Articolo pubblicato su “TPI” il 15.05.2025.
Con la parata del giorno della Vittoria, Putin ha voluto dimostrare che la Russia è tutt’altro che isolata internazionalmente e che il suo arsenale bellico le permette di continuare la guerra fino al pieno raggiungimento dei suoi obiettivi. Gli analisti ci confermano che ha portato le sue forze armate a poco meno di 1,5 milioni di uomini e fortemente aumentato la produzione bellica.
La risposta è venuta l’indomani, 10 maggio, con la visita a Kiev di quattro capi di governo europei, i tre grandi più il polacco. Il messaggio è, in sintesi: “Siamo pronti a fornire all’Ucraina ogni aiuto militare possibile; Putin dovrà convincersi che la guerra non porta a niente; se persiste gli imporremo nuove, più drastiche sanzioni”. I quattro “volenterosi” non hanno elaborato piani di pace, si sono limitati a far propria la proposta ucraina di una tregua di almeno trenta giorni, già respinta da Mosca.
Putin ha rilanciato la palla offrendo negoziati sulle questioni di fondo, da iniziare il 15 maggio, a Istanbul, ma respingendo la pre-condizione del previo cessate il fuoco. Zelensky, su raccomandazione di Trump, aveva rinunciato a quella pre-condizione: sarebbe andato all’appuntamento di Istanbul. In queste nuove trattative, è logico supporre che tornino di attualità i vari punti del pacchetto negoziato a Mosca dall’inviato di Trump, Steve Witkoff.
Quella azione diplomatica aveva suscitato fondati sospetti di dilettantismo e dubbi sulla ragionevolezza del possibile esito. Non si comincia una trattativa con un interlocutore forte e determinato mettendo sul tavolo tutte le potenziali concessioni senza che l’altro abbia minimamente ammorbidito le proprie posizioni massimalistiche. E tanto meno si fanno proprie le sue discutibili tesi sulle cause del conflitto; né si qualifica come grande concessione la rinuncia a conquistare l’intero Paese nemico.
Concessioni inevitabili
Eppure, il piano americano annunciato all’indomani di Pasqua dal Daily Telegraph, se effettivamente accettato da Putin nelle grandi linee (“We have a deal”, aveva detto Trump), meriterebbe oggettivamente un diverso giudizio. Non era una resa alle condizioni di Mosca, come hanno subito commentato il New York Times e molti altri giornali occidentali. Era una via di uscita dolorosa ma inevitabile dal conflitto. Di certo non era una provocazione contro il presidente ucraino, una “trappola” – come da più parti si è detto – per costringerlo ad assumersi la colpa del mancato accordo di pace.
Vediamo i punti salienti, cominciando dalle presunte concessioni più criticate dai puristi: il divieto di ingresso dell’Ucraina nella NATO era da tempo scontato e accettato dallo stesso Zelensky (anche se poi chiede, poco realisticamente, garanzie occidentali analoghe all’art. 5, anzi più vincolanti). L’annessione della Crimea, pur chiaramente illegale, è da tempo un fatto compiuto irreversibile; doverla riconoscere formalmente è doloroso per Kiev, ma non è un nuovo sacrificio. Sono comprensibili le proteste di Zelensky, ma sarebbe irresponsabile da parte sua affondare questo o un futuro negoziato di pace per una questione di principio, priva di conseguenze pratiche. Trump ha poi fatto sapere che in San Pietro aveva aggirato questo scoglio: bastava che fosse Washington, non Kiev, a riconoscere formalmente l’annessione; ma appare plausibile che Mosca non la pensi così.
Determinante per valutare il risultato che sembrava essere stato raggiunto nel negoziato è la clausola territoriale riguardante gli altri territori occupati. All’inizio della missione Witkoff scrivevamo su queste pagine (nell’edizione del 20 marzo 2025 di TPI) che sarebbe stato un successo se avesse portato a congelare la linea del fronte, lasciando sotto il controllo russo solo i territori effettivamente occupati, senza formale cessione. Sarebbe invece stata criticabile se avesse concesso alla Russia di prendersi anche le porzioni non ancora conquistate delle quattro regioni arbitrariamente annesse nel settembre 2022, compresi i capoluoghi Zaporizhya e Kherson.
Il piano prevedeva la prima opzione. Se al riguardo c’era un “deal” (un accordo, ndr) e non solo una proposta, vorrebbe dire che Putin aveva dovuto rimangiarsi la tesi della non negoziabilità dei confini di quelle regioni in quanto consacrati dalla Costituzione (russa): una concessione non da poco da parte di chi si considera vicino alla vittoria. È perciò comprensibile che Trump abbia chiesto a Zelensky, quello che «non ha le carte», di non essere più dogmatico sulla Crimea.
No alla smilitarizzazione
L’altro elemento chiave, da cui dipende la ragionevolezza o meno del lodo Trump, è la rinuncia russa alla “smilitarizzazione” dell’Ucraina, uno degli obiettivi principali della “operazione speciale” costantemente ribaditi da Mosca, anche recentemente. Il disarmo unilaterale non figurava fra i sette punti della presunta intesa. Se il presidente americano era davvero riuscito a convincere Putin a mettere fine alla guerra senza imporre drastici limiti a truppe e armamenti dell’Ucraina, né divieti a forniture belliche da parte di Paesi occidentali, si trattava di un risultato negoziale da non sottovalutare, che smentisce l’accusa di parzialità in favore della Russia.
Era caduto anche l’altro obiettivo, sempre proclamato da Mosca, quello di “denazificare” l’ex-repubblica sorella, cioè di imporle un “regime change”, o quanto meno la messa al bando di partiti, personalità e leggi, bollati come nazionalisti, quindi anche una sovranità limitata. Ancora molto recentemente Putin subordinava l’avvio di qualsiasi trattativa alle dimissioni di Zelensky e nuove elezioni; ora è pronto a negoziati diretti.
Infine, la clausola che sottoponeva la grande centrale nucleare di Zaporizhya a un regime speciale, sotto controllo USA, non è una prepotenza del mediatore (come è il patto leonino sulle risorse minerarie): risponde all’esigenza di sottrarla all’occupazione russa senza che ciò appaia come una concessione territoriale. Su questo punto, in un’intervista televisiva, (il ministro degli Esteri russo, ndr) Lavrov ha negato non solo che ci sia accordo ma addirittura di aver ricevuto una proposta. Il che gettava un’ombra di dubbio sulla consistenza dell’intero “deal”.
Responsabilità del fallimento
Un dubbio che ormai condivide lo stesso presidente USA: «L’accordo di pace è forse impossibile»; per poi aggiungere una nota meno pessimistica: «Potremmo farcela». Mentre il suo vice, Vance, prevede che la guerra durerà ancora parecchio e i negoziati di pace fra le due parti saranno un processo lungo. Gli storici dovranno chiarire se questo fallimento è dovuto alla duplicità dei negoziatori russi che hanno accettato con riserva mentale le proposte americane, o invece alla intransigenza di Zelensky, più interessato a una tregua di un mese che a discutere condizioni di pace, e dagli incoraggiamenti anglo-francesi a bloccare tutto sulla Crimea.
La prima ipotesi sembra avvalorata dallo scatto di impazienza di Trump verso Putin: «Mi sta prendendo in giro?». Potrebbe aver percepito chiari segnali che il presidente russo vuole guadagnare tempo per conquistare altri territori e che si riserva di negoziare con durezza su questioni che erano sembrate oggetto di una intesa di massima. Eppure Lavrov aveva detto che andavano solo precisati alcuni dettagli. L’espressione da lui usata era “fine tuning” (letteralmente: “una messa a punto”, ndr).
Ma anche l’indisponibilità della controparte a discutere di inevitabili concessioni (salvo sulla non-candidatura NATO) deve aver irritato Trump. Zelensky, oltre a rifiutare il riconoscimento formale della perdita della Crimea, ha bocciato clausole secondarie del piano, contentini di natura economica offerti dagli USA a Mosca senza ledere i diritti del Paese aggredito: abrogazione delle sanzioni (secondo lui devono solo essere alleggerite gradualmente, non abrogate, e solo una volta instaurata la pace), e cooperazione fra Stati Uniti e Russia nel campo dell’energia. E pretende che le riserve russe congelate presso le banche occidentali (non solo gli interessi) siano sequestrate per alimentare la ricostruzione del suo Paese.
Pienamente ragionevole è invece la sua insistenza sul diritto dell’Ucraina a mantenere una forza difensiva credibile e a ricevere forniture militari dai Paesi amici. Sempre in materia di sicurezza, il contro-piano ucraino chiede garanzie occidentali, anche da parte USA, contro una futura ripresa delle ostilità: addirittura un impegno analogo all’art. 5 del Trattato del Nord-Atlantico, come proposto da Giorgia Meloni, e la presenza di forze anglo-francesi sul proprio territorio: cose sicuramente inaccettabili per Mosca perché svuoterebbe di significato la non-adesione alla NATO.
La constatazione che il tentativo di mediazione aveva scarse probabilità di successo deve essere maturata durante il breve colloquio in San Pietro. Non sappiamo cosa i due si siano detti ma è plausibile l’ipotesi che Zelensky abbia convinto Trump della duplicità di Putin; opposto dal canto suo un “non possumus” al piano Witkoff; preannunciato il suo contro-piano; e promesso di firmare l’accordo (molto migliorato) sulle risorse minerarie. Data la circostanza, Trump ha probabilmente rinunciato ad esprimere il suo disappunto nel veder sfumare un trionfo come “peacemaker”, accontentandosi di sbandierare come successo il “deal” sui minerali. La sua minaccia di rinunciare alla mediazione (“to walk away”) è diretta a entrambe le parti; ma, se attuata, danneggerà quella più debole.
Come tre anni fa?
Si continuerà a discutere a lungo se questa sia stata un’occasione persa, come a proposito della bozza di accordo negoziata a Istanbul nel marzo-aprile del 2022. Allora erano rimaste aperte alcune questioni, di cui tre fondamentali: i livelli massimi di truppe e armamenti da imporre all’Ucraina (il principio era accettato); la linea di demarcazione dei territori destinati a rimanere sotto occupazione russa (da concordare in colloqui diretti Putin-Zelensky); e le garanzie di sicurezza a carico di alcuni Paesi occidentali (peraltro non consultati!). È perciò opinabile che un accordo praticamente fatto sia stato silurato da Boris Johnson, recatosi a Kiev nell’aprile di tre anni fa, per conto degli americani.
Il piano Witkoff sembrava aver sciolto i primi due nodi e sul terzo le promesse di Macron e Starmer vengono parzialmente incontro alle esigenze di Kiev. Le condizioni proposte questa volta dagli americani erano dunque migliori, o comunque non peggiori, di quelle scartate nella primavera del 2022, mentre la posizione militare si è aggravata per l’Ucraina. Si può dunque dire che i due leader europei, incoraggiando Zelensky a tenere duro, si sono presi una responsabilità più pesante di quella attribuita a Johnson. E, decidendo di andare a Istanbul, Zelensky dimostra di rendersi conto che tergiversare non è nel suo interesse.
Il terzo nodo, le garanzie contro una nuova aggressione russa, è quello che maggiormente preoccupa Zelensky, più che la perdita delle province orientali e meridionali. Premesso che gli Stati Uniti si sono chiamati fuori, è l’Europa a doversene fare carico, in forme che non siano percepite da Mosca come una sfida o addirittura una minaccia alla sua sicurezza. Ciò esclude lo stazionamento di truppe anglo-francesi sul territorio dell’Ucraina, che è comunque poco realistico. Come sostiene un articolo a firma B. Posen uscito l’8 maggio su Foreign Affairs, più utile sarebbe creare una forza di intervento rapido europea con basi nei Paesi vicini, in grado di dissuadere la Russia dall’attaccare sia l’Ucraina che gli Stati baltici e la Polonia; e inoltre migliorare le infrastrutture per il trasporto di tali forze, aumentare la produzione di munizioni e di sistemi di difesa contro missili e droni e rendersi autosufficienti dagli USA in materia di intelligence, sorveglianza aerea e satellitare.
Prospettive di pace
Cosa succederà se questo tentativo negoziale americano non verrà risuscitato mediante i negoziati che Putin ha proposto di avviare a Istanbul, o se anche questi negoziati si areneranno? Nella migliore delle ipotesi, grazie ad aumentate forniture belliche occidentali, l’Ucraina riuscirà a impedire un ulteriore spostamento del fronte verso ovest e a negoziare, fra qualche mese, condizioni di pace che ben difficilmente potranno essere più favorevoli di quelle fatte balenare da Witkoff.
Non potrà cioè mirare a una “pace giusta”, ma solo a salvare il salvabile: la propria indipendenza e l’80 per cento del suo territorio. Realisticamente parlando, continuerà ad avere prospettive scarsissime o nulle di recuperare le quattro regioni orientali e meridionali, il cui status giuridico rimarrà controverso. Ma attraverso una graduale normalizzazione dei rapporti può sperare di ottenere un alleggerimento del regime di occupazione e la liberazione dei prigionieri di guerra e dissidenti rinchiusi nelle carceri e camere di tortura russe. Potrà contribuire a prevenire nuovi conflitti adottando politiche illuminate nei confronti di lingua, cultura e simboli russi, reprimendo nuove pulsioni nazionalistiche.
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.