Contributo estratto dal volume “Il lavoro povero. Fattori di vulnerabilità e azioni di contrasto” (Futura Editrice 2025), contenete la ricerca coordinata dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio e condotta in collaborazione con il CRS.
Il presente contributo si propone di fornire alcune riflessioni trasversali alle diverse ricerche sul campo e, in qualche caso, di evidenziare possibili prospettive di intervento di carattere generale, pur sapendo di correre il rischio insito in ogni estrapolazione da un contesto dato.
Partiamo dall’articolo di Lorenzo Coccoli: la sua storia del concetto di lavoro povero nel tempo è, in filigrana, anche la storia del sorgere del lavoro industriale. Un cambiamento della struttura produttiva su cui si è innestata l’azione del movimento operaio che ha costruito una scissione, anche concettuale, tra lavoro e povertà, ribaltando in diritto l’obbligo al lavoro. Perciò è con molta riluttanza, anche delle rappresentanze dei lavoratori, che oggi si assiste al riavvicinarsi di questi due concetti. Infatti, il concetto di lavoro povero implica che si può lavo-rare anche fino a sfiancarsi, come è evidente nello studio di caso sull’agricoltura, rimanendo «in miseria».
Si può dunque ipotizzare, come hanno fatto molti, un ribaltamento nella storia del lavoro. Mentre nel XX secolo si era costruita una rivalutazione del lavoro – tanto che in Europa tale secolo è passato alla storia come il secolo del welfare e dei diritti del lavoro – oggi si assiste ad una trasformazione delle strutture produttive che assume spesso i connotati di una sua svalutazione, assieme a quella di lavoratrici e lavoratori. Si tratta ovviamente di un processo in divenire, che assume, a volte, persino il segno dell’opportunità economica nella competizione globale. Questo processo di ascesa del lavoro povero si accompagna alla crisi di alcune istituzioni che caratterizzavano i processi di contrattazione e di relazioni industriali del secolo scorso, per cui assistiamo a una crisi delle retribuzioni e, anche, a una crisi degli spazi e dei tempi di vita e di lavoro.
Per quanto riguarda gli spazi, nel XX secolo si è affermata una distinzione tra la casa ed il luogo di lavoro. Questa ricerca ci illustra almeno due circostanze in cui, oggi, l’abitazione diventa il luogo di lavoro «povero»: il lavoro da remoto ed il lavoro di cura a domicilio. In entrambi i casi questa è sia un’opportunità che un problema. Se si vuole riflettere sull’opportunità, si pensi ad esempio al lavoro di badante. Un insieme di persone, per lo più migranti e donne, che vedono, a volte e parzialmente, risolto il problema dell’alloggio. Problema che tutte le ricerche presentate nel volume indicano tra i principali fattori di vulnerabilità per i lavoratori migranti, come nel caso dei ghetti nell’agricoltura, dove una manodopera povera e senza documenti fatica a trovare anche solo un tetto sulla testa. Lo stesso problema si presenta nel momento in cui pensiamo alla necessità di spostarsi per lavorare, quotidianamente, propria dei pendolari, come nel caso di Matera o di chi, in generale, lavora nelle aree interne.
I risultati delle indagini svolte evidenziano anche le criticità determinate dal lavoro da casa, sia per l’incremento dei carichi di lavoro e degli orari, sia per una possibile correlazione negativa con la crescita professionale. Il rapporto tra casa e lavoro è problematico, ossia si risignifica, anche per i lavoratori ad alta qualifica. Si leggano ad esempio le interviste dei lavoratori da remoto sui timori che la distanza dal «vero» luogo di lavoro diventi un freno per le opportunità di carriera, o quelle dei lavoratori della cura a domicilio che sottolineano di essere sottovalutati rispetto a chi fa lo stesso lavoro negli ambulatori. Tutto ciò senza approfondire i molti e complicati problemi di relazioni umane che sorgono con chi quella casa/luogo di lavoro continua ad abitarla come prima e se ne sente il «proprietario». Non sembrerà allora una forzatura sottolineare che la rivendicazione dei presidi di comunità – nel caso dello smartworking – è, anche, un modo per ricreare una distanza tra la casa ed il luogo di lavoro. Anzi in prospettiva, con luoghi di lavoro potenzialmente interscambiabili. D’altronde, nella stessa direzione vanno le esperienze di cohousing in tema di non autosufficienza. Con la sola differenza che in precedenza la separazione tra vita personale e lavoro era un fattore acquisito, mentre oggi è una rivendicazione da costruire tra mille difficoltà.
Il rapporto tra luoghi e lavoro ridefinisce anche l’azione sindacale, verso un sindacalismo di strada e uffici di prossimità, e in generale, verso la necessità di costruire nuove forme di aggregazione, superando la frammentazione del lavoro da casa così come quella del lavoro autonomo, come dimostrato anche dall’efficacia dei presidi di comunità nel rafforzare le reti di supporto.
Dunque, il contrasto al lavoro povero evidentemente interessa anche il rapporto tra casa e lavoro e, dunque, le opportunità di sviluppo urbano a livello locale e i percorsi di conciliazione.
Per quanto riguarda il tempo di lavoro, in tutti gli studi di caso è presente la «menzogna», più o meno illegale1, sulla reale durata dell’orario di lavoro (l’orario di fatto) che fa sì che buona parte dei lavoratori oggetto di studio siano preda del lavoro grigio più che del lavoro nero. In questo senso si evidenzia che il part-time involontario è, forse, solo la punta dell’iceberg. Si assiste ad una riduzione/rimozione del legame tra salario ed orario nelle diverse forme di cottimi «spuri»: nel pulito nel caso dei bed and breakfast di Matera. Per comprendere meglio le dimensioni del lavoro povero appare importante indagare più approfonditamente tutte le nuove forme di «cottimo» create nel cosiddetto lavoro «intermittente», mettendole in relazione con lo sviluppo del subappalto e del caporalato. E nei casi in cui è utile e possibile, sarebbe opportuno studiare come regolamentarle e contrattualizzarle.
Non solo i luoghi e tempi di lavoro si fanno sempre più articolati e destrutturati ma, anche, ciò che potrebbe essere in qualche modo circoscritto, definito e tutelato, crolla sotto la spinta dei comportamenti illegali dei datori e, in generale, dello sbilanciamento dei rapporti di forza.
Non a caso in tutti gli studi di caso proposti, uno dei riferimenti centrali è l’affermazione dei contratti di lavoro. Molte rivendicazioni ruotano, infatti, in-torno alla sempre più impellente necessità di far rispettare gli stessi. Detto al contrario, e come illustrato dalle interviste, è rilevabile una crescente ed impunita evasione dei contratti ed a volte la loro assenza, fosse solo per i mancati rinnovi per anni o per la presenza di contratti pirata. Tale diffuso inadempimento con-vive con una numerosità elevata dei contratti collettivi stipulati. Nell’articolo di Salvo Leonardi sulla direttiva europea in materia di salario minimo questa evidenza è largamente documentata fino a fargli scrivere:
“In Italia, quando un lavoratore è assunto con rapporti di lavoro standard, ossia a tempo pieno e indeterminato, e regolati da contratti nazionali genuinamente rappresentativi, la situazione può davvero risultare comparativamente lusinghiera. Il problema, si potrebbe dire, è che una situazione tanto standard sta divenendo sempre meno comune”.
Di fatto aggiungendo ai dati esposti in queste analisi quelli del capitolo di Valerio Tati, sulle tendenze e specificità del lavoro povero in Italia, nonché i risultati degli studi di caso, possiamo sostenere di trovarci di fronte ad una tendenza in corso da anni e a farci ipotizzare che quello standard stia diventando l’eccezione.
Inoltre, tali dati ci fanno dire, insieme ad alcuni commentatori, che nel nostro paese c’è una crisi delle relazioni industriali che si alimenta, in un circolo vizioso, della crisi dei soggetti delle relazioni stesse, intesi sia come sindacati dei lavoratori sia come associazioni delle parti datoriali.
Per corroborare questa tesi faremo riferimento allo studio di caso sull’edilizia. Infatti lì lo standard contrattuale sembra ancora coprire la maggioranza dei lavoratori. Anzi alcuni degli istituti sindacali enunciati in quella ricerca potrebbero diventare, con i necessari adeguamenti, rivendicazioni possibili per altri settori. Un esempio: gli indici di congruità. Forse anche nella ricettività e nella ristorazione, nonché in agricoltura, potrebbe essere utile un riferimento a quante ore/lavoratore sono del numero di ore di lavoro e/o di lavoratori necessari in un sito produttivo. Avendo così un mezzo di contrasto a situazioni come quella riportata sui lavoranti agricoli, quando per lo stesso lavoro contrattualizzato sono stati pagati a volte 350 euro, in altri casi 600, ed in un caso 1200. La spiegazione è che in ognuno di quei casi è diverso il numero di ore imputate dal datore di lavoro. Imputazione che, come è descritto efficacemente nella ricerca, è legalmente attribuita al datore. Per superare questa criticità negli studi sono contenute proposte a cui rimandiamo, ma che spesso chiamano in causa enti terzi, spesso istituzionali, a sostegno delle parti. Nel caso degli edili sembra funzionare ancora il rapporto diretto tra le parti stesse ed in particolare il ruolo degli enti bilaterali, con le casse edili. Si tratta di enti esistenti anche in altri contratti, ad esempio nella ristorazione e nella ricettività. Ma lo studio di caso su Matera ci avverte che, pur in presenza di un’occasione come quella di nomina a capitale europea della cultura, l’incremento occupazionale è stato prevalentemente precario ed il rispetto dei contratti scarso. Un’ipotesi è, per l’appunto, che questo possa dipendere dalla diversa rappresentatività delle parti: più univoca e forte nel caso edile rispetto a quella più frastagliata, dispersa e debole negli altri casi.
L’articolo di Salvo Leonardi citato suggerisce una delle possibili soluzioni/rivendicazioni: l’applicazione dell’art. 39 della Costituzione che porti ad identificare per legge il grado di rappresentanza dei lavoratori necessario alla stipula di un contratto di lavoro valido.
Ovviamente l’esempio tratto dallo studio di caso sull’edilizia è una conseguenza e non una causa della crisi delle relazioni industriali nel nostro paese, a sua volta legata alle scelte di politica economica ed industriale. Prima tra tutte quella, spesso menzionata nella ricerca, di una competizione economica basata principalmente sulla compressione dei costi del lavoro.
A questo punto torniamo al citato articolo di Lorenzo Coccoli. Le fasi dell’apparire e scomparire del lavoro povero sono sempre accompagnate e contrassegnate da scelte politiche delle istituzioni pubbliche. Si rifletta a tale proposito sul passaggio riportato di seguito tratto dallo studio di caso sull’agricoltura:
“Il mercato, con i suoi paradigmi connessi alla produttività e alla competizione, è considerato capace di governare in autonomia la società e le relazioni tra gli individui, allora anche nel caso della presenza di forme di sfruttamento e lavoro povero sarà esso stesso a regolare e determinare le traiettorie di questi segmenti. Le motivazioni della scarsa efficacia dell’azione istituzionale e in parte anche sindacale nella prevenzione, nel contrasto e nella repressione di questi fenomeni sono da rintracciare dunque all’interno di questo paradigma, in cui le istituzioni dello Stato non riconoscono la loro responsabilità nel regolare gli squilibri prodotti dallo stesso mercato nell’ambito di rapporti lavorativi sia regolari che informali”.
Quello che viene evidenziato è che siamo in presenza, da qualche tempo, di una ritirata dello Stato dal campo sociale. Ritirata accompagnata da continui interventi per rimuovere i cosiddetti «lacci e lacciuoli» che ha certamente acuito i problemi evidenziati dai nostri studi. Al contrario, in questa fase storica appare fondamentale ricostruire i pilastri che definiscono (in termini qualitativi) e «misurano» (in termini economici, di spazi e di tempi) le prestazioni lavorative individuali e le forme organizzative dei processi produttivi. Per fare questo è necessario definire degli standard fondamentali in termini di retribuzione oraria, di composizione del tempo di lavoro inteso sia nella fase produttiva sia in termini di altre attività che determinano lo spazio-tempo messo a valore per il lavoro (le pause, la formazione, la conciliazione, la strada per raggiungere i campi stagionali e il domicilio di chi ha bisogno di assistenza). Dunque, serve costruire dei meccanismi di relazioni industriali, concertazione e dialogo sociale in grado di definire una paga minima ma, anche, una paga giusta in relazione ai numerosi fattori che influiscono sul valore del lavoro. In questo processo, appare fondamentale il ruolo degli attori sociali (a partire dalle lavoratrici, lavoratori e loro rappresentanze) per descrivere i fattori che compongono questa relazione tra contenuto e modalità spazio-temporali del lavoro. Questa prospettiva di ricomposizione dei diritti fondamentali del lavoro e della rappresentanza è stata sviluppata anche nella proposta dello Statuto dei lavori della CGIL, nella necessità di rafforzare i diritti per tutte/i al di là delle forme e dei luoghi di lavoro, incluse le professioni autonome.
D’altra parte, gli studi rilevano come la garanzia di una retribuzione minima e giusta si debba accompagnare alla garanzia di avere comunque un reddito in assenza di lavoro, o quando il lavoro è scarso, per evitare ogni condizione di povertà.
Più in generale, questa ricerca mostra la rilevanza di politiche di sviluppo in grado di considerare le interconnessioni tra le dinamiche settoriali e aziendali proprie dei processi produttivi e quelle inerenti al progresso sociale (come le politiche abitative, dei trasporti, scolastiche, di integrazione, ecc.).
Nel chiudere questa sezione conclusiva, vorremmo porci al riparo da una possibile critica: l’aver chiamato in causa e correlato molti aspetti diversi della problematica del lavoro povero, l’aver postulato la necessità di molti interventi legati ad attori diversi, sia in capo alle parti sociali sia alle istituzioni, non significa aspettarci che siano affrontati su tutti i livelli e contemporaneamente. A nostro avviso, permette invece di ottenere i molti punti da cui sarebbe possibile iniziare a dipanare la matassa. Semmai, quello che è necessario è accompagnare l’azione con l’attento studio delle sue conseguenze, in modo tale da attuare tempestivamente i correttivi e le integrazioni via via utili.
Nota
1 Si veda il successivo riferimento allo studio di caso sull’agricoltura.