Materiali

Il femminismo comunitario del ‘buen vivir’

«La nostra lotta territoriale contro l’estrattivismo si sta rafforzando, sappiamo che anche se c’è stata attività mineraria fin dall’epoca coloniale, non è normale vivere con l’inquinamento, abbiamo diritto all’acqua, alla salute, al cibo, a vivere in un ambiente sano e libero dalla violenza».

Bolivia, VII Vertice dei Difensori di Madre Tierra

In questo periodo di transizione, nel quale gli equilibri ecologici sono investiti sotto molteplici aspetti, l’espansione delle attività estrattive, depredatorie e inquinanti, hanno determinato considerevoli impatti ambientali, sociosanitari, ampliando il debito ecologico del Nord del mondo e accrescendo le zone di sacrificio nel Sud globale. In Abya Yala1, antico nome che identifica l’attuale America Latina, da diversi anni gruppi di femministe eco-territoriali si sono organizzati per avviare processi collegati all’acquisizione dei diritti umani, ambientali e contro l’estrattivismo che meritano di essere studiati. L’elaborazione epistemica che nasce dalle resistenze territoriali, nei confronti dell’estrattivismo, e da quelle specificamente femminili, nei confronti del paradigma patriarcale, si riconduce a una forte connotazione anticoloniale e anticapitalista: le azioni di contrasto e di ricostruzione comunitaria sono vissute, percepite, pensate e comunicate attraverso questa consapevole impostazione.

In queste lotte le donne sono protagoniste di primo piano per costruire nuovi modelli di vita e di relazioni non-gerarchiche e non-capitaliste. Costruzione di spazi di autonomia, riappropriazione del sapere e delle competenze, rafforzamento delle relazioni di comunità è il fare politica viva delle donne di Abya Yala e passa attraverso due pratiche precise: il presidio e la difesa del territorio, che include la preservazione della memoria e il lavoro collettivo. Il lavoro collettivo è pratica quotidiana e genera commons, attorno ai quali la comunità prende forma, si riconosce e si sostiene. Per i popoli indigeni i beni comuni non esistono in astratto, per effetto di una definizione giuridica, ma sono la co-creazione agìta con consapevolezza dal lavoro collettivo che struttura relazioni non coloniali, non dominanti, attorno ai fattori che determinano il comunitarismo Sumak Kawsay, tradotto approssimativamente in lingua castigliana Buen Vivir2. Si tratta di una proposta politica che chiama alla riflessione planetaria sulla necessità di cambiare rotta verso un nuovo paradigma che possa offrire alternative alle crisi contemporanee, riguardanti sia il modello di sviluppo in atto che l’insieme delle pratiche educative con cui i popoli indigeni si sono confrontati dall’epoca coloniale a oggi.

In particolare, il femminismo comunitario boliviano rappresenta una rivendicazione dell’autonomia delle donne indigene contro il patriarcato ancestrale originario e denuncia il sistema di oppressione machista all’interno delle stesse comunità indigene.

All’interno di questa cornice, viene rifiutata qualsiasi definizione di parità/uguaglianza di genere in quanto irrealizzabile dato che il genere femminile è costruito – storicamente e socialmente – in opposizione e in posizione gerarchicamente inferiore rispetto a quello maschile. Su questi argomenti si basa la critica delle attiviste comunitarie alla cosiddetta “ongizzazione”, la svolta neoliberale di alcuni movimenti di donne che – collaborando con le organizzazioni internazionali sul campo – si sono di fatto sottomessi alle logiche (e ai finanziamenti) della cooperazione internazionale e all’imposizione di un modello unico di “donna”. Una vera e propria violenza epistemica – come direbbe Chandra Talpate Mohanty – che comporta una narrazione egemonica di donna del terzo mondo completamente astratta rispetto alle vite, ai corpi e alle voci delle donne interessate, le quali difficilmente vengono coinvolte direttamente. La proposta delle comunitarie mostra l’intraducibilità – non solo letterale, ma culturale – di concetti che l’occidente pensa (e vende) come universali. Alle proposte dei femminismi occidentali di un posizionamento sempre individuale delle donne come uguali o differenti rispetto agli uomini, si contrappone la dimensione della comunità. Termine con il quale non si intende una specifica realtà, ma una modalità alternativa di intendere e organizzare la vita, una proposta alternativa alla società individualista. L’obiettivo del femminismo comunitario è superare il genere partendo e tornando nella dimensione comunitaria e questo tramite un ripensamento interno alla cultura indigena. Nello specifico, si mette in discussione il chacha-warni (uomo-donna) – elemento della cosmologia andina che riconduce tutto a un binomio maschile/femminile – e tutta la retorica della complementarità che lo accompagna. In questo senso, appare insufficiente praticare una complementarità che non mette in discussione, e anzi “naturalizza” la subalternità delle donne indigene all’interno delle comunità di appartenenza, imponendo un modello che è gerarchico, verticale e patriarcale in senso lato, nonché eteronormativo a causa della confusione tra complementarità e coppia. Altro punto fondamentale è il rapporto tra il corpo e il territorio. Quest’ultimo è un concetto molto complesso e mai riconducibile alla sola terra, ma include la flora, la fauna e le comunità umane che la abitano in uno stretto legame che ne garantisce la sopravvivenza reciproca. In estrema sintesi, i femminismi comunitari, legano la lotta a difesa dei territori a quella a difesa dei propri corpi, risignificando il diritto alla proprietà in senso comunitario e mettendo in luce un processo coloniale e neocoloniale, mai veramente concluso3.

Uno spunto che si può trarre dalle lotte di queste donne è la loro cosmovisione e capacità di mettere in comune i mezzi materiali di riproduzione che permettono di creare un interesse collettivo e legami mutualistici grazie alla reciprocità e alla gratuità. Si tratta di una pratica che decostruisce le gerarchie di genere, generazionali, di razza, di epoche, di visioni, di memorie, accademiche, creando comunità.

Francesca Gargallo, scrittrice, femminista, docente e specialista in Studi latinoamericani scomparsa nel 2022, nei suoi studi ha cercato di comprendere gli elementi di ciascuna cultura nella costruzione del movimento femminista: «È, in sostanza, necessario che il tabù epistemico della universalità del pensiero femminista considerato adatto e necessario per tutte le donne – sperimentato, vissuto e pensato in una specifica regione ideologica del mondo – venga scardinato con la ricerca di una epistemologia femminista decolonizzata»4. Gargallo individua quattro linee, ciascuna costituita da molteplicità, sfumature e intersezioni:

– le donne che, pur lavorando per il benessere delle donne nella comunità, non vogliono essere chiamate femministe per timore di essere stigmatizzate dalla comunità o dalle donne stesse;

– le donne indigene che non vogliono essere definite femministe per la postura critica che il femminismo bianco e urbano ha nei loro confronti;

– le indigene che partono dal lavoro delle femministe bianche e cittadine per vedere i punti di contatto che possano stimolare una riflessione sull’attitudine misogina della comunità;

– le donne che si definiscono apertamente femministe a partire da un proprio pensiero e collaborando con le altre femministe indigene e non5.

Indigeni e donne da diversi anni hanno iniziato a recuperare la trasmissione della conoscenza comunitaria anche per reagire all’egemonia dei paradigmi eurocentrici. Se le teorie nel corso dei secoli hanno spesso provocato conflitti, così come anche il sapere a volte è stato funzionale a riprodurre sistemi di dominio, bell hooks (pseudonimo di Gloria Jean Watkins) scrittrice, attivista e femminista afro-americana scomparsa nel 2021, nel libro Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà (Roma, Meltemi, 2020), celebra per converso la «teoria come pratica sociale dal valore libertario». Il libro si apre con alcuni racconti biografici in cui bell hooks ricorda di quando le scuole erano ancora differenziate per bianchi e neri e di quanto quegli ambienti ghettizzati siano stati per lei stimolanti. Al contrario, frequentare le scuole con i bianchi ha significato prendere atto della realtà patriarcale e razzista:

Noi ragazzini neri eravamo furibondi di essere stati costretti a lasciare la nostra amata scuola per neri e dover attraversare la città per essere inseriti nelle scuole bianche. Eravamo noi a spostarci, e quindi assumerci la responsabilità di rendere reale la desegregazione. Abbiamo dovuto rinunciare a quanto era per noi familiare, ed entrare in un mondo freddo e alieno”6.

bell hooks, riprendendo la pedagogia di Paulo Freire, intende lo spazio educativo come un’aula in cui riconoscere le diversità, le differenze di classe, razza e genere. Studentesse e studenti diventano parte attiva del loro processo individuale – e poi collettivo – di formazione e l’aula si trasforma nel luogo in cui le mutazioni delle reti sociali sono concrete. Le sue strategie pedagogiche si pongono come punto di rottura di un mondo borghese patriarcale, austero, conservatore e bianco. Negli anni in cui è docente alla University of California, i primi women’s studies sono il modello disciplinare in cui ha avuto luogo un vero e proprio cambio di prospettiva, in cui il riconoscimento delle differenze di classe e di genere ha portato a un’apertura al dibattito e al dialogo capovolgendo il concetto stesso di istruzione ed educazione come da sempre lo concepiamo. Sono inoltre l’esempio di come gli spazi, dalle piazze alle aule, possano diventare luoghi partecipativi e di condivisione della conoscenza, in cui è possibile rivoluzionare le normative dominanti7.

bell hooks, però, coglie con lucidità anche le complessità dei femminismi. Negli anni Novanta il razzismo femminile bianco nell’ambiente accademico esclude il discorso della razza da quello degli studi di genere e le prime cattedre di black studies sono incentrate su discorsi esclusivamente antirazzisti ed escludono la questione di genere. Le accademiche femministe bianche approfondiscono discorsi di razza e razzismo soprattutto a livello teorico, poco a livello pratico, cosicché le femministe nere si allontanano dagli ambienti femministi che includono le donne bianche. Secondo bell hooks è necessario parlare di genere in modo più complesso, tenendo conto della doppia emarginazione, da parte delle femministe bianche e del patriarcato nero, di cui sono state vittime le donne nere in generale nel momento in cui hanno, anche a livello accademico, rivendicato il proprio punto di vista.

Dobbiamo fare di più per richiamare l’attenzione sui modi in cui la teoria viene utilizzata in modo improprio. Dobbiamo fare molto di più che criticare gli usi tradizionali – e a volte reazionari – che alcune accademiche fanno della teoria femminista. Dobbiamo impegnarci attivamente per richiamare l’attenzione sull’importanza di creare una teoria in grado di far progredire movimenti femministi rinnovati, evidenziando in particolare la teoria che mira a promuovere l’opposizione femminista al sessismo e all’oppressione sessista8.

È quindi indispensabile tenere conto della situazionalità in cui ogni atto teorico è fattivamente inserito. Non includere nell’insegnamento la consapevolezza delle questioni relative a razza, sesso e classe è spesso dovuto alla «paura che le aule diventino ingestibili, che le emozioni e le passioni non possano essere controllate»9. Ma è proprio nelle passioni come rabbia, eros, coraggio, oppressioni, riconciliazioni che nasce l’azione e, attraverso le azioni, si può creare uno spazio di dialogo differente e visioni controegemoniche del mondo.

Simon Weil asserisce che prestare attenzione al prossimo e alle vicende altrui significa saper domandare “Cosa stai provando?” e saper ascoltare in maniera empatica la risposta. Ciò comporta sviluppare un sé interconnesso, definito dalla filosofa ecofemminista australiana Val Plumwood il sé ecologico che ha tra i suoi obiettivi il benessere delle alterità e delle comunità terrestri. Nelle diverse declinazioni degli ecofemminismi l’impegno nonviolento e pacifista è uno dei temi più importanti che le accomuna. Negli anni Ottanta, l’incidente di Cernobyl fissò un punto di svolta per molte femministe italiane ed europee; stesso effetto ebbe per le femministe statunitensi l’incidente della centrale di Three Mile Island: entrambi gli eventi crearono un collegamento tra prospettive ambientaliste e pacifiste dei movimenti delle donne.

Negli Stati Uniti l’origine dell’ecofemminismo si può far risalire alla conferenza Women and Life on Earth che aveva l’obiettivo di far convergere ecologia e antimilitarismo, dalla quale nacque l’idea della Women’s Pentagon Action. Entrambi gli eventi furono organizzati dalle femministe che avevano lavorato nella anti-nuclear Clamshell Alliance 81. «Il lavoro teorico dell’ecofemminismo individua le strutture interconnesse dei dualismi normativi, svela i modi in cui tali dualismi facilitano l’oppressione e l’esclusione, e denuncia sia concettualmente che nella pratica le ingiustizie nei confronti degli individui e dei gruppi dominanti»10. Per approfondire la questione ambientale (e quella animale) non è sufficiente riposizionare la vita umana in termini naturali e la natura in termini etici, occorre smascherare le premesse dell’oppressione, superare ogni forma di dualismo gerarchizzante e promuovere una visione relazionale della realtà capace di supportare un’etica effettivamente praticabile e simpatetica da affiancare a quella più tradizionale.

Infine ci si può chiedere quale rapporto stabilire tra le correnti di pensiero fin qui prese in considerazione e i cosiddetti paradigmi eurocentrici, che bene o male hanno fornito la cornice della nostra educazione. Un rapporto non puramente oppositivo, risponderei, visto che essi comprendono anche elaborazioni altissime di studiose e studiosi. Così è, per esempio, nel caso del pensiero di Georg Simmel, del quale, come in un gioco di libere associazioni, voglio qui riprendere alcuni frammenti, lasciando a chi legge di cogliere contrapposizioni e assonanze con le cose già dette.

Secondo il filosofo e sociologo tedesco: «Il conflitto non è là a bella posta per essere risolto»11, il vivere comune, il buon vivere, si costruisce non eliminando solo la componente negativa (il male, l’egoismo, la diversità ecc.) o incrementando unicamente la componente positiva (il bene, la carità, l’altruismo, sussidi materiali e/o economici, ecc.), bensì attraverso la gestione di forze che allo stesso tempo sono sociative e dissociative, cooperative ed egoiste.

Sotto traccia il metodo simmeliano suggerisce di praticare una razionalità nonviolenta che miri a una moderata quantità di conflittualità o intolleranza, tale che venga preservato un tasso relativamente sufficiente di pace o integrazione sociale. I conflitti non sono mai l’espressione di un’antitesi inconciliabile, ma l’annuncio della possibilità di trovare una mediazione ulteriore rispetto all’antitesi in atto. Proprio per questo, Simmel riconosce un ruolo senz’altro positivo all’antagonismo, che funziona come motore interno della società permettendo di superare le gerarchie e le stratificazioni che si formano al suo interno. Il ruolo positivo assegnato al contrasto non implica un giudizio positivo sulla natura umana, che continua a essere considerata a partire da un realismo morale, quanto piuttosto la convinzione che in qualche modo la società stessa lo produca per garantire la sua stessa riproduzione.

Per il filosofo tedesco non è il territorio a conferire significato alle figure sociologiche che abitano lo spazio, sono l’azione reciproca di donne e uomini, le loro relazioni che riempiono e animano uno spazio. I territori sono i luoghi grazie ai quale i contrasti possono essere ricomposti. Le interazioni non vengono considerate in vista del loro accrescimento temporale, e quindi nel punto che segnalerebbe l’esistenza di un’inconciliabile antitesi, ma della relazione spaziale tra due posizioni che vivono all’interno del proprio limite. Una teoria che coinvolge le azioni delle/dei singole/i cittadine/i nell’agire della vita quotidiana, la società intera e le relazioni tra Stati, rispecchiando il passaggio storico dall’epoca delle grandi certezze a quella delle certezze infondate12.

Riguardo al rapporto esseri umani e ambiente Simmel già verso la fine del 1800 aveva ben presente però che, in quanto essere vivente, «l’uomo non si inserisce spontaneamente nella realtà naturale del mondo come l’animale, ma si scinde da essa e le si oppone con i propri fini, lotta, usa la violenza e la subisce»13. Se dunque la vita tendenzialmente non vuole essere dominata né da ciò che le sta sopra (idealità), né da ciò che le sta sotto (fisicità), sfuggendo a qualsiasi condizione che vuole ricostruirla dall’esterno, «la posizione degli organismi all’interno del loro mondo è tale che essi in ogni attimo possono mantenersi in vita soltanto attraverso un qualche tipo di adattamento, nel senso più ampio della parola. Il rifiuto di questo adattamento significa la morte»14.

Il filosofo tedesco propone inoltre una visione del fenomeno del denaro analizzato in tutte le sue poliedriche sfaccettature: «tutta la nostra vita è caratterizzata dall’allontanamento dalla natura a cui ci costringe la vita economica e la vita cittadina che ne dipende […]. Il processo di civilizzazione, lo sviluppo dell’economia monetaria, del macchinismo e la sovrapproduzione di beni di consumo, hanno generato un modo diverso di stare al mondo, che perde di vista il centro della persona e riversa la vita nei mille rivoli dell’esteriorità»15. La sovrastimolazione sensoriale degli ambienti metropolitani, che induce donne e uomini a ostentare indifferenza e scetticismo, rispondendo in maniera smorzata agli stimoli esterni induce Simmel a introdurre il concetto di atteggiamento blasé. Cittadine e cittadini divengono meno recettive/i perché il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Subentra un’incapacità di reagire a eventi nuovi con la dovuta energia e questo costituisce quell’atteggiamento blasé che bambine/i metropolitane/i dimostrano a paragone di bambine/i provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Naturale conseguenza è la perdita dell’essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco e si diventa insensibili a ogni distinzione:

l’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze16.

Note

1 Abya Yala, “terra nella sua piena maturità” o “terra di sangue vitale”, è il nome usato dal popolo nativo americano Kuna, che abitava vicino al Darien Gap (oggi nord-ovest della Colombia e sud-est di Panama) per riferirsi al continente americano prima dell’arrivo di Colombo. Il leader boliviano Aymara Takir Mamani sostiene l’uso del termine “Abya Yala” nelle dichiarazioni ufficiali degli organi di governo delle popolazioni indigene, dicendo che «collocare nomi stranieri nei nostri villaggi, nelle nostre città e nei nostri continenti equivale a sottoporre la nostra identità alla volontà dei nostri invasori e dei loro eredi». Quindi, l’uso del termine “Abya Yala” piuttosto che un termine come “Nuovo Mondo” o “America” potrebbe avere implicazioni ideologiche che indicano sostegno ai diritti indigeni.

2 Buen Vivir, è il principio costituzionale (Costituzione della Repubblica dell’Ecuador) basato sul “Sumak Kawsay”, che include una visione del mondo che intende l’essere umano parte della realtà naturale e sociale. Nello specifico, il Buen Vivir è la soddisfazione dei bisogni, il raggiungimento di una qualità dignitosa della vita e della morte, l’amore e l’essere amati, una sana fioritura delle qualità umane, in pace e armonia con la natura. Vivere bene significa avere tempo libero per la contemplazione e l’emancipazione, affinché la reale libertà, le opportunità, la capacità e le potenzialità degli individui si espandano e prosperino in modo che consenta loro di raggiungere simultaneamente ciò che la società, i territori, le diverse identità collettive e ciascuno – visto come essere umano universale e particolare allo stesso tempo – considera obiettivo desiderabile nella vita, sia materialmente che soggettivamente e senza produrre alcuna forma di dominio su un altro individuo (secondo il Piano Nazionale per una Buona Vita, 2009-2013, su internet: http://www.buenvivir.gob.ec/inici). Il Buen Vivir, radicato nella cosmovisione dei popoli quechua delle Ande descrive dunque una visione comunitarista, egualitaria ed ecologista. Uno stile di vita lontano dal capitalismo di mercato, che ispirato alla Costituzione Ecuadoriana, rivista di recente, recita: «[…] abbiamo deciso di costruire una nuova forma di convivenza pubblica, nella diversità e in armonia con la natura, per ottenere il buon modo di vivere». Buen Vivir si traduce letteralmente “buon vivere” o “ben vivere”, anche se nessuno dei due termini si adatta bene al significato originario indicato dai nativi americani: infatti, il soggetto del benessere non è l’individuo, ma l’individuo nel contesto sociale della propria comunità e nella propria realtà ambientale.

3 Serena Pandolfi, Femminismo decoloniale: razza e genere in America latina, «Lo spiegone/In Trouble Be Clear», 19 giugno 2020. Chandra Talpade Mohanty è un’attivista sociologa, docente emerita in Women’s studies e Gender studies, e Dean’s Professor of Humanities presso la Syracuse University. Nata a Mumbai in India nel 1955, ha conseguito nel 1974 la sua laurea con lode all’Università di Delhi. La sua genealogia intellettuale e politica è ancorata alla generazione indiana post-indipendenza e alle teorie e pratiche dei movimenti decoloniali. L’esperienza di vita e di insegnamento in Nigeria l’hanno portata a porsi nuove domande sui modi di dominazione coloniale e la loro connessione con le politiche imperialiste. Nel 1987 ha continuato la sua formazione ottenendo un dottorato presso l’Università di Illinois alla Urbana-Champaign. Negli Stati Uniti la sua indagine si rivolge più chiaramente a comprendere le articolazioni del potere, legando dominazione economica, razziale e di genere. Mohanty ha insegnato inoltre all’Hamilton College in Clintona, New York. Ha ricevuto diversi dottorati onorari: dalla Facoltà di Scienze Sociali della Lund University in Svezia, e dal College of Wooster in Scienze umane. Teorica e attivista del femminismo transnazionale, si è occupata di diffondere un approccio situato che esplora le esperienze di lotta delle donne di tutto il mondo, creando nuove forme possibili per orientare una solidarietà femminista anticapitalista e antirazzista attraverso i confini. Il femminismo per Chandra Talpade Mohanty deve essere capace di intervenire nel presente delle configurazioni sistemiche anche nel nesso tra capitalismo-Stato-nazione e nel dispiegamento dei processi di resistenza e cambiamento.

4 Rebecca Rovoletto, Il lato femminile dei conflitti territoriali. Appunti di viaggio in Abya Yala, Università Ca’ Foscari, Venezia, DEP, Deportate, esuli, profughe, Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, 2020, p. 202.

5 Ivi, p. 203.

6 bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Roma, Meltemi, 2020.

7 Ilaria Giaccio, Insegnare a trasgredire: note a margine dei saggi di bell hooks, in «Exibart», febbraio 2021.

8 bell hooks, Insegnare a trasgredire…, cit..

9 Ibidem.

10 Donne, ambiente e animali non-umani. Riflessioni bioetiche al femminile, A cura di Carla Faralli, Matteo Andreozzi e Adele Tiengo, Milano, LED Edizioni universitarie, 2014.

11 Georg Simmel, Der Konflikt in der modernen Kultur. Ein Vortrag, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1918. In italiano sono comparse le seguenti edizioni: Il conflitto della civiltà moderna, a cura di Giuseppe Rensi, Torino, Bocca, 1925 (a questa edizione rimandano i riferimenti dei passi citati) (nuova edizione: Milano, SE, 1999). Una nuova traduzione è poi comparsa come Il conflitto della cultura moderna, a cura di Carlo Mongardini, Roma, Bulzoni, 1976.

12 Cfr. «Scienza e Pace», numero dedicato a: Teorie del conflitto e filosofie della pace. A 100 anni dalla pubblicazione di ‘Der Konflikt der modernen Kultur’ di Georg Simmel, 2018.

13 Georg Simmel, Concetto e tragedia della cultura, in Id., Arte e civiltà, a cura di Dino Formaggio e Lucio Perucchi, Milano, Isedi, 1976, p. 83.

14 Georg Simmel, Metafisica della morte, in Id., Arte e civiltà, cit., pp. 69-70.

15 Georg Simmel, Filosofia del denaro, a cura di Alessandro Cavalli e Lucio Perucchi, Traduzione di Alessandro Cavalli, Renate Liebhart, Lucio Perucchi, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 1984, p. 409.

16 Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito (1903), Roma, Armando, 1995.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *