Roma, nelle vicinanze di piazza San Giovanni, il 25 novembre, verso le venti di una serata limpida e gelida. Sull’autobus, tra gli accalcati, un nonno, grandi baffi bianchi, stretto al nipote, due sbaffi di rosso sulla guancia.
Il rosso delle panchine, delle scarpe, dei nastri, simbolo del sangue delle donne vittime della violenza, ma anche della forza per opporsi alla brutalità, machismo, sfruttamento.
Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne quella forza ha trovato una forma imprevista, corale nella immensa manifestazione: altre se ne sono tenute nelle città di Padova, Milano, Messina, Napoli, un po’ ovunque. L’associazione “Non Una Di Meno” (NUDM) convoca le manifestazioni da otto anni.
Bisogna essergliene grate. Si è assunta una responsabilità indispensabile. E per non dimenticare, raccoglie nell’Osservatorio nazionale i dati di ogni anno sui femminicidi, lesbicidi e trans*cidi.
Tuttavia, il numero di persone (più di cinquecentomila), le differenti generazioni coinvolte, la passione e la partecipazione hanno reso diverso questo “Siamo marea” del 2023. Diverso perché si è presentato come un “No” collettivo al tentativo di fermare la libertà femminile di Giulia Cecchettin, la studentessa ventiduenne uccisa e ritrovata dopo giorni di ricerche in un canalone del lago di Barcis.
La libertà di lei e delle tante Tamara, Francesca, Iris che muoiono per mano e per volontà maschile. Una manifestazione che si assume la risposta di un Paese capace di reagire? Se il rapporto annuale del Censis parla di “ipertrofia emotiva” degli italiani impauriti, timorosi, pessimisti ma rassegnati, simili a “sonnambuli”, per Giulia il Paese sembra essersi svegliato.
O risvegliato dal momento che il femminismo, con la sua politica e le sue pratiche, lavora da tempo a smascherare la volontà di possesso maschile (“Non accettavo che non fosse più mia” ha detto Filippo Turetta, l’ex fidanzato e assassino di Giulia), a mostrare il modello di dominio e di sopraffazione, a togliere la maschera all’amore mortifero.
“Il patriarcato è finito. Non ha più il credito femminile ed è finito… Adesso lei non ci sta più, non è più la stessa: è cambiata, come si dice. Ma non dice abbastanza. Non si tratta infatti di un cambiamento qualsiasi” (così si leggeva su “È accaduto non per caso – Sottosopra rosso – gennaio 1996) Quel cambiamento lo si è riscontrato nelle parole del padre di Giulia al funerale della figlia, pronunciate senza rabbia, solo con tanto dolore.
Il patriarcato comunque non è scomparso. Però ha mutato faccia, diventando più morboso, più ossessivo, adattandosi alla realtà, ai cambiamenti intervenuti nelle famiglie, alle nostre – di donne e di uomini – metamorfosi.
Con la manifestazione, almeno per un giorno, sembra risuonare una voglia di cambiamento e scompare il senso di impotenza che ci avviluppa di fronte alle tante crisi del pianeta.
A riprova, l’esplodere della discussione sul patriarcato: ancora abita dalle nostre parti oppure va confinato nei discorsi di Putin, nella Polonia di Morawiecki, nei dogmi dell’Islam radicale, mentre nel modello occidentale sarebbe in via di sparizione?
Non scopriamo però nel libero mondo occidentale delle assonanze, delle contiguità tra la violenza di chi uccide una donna e di chi massacra, distrugge, toglie la vita in una guerra?
Secondo la destra, sono dei criminali, dei devianti, particolarmente se stranieri, che si accaniscono contro le donne. Fino ai manifesti di Casa Pound con la foto dell’assassino di Giulia: “Ma quale patriarcato? Questo è il vostro uomo rieducato” (dalle femministe, dalla distruzione della famiglia, dall’assenza del padre, dal gender).
Nell’aerea progressista, di fronte a un atteggiamento tossico che non accenna a indebolirsi (106 omicidi di donne fino a lunedì 20 novembre mentre la media degli omicidi all’interno delle coppie – mariti, amanti, fidanzati, compagni – dal 2002 al 2022 segnala che 88 volte su cento è l’uomo a uccidere la donna), giornalisti, commentatori, filosofi si battono il petto, promettendo un impegno contro i maschi violenti.
D’altronde, è stata Elena Cecchettin, sorella di Giulia, a chiedere agli uomini di fare “mea culpa”. E se nel settembre 2006 l’associazione Maschile Plurale, nel suo manifesto inaugurale, aveva scritto che “la violenza ci riguarda”, adesso lo si ripete da più parti.
Il segretario della CGIL, Maurizio Landini, dal palco di Torino nella terza giornata di sciopero generale: “Sono gli uomini che devono cambiare, anche dal punto di vista culturale”. Bene, bravo. Non ha spiegato però cosa va cambiato nel suo sindacato. E sarebbe interessante saperlo dai giornalisti per le redazioni dei giornali e via discorrendo.
A qualcuna è venuto il dubbio che questi penitenti vogliano recuperare un ruolo da protagonisti. Addirittura sono apparsi meno narcisi, più efficaci, i quattro sedicenni (due maschi e due femmine) che nella frazione di Vigonovo, il paese dove viveva Giulia Cecchetin, hanno deciso di salvare una donna sottraendola dalle grinfie del marito brutale.
Dunque, molti interrogativi sul patriarcato dopo la manifestazione, ma quest’anno la giornata del 25 novembre sta inchiodata nel conflitto tra Israele e Palestina (e l’anno scorso nell’invasione russa dell’Ucraina). NUDM ha scritto nel comunicato di convocazione “…non ci sono margini di ambiguità in questa storia di colonialismo, razzismo e violenza, tesa a cancellare il territorio palestinese e, soprattutto, il suo popolo” così mostrando di avere occhi solo per un orrore (quello della prigione a cielo aperto di Gaza, del trattamento terribile che da anni viene riservato ai palestinesi) ma non per lo Shabbat di sangue del 7 ottobre. E per le donne stuprate alle quali Hamas ha riservato una violenza peculiare, per umiliare insieme il sesso femminile e il loro essere ebree. E non per le iraniane in lotta e per le afghane abbandonate ai talebani.
NUDM non conosce i disastri del patriarcato? Non sa che prende ossigeno dalla guerra, imbavaglia la pena per l’agonia degli ostaggi, minimizza il gesto di chi brucia le pietre d’inciampo?
Con la guerra, città, case, uomini, donne, bambini sono annichiliti e il linguaggio diventa terreno di conquista, impoverito, spolpato. Anche l’appello di NUDM risente di questo clima. Ma nella Giornata contro la violenza maschile e di genere per il ragazzino con gli sbaffi rossi sulle gote che tornava dalla manifestazione del 25 novembre probabilmente l’appello non era importante. Magari non lo aveva proprio letto.
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