Politica, Temi, Interventi

In che cosa si è distinto il Governo Meloni rispetto a quelli precedenti nella gestione della memoria delle foibe e dell’esodo degli istriani e dalmati? Nel fatto di aver istituzionalizzato in maniera più forte le celebrazioni con la creazione di un comitato di coordinamento presso la Presidenza del Consiglio. Un organismo, presumibilmente dotato di fondi, che dovrebbe rendere “permanente” la politica del ricordo e non ridurla soltanto alla giornata del 10 febbraio. In che modo? Per esempio, come suggerisce il relatore della legge sull’istituzione del giorno del ricordo, sen. Roberto Menia, organizzando gite scolastiche, si presume sui luoghi del Carso o nella parte bassa dell’Istria, oggi territorio croato. Oppure organizzando per tutto l’anno scolastico iniziative nelle scuole, magari attingendo anche alle risorse del PNRR sul cui uso molte scuole sono indecise o impreparate. Inculcando cioè nell’immaginario delle nuove generazioni la figura di antenati italiani vittime di barbarie, così come gli ebrei furono vittime dello sterminio nazista (è del maggio 2021 un’iniziativa legislativa di Fratelli d’Italia per una riforma del Codice penale atta a modificare il testo di certe leggi in modo da includere, accanto alla menzione della Shoah, la menzione delle foibe, due fenomeni posti sullo stesso piano).

Ma nell’iniziativa di Giorgia Meloni va individuato anche un altro scopo, che non dobbiamo trascurare se vogliamo capire la sua diversa gestione della “narrazione” fascista. Il Comitato di coordinamento ha avuto anche il ruolo di “controllare” gli eventuali “svarioni” che una destra esaltata dalla sua attuale egemonia avrebbe potuto commettere, creando imbarazzi al Governo. In particolare quelli riguardanti rivendicazioni territoriali.

Molti ricordano infatti che l’attuale ministro degli Esteri, Tajani, commemorando quegli avvenimenti alla foiba di Basovizza nel 2019, concluse il suo discorso gridando “Viva l’Istria italiana!”, e suscitò le vive proteste del Presidente della Croazia. In questo momento delicato il Governo vuole evitare incidenti diplomatici, che renderebbero più difficile di quanto già lo sia il suo posizionamento all’interno dell’Unione europea. E di questo va preso atto. Ma può essere anche che ciò nasconda un progetto più ambizioso, che va ben al di là dell’episodio delle foibe e dell’esodo degli istriani e dalmati. La vera posta in gioco delle politiche della memoria oggi, il vero “colpo grosso” di una destra d’ispirazione fascista al governo può essere: cambiare le carte in tavola sull’evento più tragico e determinante del Novecento, la seconda guerra mondiale. Infatti, sottoponendo le nuove generazioni al martellamento del concetto “italiani vittime di barbarie alla fine della seconda guerra mondiale” ci si adopera per inculcare l’idea che Mussolini ha combattuto una guerra giusta. Invece la storia scolpita nella pietra sa che la più terribile distruzione che l’Italia abbia subito, che la morte di centinaia di migliaia di soldati e civili italiani, furono dovuti al fatto che Mussolini ha spinto il Paese in una guerra dalla parte sbagliata, a fianco di uno dei peggiori criminali della storia, Hitler.

Se la posta in gioco della politica della memoria oggi è il senso della Seconda guerra mondiale, cioè dell’evento rispetto al quale sia la Shoah che le foibe sono dei derivati, dovremmo anche noi proporre qualche espediente mediatico per frenare questa deriva, dovremmo proporre l’istituzione di una giornata della memoria o del ricordo o della meditazione sull’evento chiamato WWII, Seconda guerra mondiale. Da che parte stava l’Italia? Perché sono stati mandati al macello i soldati dell’esercito italiano, i marinai e gli ufficiali della Marina, dell’Aviazione? A fianco di chi hanno combattuto in Francia, in Africa, nei Balcani, in Russia?

Sarà difficile a Ignazio La Russa ricordare la Shoah, strizzando l’occhio a Israele, e contemporaneamente negare che l’Italia ha combattuto dalla parte sbagliata.

L’attenzione all’“uso pubblico della storia”

“Ma” – dirà qualcuno – “non basta la storia della Resistenza e la cultura antifascista per mettere in chiaro che l’Italia stava dalla parte sbagliata?”.

Fino a un certo punto, perché la storia della Resistenza, che ha iniziato a diventare progetto culturale e politico nel 1949 quando Parri ha costituito l’Istituto Nazionale (e quattro anni dopo, nel 1953, ex dirigenti del CLN triestino, senza i comunisti, costituiranno l’Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Friuli e Venezia Giulia), è stata usata anche per “pulire” l’Italia dalle responsabilità del fascismo, come un atto di riparazione/purificazione e, in definitiva, di legittimazione dell’Italia democratica del 1945/46, nazione sconfitta ma anche alleata dei vincitori, che ha diritto a pieno titolo a essere riconosciuta come paese occidentale a democrazia parlamentare.

Fortunatamente pochi anni dopo gli Istituti della Resistenza diventavano Istituti di Storia del Novecento e svolgevano un ruolo importante nel caratterizzare la Storia Contemporanea in Italia come una disciplina che non poteva evitare di fare i conti con un approccio “militante”, dove il mestiere dello storico richiede un impegno politico nel presente.

A Trieste, per quanto posso ricordare – ho iniziato a prendere i contatti con Ercole Miani, Galliano Fogar, Teodoro Sala nella sede dell’Istituto situata nell’edificio del Teatro Verdi mentre preparavo la tesi di laurea – lo sguardo si è aperto alla storia del Novecento, affrancandosi da una visuale locale, per merito in particolare di Enzo Collotti. La storia dell’Adriatisches Küstenland diventava una storia organica a quella del Terzo Reich più che a quella della Repubblica Sociale Italiana, era una storia figlia dell’Anschluss con cui il nazismo s’era appropriato dell’Austria più che del 25 luglio romano. Con Enzo Collotti non significava soltanto avere come guida il maggior conoscitore della storia della Germania nazista ma anche uno storico che aveva un piede fuori dall’accademia, per la sua presenza nel gruppo di storici dell’allora Istituto G.G. Feltrinelli (oggi Fondazione) e per la sua vicinanza a Lelio Basso, collezionista di documenti importanti della storia del movimento operaio, che poi costituiranno parte del fondo dell’ISSOCO. Notazione questa che mi sembra necessaria, perché forse non è stato mai messo sufficientemente in rilievo che la contemporaneistica italiana ha tratto dalla presenza di istituzioni di ricerca non accademiche – come appunto gli Istituti della Resistenza, l’Istituto Feltrinelli, l’ISSOCO – non pochi spunti metodologici ma soprattutto una sensibilità particolare verso l’“uso pubblico della storia”.

Da qui nasce all’interno dell’Istituto triestino e giuliano, soprattutto nella fase in cui Giovanni Miccoli esercita su di esso la sua influenza scientifica, il coraggio di affrontare la tematica delle foibe e dell’esodo istriano-dalmata. Nasce nella primavera del 1977 il progetto che darà luogo alla pubblicazione Storia di un esodo. Istria 1945-1956, opera di studentesse e studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste. La prefazione di Miccoli oggi è tutta da leggere, perché definisce il progetto come uno strumento per combattere il “desiderio di dimenticare e di far dimenticare, un’ansia di voltare pagina”. E citava le parole, scritte nel 1973, di un ex partigiano del movimento di liberazione yugoslavo: “Molti compagni preferiscono dimenticare e far dimenticare una pagina nera della nostra storia recente. Non basta. Occorre riesaminare criticamente quei fatti”. Proprio l’esatto contrario di quello che affermano i nostri nuovi governanti (“La memoria delle foibe vittima per troppi anni di una congiura del silenzio”, ha detto la nostra Primo ministro, lei che nella primavera del 1977 era appena nata. E subito le ha fatto eco il Presidente Mattarella, “un carico di sofferenze, per anni rimosso”). Tra l’altro, a proposito di dimenticanze, il volume, uscito nel maggio 1980 per i tipi del Villaggio del Fanciullo di Opicina, si chiude con un ampio saggio di Annamaria Brondani sui provvedimenti in favore degli esuli giuliano-dalmati presi dai governi italiani del dopoguerra. Dimenticati o trascurati questi esuli proprio non sono mai stati, semmai strumentalizzati dal MSI e da parte della DC. A Trieste negli anni 50 e 60, quando in città sindaco e vescovo erano due istriani, ambedue nati a Rovigno, molti nutrivano un sordo rancore verso gli esuli, avvantaggiati nei concorsi pubblici, nell’assegnazione di case popolari ecc.. Parecchi di loro vivevano ancora ammassati nei vecchi magazzini del porto (da leggere le belle pagine di Verde acqua di Marisa Madieri).

Da allora, mentre l’Italia era scossa dalle azioni delle Brigate Rosse e dalle bombe degli strateghi della tensione, inizia un sistematico lavoro di scavo che continuerà nei venti anni successivi e che vedrà, tra l’altro, la costituzione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena (1993) che nel 2001 consegnerà un Rapporto condiviso ma considerato ancora insufficiente dalle storiche e dagli storici triestini, che continueranno a lavorare su quei temi in stretto rapporto con colleghe e colleghi sloveni, serbi, croati, bosniaci, residenti nei loro rispettivi paesi o in Italia. Grazie al loro lavoro molti infoibati ebbero finalmente un nome e cognome, gli esuli rimasti in Italia o emigrati in Australia poterono raccontare le loro storie. Il contesto estremamente complesso in cui si collocano queste vicende fu analizzato, sviscerato, anche con un grande lavoro di storia orale, che permise di entrare in dinamiche e casi specifici che si sottraggono a qualunque classificazione. La letteratura sulla storia di quel pezzo di territorio europeo in quegli anni si arricchì a vista d’occhio, la rivista dell’Istituto di Trieste “Qualestoria” è una fonte essenziale per aggiornare la bibliografia.

Contestualizzare o alzare il tiro?

Dunque alla fine del secolo quello che c’era da dire d’importante su queste vicende “scottanti”, come le definisce Miccoli, era stato detto. Prima dell’istituzione del giorno del ricordo. Che nasce proprio come negazione di questo lavoro di scavo e consente oggi alla narrazione ufficiale di gridare alla “congiura del silenzio”.

Dinanzi a questo vero e proprio sopruso ci possono essere due tipi di risposta, non necessariamente alternativi. Uno è quello di “rintuzzare” la narrazione della giornata del ricordo. Vuoi, come hanno fatto Raul Pupo e altre/i, redigendo un vademecum con una serie di precisazioni e puntualizzazioni, di modi d’osservare il passato, che possano funzionare da antidoto alle semplificazioni, alle mistificazioni, alle menzogne che eruttano dai giornali e da certa stampa il 10 febbraio. Vuoi con il lavoro di controinformazione di alcuni collettivi di studiosi e di militanti che allargano lo sguardo alla complessità dei fattori in gioco e smentiscono precise affermazioni e interpretazioni (https://www.internazionale.it/notizie/nicoletta-bourbaki/2017/02/10/foibe, https://www.wumingfoundation.com/giap/2015/02/foibe-o-esodo-frequently-asked-questions-per-il-giornodelricordo/).

Una buona parte di queste due linee di risposta non ha alcuna enfasi polemica, sono semplici messe a punto, come si dice, contestualizzazioni. Ma anch’esse vengono liquidate come “giustificazionismo”.

Allora un altro tipo di risposta potrebbe essere quello di approfittare in positivo di questa occasione per spostare il terreno di scontro. Non è sempre detto che si debba andare incontro all’avversario sulla direttrice sulla quale sta avanzando, può essere meglio certe volte aprire le ostilità su un altro fronte, per attirare l’avversario su un terreno che riteniamo più favorevole. Il terreno su cui spostare lo scontro a mio avviso è quello della “politica della memoria e dell’oblio”, cioè su uno dei temi che riguardano la storiografia in quanto tale, il mestiere dello storico in quanto tale. E qui non abbiamo da contestare solo il modo in cui vengono ricordati l’esodo e le uccisioni del 1945, ma anche il modo in cui viene ricordata la Shoah, ormai, per certi versi, diventata un brand, di cui possono servirsi anche i neofascisti. Dobbiamo discutere il cambio di paradigma che è avvenuto da una fase in cui la Seconda guerra mondiale è stata letta all’insegna della contrapposizione tra fascismo e antifascismo alla fase in cui questo paradigma è stato sostituito da quello dell’antitotalitarismo (tema su cui è sempre valido il volume, di ormai dieci anni fa, a cura di Filippo Focardi e Bruno Groppo, L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella 2013), cioè da qualcosa di molto più insidioso del negazionismo. Quando, dopo la caduta del Muro di Berlino, un illustre storico tedesco ebbe il coraggio di affermare che i tedeschi non dovranno mai dimenticare Auschwitz e la DDR, due facce dello stesso orrore, si toccano i limiti dell’aberrazione.

Dobbiamo dunque tornare alle radici dei problemi, all’essenza delle cose, partendo da situazioni che, in un contesto europeo del Novecento, appaiono come marginali. Dobbiamo tornare a interrogarci sui modi di fare storia, sulla deontologia dello storico. Mi chiedo per esempio: l’Associazione Italiana di Public History (vedo la sua ultima Newsletter, n. 5. gennaio 2023) si sente “interrogata” dal modo in cui viene gestita, è stata gestita, la vicenda delle foibe? La tematica dell’“uso pubblico della storia”, così cara ai movimenti degli Anni ‘70, è oggi di estrema attualità, vedi la guerra in corso in Ucraina. Ma lo era anche nel 1991 quando Milosevic istigava le folle il vidovdan, il giorno di San Vito, che nella mitologia serba ricorda la battaglia contro l’esercito ottomano alla Piana dei Merli (Kosovo Polje).

Chi si è occupato delle vicende dell’Alto Adriatico orientale ha dato un contributo importante alla conoscenza dell’età contemporanea, numerose le donne, le storiche, che vi hanno svolto un ruolo determinante (Anna Millo, Diana De Rosa, Tullia Catalan, Marta Verginella, Gloria Nemec, Marina Cattaruzza, Ariella Verrocchio, Moscarda Oblak, Mila Orlic).

Una particolare ferocia

A conclusione voglio solo aggiungere qualcosa che completa il panorama del territorio che i partigiani di Tito hanno incontrato nella loro avanzata. Quando i nazisti costituiscono l’Adriatisches Küstenland piovono a Trieste, come trascinati dalla risacca della storia, una decina di supercriminali, una specie di élite dell’orrore, appartenenti alle SS e alla Polizia tedesca, che si erano distinti in due operazioni. Quella conosciuta come T4 aveva portato all’eliminazione come “vite non degne di essere vissute” (lebensunwerte Leben) circa 70 mila disabili e malati mentali tedeschi, e quella conosciuta come Aktion Reinhard (pare dal nome del capo del servizio d’informazioni delle SS e governatore della Boemia Heydrich, ucciso in un attentato a Praga nel 1942) aveva portato all’eliminazione di 1 milione e mezzo di ebrei polacchi. Tra questi personaggi, oltre al triestino Odilo Globocnik, c’era un certo Christian Wirth, ispettore dei Lager di Belzec, Treblinka e Sobibor, che cadrà nell’imboscata tesagli dai partigiani della Istrski odred il 26 maggio 1944 a Hrpelje-Kozina, il paesino del Carso dove i miei genitori mi portavano ogni tanto in vacanza, perché ci si arrivava con il treno. La foto che ritrae le solenni onoranze tributategli è stata scattata a Opicina dove era insediato un fortissimo contingente di truppe naziste, che opposero una strenua resistenza all’avanzata dei partigiani di Tito, conclusasi addirittura il giorno dopo che in città i tedeschi si erano già arresi ai neozelandesi. Nella battaglia di Opicina – che da Trieste si raggiunge in 15 minuti di autobus – caddero circa 700 tedeschi e circa 300 componenti le formazioni di Tito. Ricordo ancora, immagini che non si cancellano mai dalla memoria, impresse dai traumi della guerra, i boschi cosparsi di elmi, di pallottole di ogni tipo e altri residui militari. La battaglia doveva essere stata furibonda, si è parlato di migliaia di prigionieri tedeschi. Alcune centinaia finirono in una foiba e i loro resti furono esumati da una missione della Repubblica Federale, che li depose nel cimitero militare tedesco di Costermano sul lago di Garda. In quella occasione vennero spostate anche le salme di Wirth e di altri del suo rango, di stanza a Opicina, come Reichleitner, austriaco, comandante del Lager di Sobibor, e portate a Costermano. Nella seconda metà degli anni 80 fu nominato console generale della RFT per l’Alta Italia Manfred Steinkühler, diplomatico e storico che aveva collaborato alle ricerche della nostra Fondazione (l’elenco delle pubblicazioni e le 37 annate della rivista della Fondazione sono consultabili su https://www.stiftung-sozialgeschichte.de/index.php/en/), una parte delle quali si era concentrata sui programmi di eutanasia del regime di Hitler. Steinkühler chiese la rimozione delle salme dei criminali nazisti sepolti a Costermano. Si scatenò contro di lui una campagna di stampa nella RFT che lo avrebbe costretto al ritiro anticipato dal servizio (nel frattempo era caduto il Muro di Berlino). Ma il problema fu sollevato di nuovo negli anni Duemila da gruppi di reduci della Resistenza italiana e ancor oggi accade d‘incontrare, navigando sul web, persone che riaprono la questione o patiti di storia dei crimini nazisti che s’interrogano sui minimi particolari dell’attentato in cui è caduto Wirth, i cui resti sono ancora a Costermano.

Il tutto per dire che l’apparato nazista che si era impadronito del territorio di Trieste e dintorni era di una particolare efferatezza, spalleggiato da formazioni di ustascia croati e di domobranci sloveni la cui crudeltà sconvolse persino componenti della Decima Mas che combattevano al loro fianco (v. il bel documentario di Giorgio Carella, X Mas, Storia degli uomini che volevano bruciare New York, DVD). Nei confronti di questi collaborazionisti slavi – serbi, croati, sloveni – la vendetta degli uomini di Tito fu spietata, dove il termine “massacro” può essere appropriato. Ciononostante, se dovessimo applicare la regola dell’“occhio per occhio, dente per dente” il conto fu ben lungi dall’essere saldato. Riuscì a farla franca persino qualcuno degli aguzzini della Risiera di San Sabba. Oggi sappiamo molto di più sull’interesse di Tito per Trieste e su come abbia personalmente guidato l’azione diplomatica tendente a cercare uno sbocco al mare durante tutto il periodo che precede il trattato di Osimo. Lo sappiamo dalle ricerche di Tenca Montini (La Jugoslavia e la questione di Trieste, 2020), che ci fanno capire meglio perché Tito nel ‘45 avesse voluto entrare a Trieste prima ancora di aver liberato Fiume e Lubiana, sacrificando migliaia di suoi uomini. E sappiamo meglio cosa accadde in Jugoslavia dopo l’espulsione dal Cominform, l’ossessione dell’opposizione interna fomentata dall’Unione Sovietica, l’instaurazione di un “maccartismo titino”, il gulag di Goli Otok e la lenta involuzione della via jugoslava al socialismo. Per contro l’intuizione che il movimento dei paesi non allineati avrebbe rappresentato il futuro riporta la figura di Tito tra i grandi protagonisti del Novecento, i nanerottoli della politica di oggi possono qualificarlo come un bandito criminale fin che vogliono, il giudizio della storia non può cambiare.

Poscritto

Là dove i nostri parametri culturali, i nostri schemi di pensiero hanno difficoltà a orientarsi, è la guerra in Jugoslavia dei primi anni ‘90. Ci vengono ancora utili quei parametri di fronte alla caduta del Muro di Berlino, di fronte alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma non di fronte all’implosione della Federazione jugoslava. Perché lì un’altra dimensione della guerra ha fatto la sua comparsa, Paolo Rumiz è l’unico forse ad averlo intuito con chiarezza in Maschere per un massacro. È una guerra che corrisponde all’economia neoliberale, una guerra che nasce come un investimento privato, un business di milizie, dove la componente etnica è solo apparentemente determinante. Fino a che punto questa sia la fine del Novecento e l’inizio della forma guerra del Duemila credo si possa vedere anche dall’attuale tragedia ucraina. Fino a che punto la politica della memoria abbia accompagnato questa svolta non è un interrogativo che ci poniamo solo oggi, se lo era posto Karl Heinz Roth, quando in Conchetta venne a dare il suo contributo al ciclo sul revisionismo storico, organizzato da Pierpaolo Poggio per la LUMHI (Libera Università di Milano e del suo Hinterland). Era il 1997 e lui ci parlò del Volksgruppenrecht come di un’operazione culturale importante che la Germania unificata stava sviluppando, in vista di una ripresa di politica di potenza. Era qualcosa che, a suo giudizio, conteneva una forte carica destabilizzante sul piano europeo e che, sempre a suo giudizio, aveva guidato la “manina” tedesca nell’appoggio alle ambizioni della Croazia indipendente o della Slovenia. Non fummo in grado di percepire allora che quello spunto ci poteva aiutare a capire meglio la “novità” della forma guerra che si stava combattendo in Jugoslavia. Ci ho ripensato adesso e mi sono chiesto se l’aggressione all’Ucraina da parte di Putin può essere spiegata con i vecchi parametri – richiamo al passato zarista/orgoglio di potenza – con cui continuiamo a ragionare oppure non sia da classificare come operazione di business, dove la componente “privatistica” svolge un ruolo determinante. Se così fosse, le vicende della Venezia Giulia negli anni 1943-54 appaiono proprio come appartenenti a un’altra era geologica. Perché allora tirare in ballo la guerra in Jugoslavia degli anni ‘90? Perché a ben vedere il giorno del ricordo è uno dei frutti avvelenati, seppur tardivi, della dissoluzione della Repubblica Federale e della ricostituzione dei peggiori nazionalismi nei Balcani. Anche se qualcuno, all’origine, ingenuamente l’aveva vista come un atto di “conciliazione”. Negli anni ‘90 Tudjman rilegittima gli ustascia in Croazia, dopo la morte verrà accusato di essere un criminale di guerra alla pari di un Milosevic, di un Mladic, ma il seme da lui gettato dà ancora oggi i suoi frutti infami (si pensi alla devastazione del cimitero partigiano di Mostar dove ben 600 stele sono state frantumate; nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2022, l’altro ieri). È bene ripeterlo: non si può scherzare con la memoria del nazifascismo da quelle parti. E l’aria che tirava a Trieste nel 1943-45 assomigliava più a quella che si respirava nella Lika o in Dalmazia che nel Veneto o in Lombardia.

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