La sostanza della legge che invoca il divieto universale della gpa si radica nella certezza che non è possibile – a meno di situazioni patologiche – che una donna desideri fare l’esperienza della gravidanza, senza che si attivi in lei un istinto (materno) che si oppone all’affidare volontariamente il nuovo nato ad altri.
A essere inconcepibile per molti ma soprattutto per molte è che una donna abbia l’orgoglio di essere una potenziale procreatrice insieme al desiderio di separarsi dalla creatura che, per essere precisi, ha messo non al mondo bensì nel mondo. A rimanere imbattutto, a prescindere da qualsivoglia legge, rimane il potere di procreare che solo un corpo di donna possiede.
Deriva, secondo molte, dall’esistenza di un tale potere che la rinuncia ad allevare il proprio neonato non possa che essere un attacco a tale potere e che solo una donna vittima della violenza patriarcale possa essere così alienata a se stessa da accettare nove mesi di gravidanza per poi non godere del futuro del bambino che ha procreato.
Qualche precisazione è oggi tuttavia possibile e necessaria per via dell’enorme competenza acquisita dalle scienze umane – psicoanalisi in primis – sul funzionamento del neonato e della coppia madre-bambino.
Un bisogno di cure al servizio della sopravvivenza caratterizza l’animale umano a differenza dai mammiferi non umani, poiché nasce prematuro – in gergo tecnico neotenia – impossibilitato per un tempo lungo a procurarsi il nutrimento (in senso largo come dirò di seguito) necessario alla sopravvivenza e allo sviluppo. Tale prematurità rende necessarie azioni di cura e di sostegno da parte di un adulto, a prescindere che sia una donna o un uomo.
Per rispondere alla radicale bisognosità dell’animale umano non bastano le competenze di una donna-puericultrice poiché è altrettanto necessario qualcos’altro, che per brevità chiamiamo desiderio, che è in definitiva ciò che permette alle cure materiali di essere efficaci.
Quando si dice – è la scoperta fatta dalla psicoanalisi applicata ai bambini piccoli, opera di Melanie Klein – che è nella culla che il feto diventa un bambino, si intende che la culla è già un contenitore sociale, un luogo a cui afferiscono non solo le cure della madre biologica bensì anche le attese, i desideri, i valori e le credenze del gruppo umano di cui la madre fa parte.
Non è mai abbastanza preso in considerazione il salto esistente tra feto e bambino, il primo che non ha esistenza se non attingendo, senza chiedere, alle risorse fornitegli dal corpo di una donna mentre il secondo – un bambino cioè – usufruisce delle risorse che l’ambiente e il gruppo umano, nella figura di uno o più dei membri, gli offrono.
Un feto diviene un bambino dopo l’uscita dal corpo di una donna se è circondato da una pluralità di cure, fantasie e desideri che accolgono un corpo che nasce incompleto, cioè non pronto per sopravvivere fuori del corpo della procreatrice. L’animale umano è dall’origine bisognoso della protesi costituita dall’adulto della sua specie.
La neotenia è dunque dal punto di vista del destino dell’animale umano una vera e propria “infermità”. Come è accaduto allora che tale non adattamento, caratteristica specie-specifica dell’animale umano, abbia consentito lo sviluppo della civiltà umana?
La risposta ancora oggi diffusa è che l’animale umano è dotato di un istinto che gli permette di sopperire alla mancanza con cui viene al mondo. Niente di meno vero e soprattutto meno realistico, infatti, è sotto gli occhi di tutti la sorte della coppia madre\bambino lasciata nel chiuso del proprio rapporto. Non è la triangolazione edipica – la presenza di un padre – a garantire il successo dell’impresa di ricavare da un neonato un bambino; invece, è proprio perché non è un istinto a garantire la prosecuzione della specie che l’impresa dell’animale umano resta unica.
Il cosiddetto istinto materno è anche esso un montaggio – proprio come accade per un film – che ha messo in relazione esperienze legate a momenti diversi dell’esistenza di un neonato, esperienze dunque divenute una sapiente pratica trasmessa attraverso la capacità dell’animale umano di comunicare attraverso il linguaggio. Si tratta di ciò che chiamiamo discorso, una concatenazione di pratiche a cui l’animale umano ha dato, per via del linguaggio, un significato prospettico, un senso, un futuro.
L’animale non umano sfugge a questo destino, l’assenza di linguaggio gli consente un presente che non immagina un futuro e quindi neanche la morte.
Non è dunque solo e neanche in primis il legame biologico a garantire la sopravvivenza della specie umana, bensì la capacità di guardare oltre il presente.
La capacità di evocare anche ciò che non è sotto i propri occhi ha reso possibile la trasmissione di esperienze da una generazione all’altra, ha permesso cioè di parlare del bambino in sua assenza e quindi di parlare al bambino stesso del bambino che egli è. Tale trasmissione è iniziata, storicamente parlando, così lontana nel tempo da essere stata assimilata a un patrimonio innato.
L’osservazione della prima infanzia ha però mostrato che ogni nuovo nato ha bisogno di una rinascita e altrettanto si può dire per chi lo accudisce, poiché la totale dipendenza del piccolo esercita un’indicibile, spesso traumatica, pressione sull’adulto.
Così non è per l’animale non umano per cui al primo posto c’è l’istinto che garantisce la sopravvivenza della specie, cosa questa che gli consente di lasciare al proprio destino – spesso alla morte – i soggetti non pronti per una sopravvivenza autonoma.
Diverso è per l’animale umano che ha un bisogno vitale di due forme di cura: nutrimento e amore.
Animale umano è dunque il soggetto della specie che riceve le cure primarie non solo dal corpo della donna che l’ha partorito, bensì anche dal discorso amoroso che un adulto – di qualsiasi genere – gli rivolge nel momento in cui ne riconosce l’esistenza.
L’amore è il vero figlio del linguaggio che attraversa i corpi dalla nascita e li mette in risonanza, dal vagito, al pianto, alla domanda d’amore. L’orecchio che riceve il grido d’aiuto non è all’istinto materno che deve la capacità di ascolto, bensì alla reminiscenza di essere stato un tempo nella stessa condizione.
È dunque nella vita post-fetale e non prima che si installa un senso di sé, dapprima affidato al senso che l’adulto crede di conoscere della comunicazione fisiologica, gestuale e sonora che il bambino ancora privo di linguaggio gli rivolge.
Il linguaggio di tipo amministrativo, che definisce “utero in affitto” la gpa, nella sua anaffettività, mostra la paradossalità di salvaguardare il senso della procreazione attraverso una buona legge e delle regole.
C’è un intervallo tra il parto e il riconoscimento del nuovo nato come proprio figlio nel quale si colloca lo spazio per altre presenze “materne”, in grado di fornire accudimento e affetto a prescindere dalle caratteristiche biologico\naturali che vengono attribuite quasi solo alla procreatrice.
Cosa da sempre contraddetta, e coperta o penalizzata dal patriarcato, è l’ambivalenza che caratterizza l’arrivo di un nuovo nato a partire dalla famiglia. Come spiegarsi tra l’altro le depressioni post-partum che fanno da ostacolo – che può durare anche molti mesi – al passaggio per diventare la madre del bambino che è stato partorito?
Ciò che denominiamo “relazione” ha bisogno oltre che di due corpi, di due apparati psichici, per quanto primitivo sia uno dei due, al cui interno trovi posto e senso l’asimmetria che caratterizza l’animale umano, non in grado di alzarsi sulle gambe per gattonare verso un seno che lo nutra.
Durante la pandemia è aumentato esponenzialmente l’acquisto di animali domestici come se in assenza di relazioni allargate al mondo esterno ci si rivolgesse all’animale che siamo stati – di cui nulla sappiamo in verità – per mantenere un contatto con corpi resi vulnerabili e minacciosi dalla pandemia.
Non è l’istinto dunque – a cui il biologico si riferisce – che tiene in vita i nuovi nati, bensì l’identificazione con il piccolo della propria specie, una reminiscenza di quando eravamo al suo posto.
Tornando alla gpa, alla certezza di chi ha voluto fermamente una legge che ne vieti l’uso a livello addirittura universale – dunque anche contro il principio di realtà storica – il punto sembra essere la violenza di una cultura patriarcale, che danneggia le donne, soprattutto quelle socialmente più indifese, spingendole ad alienare secondo una legge puramente mercantile il bambino che hanno portato in grembo per nove mesi.
Che sia chiaro: non è in questione l’insostituibilità del “grembo” femminile (Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa L’eclissi della madre, 1998), malgrado gli sforzi che la scienza medica sta facendo per aggirare l’ostacolo del corpo della donna. In questione sono le circostanze nelle quali si rende possibile e desiderabile una gpa.
Un’opportunità per donne e uomini e – da non trascurare – per gli stessi bambini nati dalla gpa, che hanno la possibilità di entrare nel mondo attraverso un’apertura del cerchio biologico, attraverso una genitorialità che nasce – guarda caso – proprio al tramonto della famiglia edipico-patriarcale.
I figli della gpa continuano a nascere e crescere in molti paesi del mondo, ma rischiano seriamente di divenire oggetto di rigetto sociale nei paesi nei quali la gpa non è permessa, rischio corso peraltro in primis da chi li ha desiderati, amati, accuditi. Del resto è arduo portare in tribunale un neonato.
Ma non c’è legge, che io sappia, in grado di sciogliere l’annodamento che si stabilisce tra un bambino e il desiderio di chi l’ha fantasticato, atteso, ricevuto anche se il loro legame non è un’isola.
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