessario.
In un contesto di concentrazione sempre più accelerata delle ricchezze e di diseguaglianze galoppanti, la lotta per l’eguaglianza può – deve? – tornare a essere una piattaforma per nuove alleanze, per la costruzione di nuove solidarietà. La nostra proposta è che questa piattaforma sia però sganciata dalle rivendicazioni giocate sul terreno della partecipazione al rapporto di produzione – sociale o meno. Non per escludere dal quadro lavoro e sfruttamento, ma per includervi anche chi resta mero spettatore del «dramma del plusvalore». I poveri – pondus inutile terrae – pretendono una redistribuzione equa delle risorse non perché producono, ma perché semplicemente esistono. Un diritto universale di esistenza potrebbe essere allora il fondamento di un’inedita economia morale – non paternalistica, non gerarchica – e di nuove pratiche di accesso collettivo ai beni, di nuove «politiche della distribuzione»3. L’auspicio è che i casi raccolti e analizzati nel volume servano da indicazioni sparse ma coerenti in questa direzione.
Note
1 Th. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014. All’impressionante mole di dati raccolta da Piketty e dal suo gruppo si rimanda in generale per una definizione più precisa delle dinamiche qui solo accennate.
2 Cfr. C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, Milano 2015.
3 Cfr. J. Ferguson, Give a Man a Fish. Reflections on the New Politics of Distribution, Duke University Press, Durham-London 2015.
Qui il PDF
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.