Interventi

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 

L’unico merito dell’iniziativa del ministro Franceschini per dar vita a una Netflix italiana della cultura è che ci costringe a parlare di un tema più importante dell’attenzione che gli viene dedicata da media e politica.

Al progetto così come è stato annunciato non crede nessuno. Non merita nessuna disanima ora, né, temo, dopo che ne saranno meglio chiari i contorni e gli obiettivi. Non merita neanche esagerati allarmi, spesso lanciati da chi teme lo spostamento dell’ennesimo piccolo spreco di denaro pubblico da una parte all’altra.

Ma il tema è serio ed è correlato con la nuova divisione mondiale del lavoro.

Il ruolo delle nazioni è determinato dalla forza della loro economia e del loro esercito – come sempre – ma in misura crescente anche dalla capacità produrre immaginario e di proporlo al resto del mondo. Questo soft power è fatto di diplomazia, ricerca scientifica e cultura e viaggia prevalentemente tramite prodotti audiovisivi.

Nell’ultimo mezzo secolo lo spazio dell’Italia in questo immaginario mondiale è dimezzato, comunque lo si misuri, in termini di brevetti, esportazioni o di tempo dedicato a opere italiane.

La scorciatoia con il riferimento a Netflix dimostra una scarsa comprensione dello scenario in cui ci si muove.

Una iniziativa pubblica con 10 milioni di investimento, in un paese che vale oggi l’1% dell’audience, il 2% del PIL, il 3% dell’export mondiale di prodotti audiovisivi e culturali, non ha alcuna possibilità di fare concorrenza alle grandi piattaforme di distribuzione.

Per entrare in questo mercato occorre investire 10 miliardi l’anno, per 10 anni. Questo è l’ordine di grandezza che hanno messo a disposizione imprese come Amazon, Disney, Google, Apple, le quali hanno deciso di non accettare il rischio di un monopolio Netflix nella distribuzione mondiale del prodotto audiovisivo. In quasi tutti gli altri grandi settori dell’economia digitale, la concorrenza dura poco e in breve il vincitore prende tutto, creando dei quasi monopoli mondiali, appena arginati dalla grande muraglia cinese. Così è per le ricerche online, per gli acquisti, per i social network.

Nessuno sa se, anche in questo caso, è appena iniziata una competizione breve e alla fine ne rimarrà uno, oppure se stavolta si creerà un oligopolio, ciò che sarebbe meno peggio.

Non c’è nessun paese e nessuna impresa europea che abbia le tasche e la credibilità di sedersi a questo tavolo.

Ormai neanche una nuova impresa europea, adeguatamente finanziata e supportata dai governi di Germania, Francia, Spagna, Italia e Scandinavia potrebbe competere sull’insieme di questo mercato; ma nell’ampio spazio a cavallo tra intrattenimento e cultura potrebbe ambire a essere, se non monopolista, leader mondiale.

I nuovi pubblici mondiali sui loro schermi distinguono sempre meno i prodotti francesi da quelli italiani e tedeschi, ma hanno ancora un immaginario segnato dal marchio europeo.

Marchio è la parola giusta, nel suo doppio significato di orrori coloniali e di certificato di garanzia di valori, stili di vita, cultura e civiltà.

Questo marchio che ci viene riconosciuto dal resto del mondo può essere trasformato in valore anche economico.

Non si tratta di partire solo da una piattaforma di distribuzione proprietaria, che pure è utile.

Ancor più importante è che questa nuova impresa europea voglia essere leader almeno nei sistemi di intelligenza artificiale che studiano la reazione dei grandi pubblici e dei micro-target alle varianti di regia, sceneggiatura, recitazione e raccomandano i prodotti audiovisivi.

Per inventarsi un suo spazio, questa impresa dovrebbe soprattutto proporre ai suoi fornitori un modello diverso da quello americano e cinese e persino da quello degli stessi servizi pubblici europei: un modello fatto di condivisione dei dati e di messa a disposizione di algoritmi e di potenza di calcolo, affinché i produttori, gli autori e le maestranze possano fare prodotti sempre migliori e ambire a una maggiore quota dei ricavi. Modello da estendere non solo ai produttori europei, ma anche a quelli degli altri paesi, soprattutto quelli emergenti, che vanno strappati al monopsonio americano, offrendo loro una più equa condivisione dei rischi, dei ricavi e dei dati. Se il provincialismo del made in Italy è ridicolo, anche quello del made in Europe è perdente. Il marchio Europa si afferma solo se stavolta diventa sinonimo di un modello attrattivo e sostenibile anche per i non europei.

È lecito essere dubbiosi che questa impresa europea nasca in tempi utili. Talvolta l’Europa c’è riuscita, ad esempio nella ricerca fisica e chimica di base. Altre volte è arrivata tardi, come nell’industria aerospaziale, aumentando i costi e riducendo la quota di mercato aggredibile.

In questo caso purtroppo il ritardo è inevitabile, se non altro perché questa impresa dovrebbe assorbire anche i finanziamenti ministeriali al cinema e i servizi pubblici televisivi europei, ciò che nessuno ha finora mai proposto. Eppure è l’unica cosa sensata da fare e non solo per evidenti economie di scala e di scopo.

Anche il termine piattaforma è solo un buzz-word, una parola vuota di moda. La distinzione tra distribuzione lineare via etere e quella online è destinata a sfumare, come sa Disney che sta ottimizzando il suo archivio, i suoi studios, la sua tv e la sua distribuzione online e come sa, nel suo piccolo, la BBC con qualche speranza di successo nei documentari.

Ecco, se il governo italiano stesse pensando con questa ambizione, varrebbe la pena di parlarne e mobilitarsi per sconfiggere gli speculatori e i conservatori. Quando sarà, anche se sarà troppo tardi, saremo i primi a batterci per un progetto con ambizione adeguata e una probabilità di successo.

Nel frattempo il fronte di lotta è un altro. Nel periodo, più o meno breve, in cui si svolge la competizione che poi finirà in un monopolio o in un oligopolio collusivo, cambiano i rapporti nella filiera, ciò che provoca conflitti e negoziati tra piattaforme, produttori, autori. In questo momento decisivo l’imprenditoria, il lavoro creativo e quello tecnico italiani, non hanno nessun aiuto dal governo e dalle imprese pubbliche. Sono soli di fronte a imprese con cui nei cui confronti non possono negoziare e non possono scioperare.

Persino la Rai, il cui bilancio è coperto per tre quarti da risorse fiscali, quando co-produce con Netflix o con HBO, dimentica di negoziare con loro l’accesso ai dati, che consentirebbe poi di restituirlo ai produttori per realizzare opere migliori e più attraenti per il mondo; questo know-how resta tutto nelle mani di poche multinazionali, che lo usano per distribuire il lavoro sulla base del rapporto tra costo di produzione locale e tempo di visione su migliaia di target globali.

Detta così sembra un romanzo distopico novecentesco, più Huxley che Orwell, profezie che non si avverate del tutto grazie all’organizzazione di forze sociali che si sono inserite nelle linee di frattura.

Coordinando il lavoro italiano (o, ancor meglio, quello europeo) è possibile negoziare le regole imposte dalle piattaforme, sia quelle economiche, sia l’accesso ai dati. Non si tratta oggi di competere, ma sfruttare la competizione tra di loro, con una massa critica sufficiente per dire: se non accetti di contrattare le condizioni, io posso lavorare per il tuo concorrente.

Poi ogni negoziato è basato su un conflitto e ogni conflitto ha dei costi. Ma solo nel conflitto/negoziato si chiariscono gli obiettivi.

Ad esempio: abbiamo prima usato il termine: lavoro italiano, assai generico. Sapete oggi come il ministero calcola se un’opera è italiana? Vi risparmio la citazione di una dozzina di leggi contraddittorie che rimandano a altre leggi e regolamenti attuativi, metà dei quali mai emanati.

Sapete come si calcola la diversità culturale e il pluralismo? Obiettivi difficili da trattare con algoritmi, non impossibili. Lo studio più avanzato è sull’effetto delle opere audiovisive sulla coesione sociale ed è interessante, perché divergente dal microtargeting utilizzato dalle piattaforme.

Produttori, autori e lavoratori italiani dovranno dotarsi di modelli di misurazione e calcolo dei loro interessi, da confrontare con gli algoritmi disegnati per gli obiettivi delle piattaforme. Avranno così fatto un primo passo nel mondo della cosiddetta intelligenza artificiale (altra parola vuota alla moda) per scoprire che esistono diverse soluzioni ottimali per diverse funzioni obiettivo e che per mediarle non può esistere un algoritmo, ma solo un negoziato tra diversi punti di vista.

Alla fine di questo percorso (che è più veloce di quanto possiamo immaginare) ci ritroveremo con tante sconfitte e qualche vittoria, ma soprattutto avremo qualche idea in più su cosa intendiamo per un modello equo e sostenibile per la produzione e distribuzione di prodotti audiovisivi.

I giuristi la chiamano regulation by litigation, riferendosi solo al rapporto tra imprese, tribunali e successivo intervento del legislatore. Ma il soluzionismo legislativo è illusorio quanto quello tecnologico. Solo un processo di apprendimento innestato nelle dinamiche sociali consente di capire come fare l’unica politica industriale possibile, con il marchio Europa, garanzia di creatività.

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