La fine del vecchio ordine
Oggi si trovano quasi tutti d’accordo sull’idea che il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale sta ora progressivamente svanendo, come intitolava, ad esempio, un recente articolo di “Le Monde” (Frachon, 2023) e come veniva anche ribadito, sempre recentemente, dal Segretario generale della Nazioni Unite, Antonio Guterres (“le strutture attuali di governance mondiale riflettono il mondo di ieri”); ma ci sono idee piuttosto confuse, almeno in parte, su come esso si stia veramente trasformando e in che direzione si stia realmente andando. Peraltro non manca chi cerca di frenare il movimento.
Certo, non siamo nella situazione in cui si è trovato a suo tempo Claudio Rutilio Namaziano, che, partito un giorno in nave da Roma per ritornare alla natia Gallia dopo un soggiorno nella capitale dell’Impero, e facendo sosta ogni sera lungo il percorso in un porto diverso, assistette in tempo reale al crollo in pochi giorni del sistema imperiale, città per città, sotto in particolare la spinta dei Vandali da una parte, dei Goti dall’altra, come riferisce nella sua opera De reditu suo. Nel nostro caso il percorso appare invece lungo e tortuoso.
Un’altra cosa che trova quasi tutti d’accordo, collegata alla precedente, è il fatto che la potenza economica, finanziaria, tecnologica, militare degli Stati Uniti, sino a ieri paese di gran lunga dominante, si stia progressivamente riducendo almeno in maniera relativa rispetto al resto del mondo, anche se il dibattito è aperto su quanto forte sia tale riduzione e come si collochi oggi invece in termini di peso effettivo la potenza in ascesa, la Cina, rispetto a quello degli Stati Uniti.
Certo, per quanto riguarda le trasformazioni in atto alcuni dati appaiono impressionanti. Secondo i calcoli di IMF e Banca Mondiale, nel 2022 il pil cinese, calcolato con il criterio della parità dei poteri di acquisto, risultava ormai grosso modo pari al 19% di quello mondiale e quello degli Stati Uniti “solo” al 15%.
Anche in campo tecnologico studi recenti nostrano come la Cina tende a diventare più importante degli Stati Uniti, anche se essa presenta ancora qualche debolezza su alcuni settori. Una ricerca australiana (Hurst, 2023), sponsorizzata anche dal Dipartimento di Stato statunitense, indica in effetti che su 44 settori tecnologici esaminati nello studio la Cina ha oggi il primato su tutti gli altri paesi, compresi gli Stati Uniti, in ben 37 di essi, mentre questi ultimi continuano a guidare il resto del mondo soltanto nelle restanti 7 tecnologie. Nessuno degli altri paesi ha quindi il primo posto in qualche settore. Si può certo esprimere qualche dubbio sull’esattezza delle stime, forse volutamente esagerate per ragioni di strategia politica sulla forza della Cina (lo studio, essendo sponsorizzato dal Dipartimento della Difesa USA, potrebbe essere finalizzato a ottenere più fondi dal Congresso), ma non si può dubitare che comunque il paese asiatico stia facendo passi in avanti prodigiosi nel settore delle nuove tecnologie.
In particolare gli sviluppi in atto nel campo di quelle relative alle energie rinnovabili, settore nel quale il dominio della Cina appare quasi incolmabile, mostrano la forza di tale trasformazione in atto. Ricordiamo, ad esempio, che oggi il paese asiatico produce almeno l’80% dei pannelli solari di tutto il mondo e che il costo delle sue turbine eoliche è pari soltanto alla metà di quelle prodotte in Occidente.
Più in generale, il mondo occidentale non appare più egemonico ed esso ha perduto e sta perdendo un numero crescente dei suoi monopoli. Ricordiamo ancora, a questo proposito, che ormai i paesi in via di sviluppo controllano circa il 60% del pil mondiale e che nel 2030 i due terzi delle classi medie saranno in Asia. La partita, per molti versi, sembra ormai decisa.
Gli Stati Uniti cercano di resistere
Ma gli Stati Uniti non vogliono riconoscere le nuove realtà in atto. Graham Allison, professore ad Harvard, riassume perfettamente la situazione: “Gli americani sono scioccati dall’idea che la Cina non resti al posto che gli era stato a suo tempo assegnato in un ordine internazionale diretto dagli Stati Uniti” (Bulard, 2023).
Così, dopo le misure varate da Trump contro le merci asiatiche, con Biden l’ostilità è fortemente aumentata. Si è sviluppata un’offensiva economica, tecnologica, finanziaria, militare, politica, tout azimut, rivolta contro tutte le iniziative e le mosse di Pechino, cercando di coinvolgere nella stessa quanto più paesi possibile in tutti i continenti e su tutte le questioni.
Una nuova isteria maccartista ha conquistato tutti gli strati della società e della politica USA, se escludiamo alcune parti del sistema economico che hanno invece interesse a sviluppare i rapporti con il paese asiatico.
L’offensiva di Washington presumibilmente fallirà, almeno in gran parte, ma essa rischia di danneggiare intanto gravemente quel che resta della pace nel mondo e lo sviluppo dei rapporti economici tra i vari paesi.
Verso un nuovo ordine multipolare?
Certamente Cina e Stati Uniti saranno i due massimi protagonisti della scena mondiale ancora almeno per un lungo periodo, con la stessa Cina che dovrebbe accrescere ancora il suo peso rispetto al rivale. Essi continueranno comunque insieme a condizionare gli sviluppi del mondo in maniera molto rilevante. Ma la rivalità tra i due paesi non sembra poter esaurire il quadro del nuovo ordine in via di formazione. Può darsi che si stia configurando un secolo cinese, come pensano alcuni, ma molti altri prevedono invece l’affermazione di un mondo pluralista, in cui, accanto ai due giganti economici, si affermino una serie di potenze intermedie che, cercando di tenere buoni rapporti con i due (ciascuna mostrandosi certo più vicina all’uno o all’altro contendente), tendano ad affermare la propria autonomia e a pesare in maniera consistente sui destini del mondo.
Bisogna considerare che gli stessi cinesi non sembrano mirare, come invece suggeriscono una miriade di testi occidentali, all’egemonia mondiale, ma sembrano auspicare la costruzione di un mondo multipolare.
Qualcuno ha parlato, a proposito di questi nuovi sviluppi, di “età delle potenze intermedie”, sia nel senso di un loro peso economico e politico piuttosto consistente, che in quello di una posizione di mezzo tra le due grandi potenze. Invece di un menù di alleanze a prezzo fisso, in cui bisognava scegliere uno dei due campi, si potrebbe affermare un mondo con scelte à la carte (Russell, 2023), in cui magari i vari paesi tendano anche a giocare le due grandi potenze una contro l’altra, per ottenere il massimo dei vantaggi possibili. C’è chi, ad esempio lo storico Franco Cardini (Cardini, 2023), vede peraltro delinearsi, correttamente secondo noi, un “multipolarismo imperfetto”, “confuso, slabbrato, pieno di labilità e di incognite”.
I rapporti Cina-USA e la globalizzazione
Bisogna comunque a questo punto fare una digressione. Da anni ormai, come abbiamo già accennato, gli Stati Uniti perseguono in ogni modo il tentativo di ridurre al minimo i rapporti economici con la Cina, cercando inoltre di spingere i fedeli e mediocri esecutori che guidano Bruxelles a fare altrettanto. Qualche risultato è stato in questo senso già raggiunto e qualcun altro potrebbe seguire. Ma bisogna d’altro canto considerare che tale politica di riconfigurazione delle catene di approvvigionamento è alla fine, almeno in parte, evitata dalla Cina attraverso una triangolazione di produzioni. Le imprese del paese asiatico, invece di esportare le loro merci direttamente negli USA, lo fanno attraverso paesi terzi; la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina rimane così intatta (The Economist, 2023) ed anzi le mosse di Biden spingono a più stretti legami tra il paese asiatico e gli altri paesi esportatori, ottenendo così l’effetto opposto a quello desiderato. In realtà, gli Stati Uniti non possono fare a meno di alcuni tipi di prodotti cinesi, dato che ad oggi la lotta al cambiamento climatico ha bisogno del sostegno delle tecnologie e delle produzioni del paese asiatico.
Tutta la manovra di Biden produce altresì dei costi più elevati per le imprese e per i consumatori, mentre l’industria cinese rappresenta oggi intorno al 30% di quella mondiale, qualcosa in più della situazione presente al momento in cui Trump ha lanciato la campagna anticinese, mentre, più in generale, l’industria mondiale si concentra sempre più nell’Asia del Sud-Est (Bezat, 2023).
Appare tuttavia abbastanza chiaro che la stessa Cina, viste anche le difficoltà con l’Occidente, tende a rafforzare fortemente i suoi rapporti economici con i paesi del Sud del mondo. Così, ad esempio, il commercio estero del paese presenta una forte spinta in direzione in particolare dei paesi asiatici. Intanto il Fondo Monetario Internazionale mette in guardia contro una frammentazione geo-economica, una nuova spinta protezionista che potrebbe frenare lo sviluppo dell’economia mondiale (Bezat, 2023).
Si parla da diversi anni ormai di fine della globalizzazione, di friendshoring, di nearshoring, di decoupling, di derisking e così via. Certamente peraltro i risultati ad oggi ottenuti non sono certo pari agli sforzi impiegati.
A ogni modi, la politica di Biden qualche risultato lo ha ottenuto sul fronte della deglobalizzazione. Si pensi soltanto al settore dei chip, nel quale le esportazioni di prodotti e servizi avanzati da parte dei paesi occidentali verso la Cina stanno crollando.
Ma i legami economici tra gli stessi paesi occidentali e la Cina sono ormai così forti e le catene del valore sono così interlacciate che una sostanziale caduta dei rapporti appare molto difficile. Il mondo degli affari occidentale è poi per la gran parte ostile ai tentativi di allentamento delle relazioni economiche.
L’Organizzazione Mondiale per il Commercio ha messo in evidenza anche recentemente come, ad esempio, il commercio internazionale continua sostanzialmente a crescere, sia pure magari a ritmi inferiori a quelli del passato. Una certa flessione che si manifesta qua e là degli scambi in dollari riflette peraltro il fatto che è il costo delle merci scambiate ad essere diminuito, mentre le quantità sono aumentate. Quello che si è ridotto è il costo medio delle merci scambiate o perché è sceso il prezzo dei beni o perché sono diminuiti i costi di trasporto e altri costi accessori o, ancora, perché è mutato il tipo delle merci scambiate.
I paesi Arabi
Uno degli esempi possibili di come si possa configurare il nuovo ordine mondiale è rappresentato dagli sviluppi in atto nei paesi del Golfo (England, 2023).
In tale area ci sono due potenze principali, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, la prima il più importante esportatore di petrolio del mondo, la seconda il centro commerciale dominante. Si tratta poi di paesi con larghissime disponibilità finanziarie. Per diversi decenni tale area si è collocata fortemente nell’orbita statunitense; gli USA erano il garante della loro sicurezza, mentre i paesi arabi assicuravano a essi delle forniture stabili e sicure di energia.
Ma oggi l’area rifiuta di accettare la domanda degli Stati Uniti di essere con loro o contro di loro (England, 2023). La Cina è oggi in effetti il principale cliente del petrolio del Golfo e altri importanti partner sono l’India e la Turchia. Il commercio dell’Arabia Saudita con la Cina è altrettanto grande in valore quanto quello con gli USA, la Gran Bretagna e l’UE messi insieme. Al di là del solo commercio, i paesi del Golfo, assetati di tecnologie, portano avanti con la Cina importanti progetti nel campo della stessa energia, dell’IA, delle telecomunicazioni, dei supercomputer, dei microchip, del solare, dell’eolico, dell’auto, della finanza, delle infrastrutture, ecc., mentre vengono avanti importanti investimenti diretti reciproci (Lamperti, 2023). Con la Cina i paesi del Golfo hanno firmato un accordo di partnership strategica. Essi si sono poi ben guardati di condannare la Russia per la questione ucraina, paese con cui cooperano attraverso l’Opec+.
Non che i rapporti con gli Stati Uniti siano diventati ostili. Il paese continua a essere il principale fornitore di armi e l’alleanza militare è mantenuta, mentre continuano ad essere molto rilevanti gli investimenti dei paesi del Golfo in USA. Si potrebbe dire che la loro sicurezza riposa oggi con gli Stati Uniti, la politica energetica si fa con la Russia, mentre la prosperità economica e lo sviluppo tecnologico sono sempre più legati alla Cina e agli altri paesi asiatici (England, 2023). Essi alla fine sono per un mutamento nell’ordine mondiale e pensano che saranno uno dei poli principali del mondo multipolare emergente.
Gli altri paesi del Sud
Il caso dei paesi del Golfo può essere considerato per molti versi come abbastanza rappresentativo della posizione della gran parte degli altri paesi intermedi, dall’India, al blocco dei paesi dell’Asean, passando per il Brasile, il Sud-Africa, l’Algeria, l’Argentina, la Turchia – giusto per citarne molti tra i principali – e per molti versi la stessa Germania, anche se quest’ultima rimane un caso particolare. Certo, diversi tra questi paesi hanno più simpatie verso uno dei due raggruppamenti, chi verso la Cina/Russia, chi verso gli Stati Uniti, ma comunque essi si sforzano di tenere rapporti amichevoli con ambedue i fronti.
Un caso particolare è quello dell’India, piuttosto ostile alla Cina, ma amica contemporaneamente di Russia e Stati Uniti, comunque nello stesso tempo partecipe dei raggruppamenti dei Brics, a sostanziale guida cinese, e alla Sco (Shangai Cooperation Organization, a guida cinese e russa. Un altro caso ancora più particolare è quello della Germania, che, pur inserita nell’area atlantica, vede al suo interno manifestarsi una lotta tra quelli che vogliono mantenere stretti contatti economici con la Cina e gli atlantisti.
Da segnalare infine come la Russia, in relazione agli avvenimenti in Ucraina, stia velocemente spostando la sua collocazione economica dalla Europa all’Asia.
I Brics
Quella dei Brics appare la principale alleanza in atto dei paesi emergenti, anche se da una parte si tratta di un’alleanza in gran parte informale, mentre dall’altra l’opinione sulle varie questioni non è sempre unanime tra tutti i paesi del raggruppamento; si pensi in particolare alle già citate divergenze in atto tra la Cina e l’India.
Il pil dei cinque paesi, espresso in parità dei poteri di acquisto, si colloca oggi intorno ai 40.000 miliardi di dollari, contro i 30.000 dei paesi facenti parte del G7. Tali cifre relative ai Brics sono destinate ora a crescere con l’arrivo di nuovi paesi membri. I Brics mirano apparentemente alla messa in opera di un nuovo ordine economico internazionale nel quale il ruolo dei paesi emergenti diventi molto più importante, riducendo l’egemonia di quelli occidentali. In ogni caso l’alleanza tende a rinforzarsi sia con l’arrivo di sei nuovi membri che si aggiungeranno ai cinque esistenti (e mentre molti altri paesi chiedono di entrare), sia con l’estensione delle sue attività in campo finanziario. Così, da una parte, si sta cercando di rinforzare la banca di sviluppo del gruppo creata nel 2014 (è stata tra l’altro nominata da poco alla sua presidenza Dilma Roussel, già Presidente del Brasile), dall’altra di mettere a punto dei meccanismi di sganciamento dall’utilizzo del dollaro nelle loro transazioni commerciali e finanziarie.
Ricordiamo incidentalmente l’esistenza anche di un altro raggruppamento a guida cinese e russa, la già citata Sco, che comprende al suo interno alcuni dei paesi del Brics ma anche degli altri protagonisti.
I paesi dell’Unione Europea
Nel 2008 le economie di Stati Uniti e Unione Europea erano grosso modo della stessa dimensione, anzi quella della Ue presentava un livello del pil un poco superiore. Ma dopo di allora l’andamento dei due blocchi è stato sempre più divergente. Oggi il pil statunitense è all’incirca più grande di un terzo rispetto a quello europeo e senza la Gran Bretagna di circa il 50%. E comunque l’Europa dipende dagli Stati Uniti per le tecnologie, l’energia, il capitale e la protezione militare (Rachman, 2023).
Ma da cosa dipende tale egemonia recente degli Stati Uniti? Le ragioni sono molte, dal più forte stimolo pandemico, alle ripercussioni dell’invasione russa dell’Ucraina, al boom del settore tecnologico USA, alla più larga disponibilità di capitali. Anche gli investimenti e la produttività crescono di più negli USA, mentre quella europea appare come una società che invecchia (Romei, Smith, 2023).
Il quadro generale che esce fuori dalla collocazione dei paesi dell’UE nell’ambito dell’economia mondiale attualmente e all’orizzonte 2030 non appare certo roseo e non si vede come la situazione possa migliorare in concreto nei prossimi anni. Gruppi dirigenti imbelli a Bruxelles e altrove, la forte spinta economica e tecnologica dei due grandi blocchi “rivali” e anche di una serie di paesi minori, le rilevanti divisioni politiche presenti tra le singole entità facenti parte dell’Unione, la carenza di capitali effettivamente mobilitabili e di investimenti, l’elevato tasso del debito pubblico (soprattutto in alcuni paesi), l’alto livello di inflazione, le pressioni politiche statunitensi (che sono in grado di indirizzare le scelte dell’Unione nella direzione dei loro interessi esclusivi) sono tutti fattori che sembrerebbero contribuire a ostacolare dei possibili sviluppi positivi. L’Unione avrebbe, tra l’altro, bisogno per progredire di aprirsi sempre più in e tutte le direzioni geografiche, mentre la tendenza, imposta dagli USA, appare quella di rinchiudersi quanto più possibile nel più ristretto campo atlantico e questo, incidentalmente, anche in quello politico, come indicano le recenti vicende dell’Ucraina e di Israele, usate tra l’altro strumentalmente per far prosperare l’industria delle armi, anche in questo caso soprattutto di quella statunitense. I risultati non saranno presumibilmente alla fine molto brillanti.
Il caso degli enti internazionali
Esaminiamo a questo punto la situazione e le prospettive di alcune strutture, pilastri della dominazione statunitense sul mondo: le istituzioni finanziarie e commerciali e il dollaro.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale fu creata una serie di istituzioni che avrebbero dovuto contribuire a stabilizzare il nuovo ordine mondiale uscito dalla guerra. Furono così creati il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione per il Commercio Mondiale. Tali organismi risultarono presto essere governati in via quasi esclusiva dagli Stati Uniti, anche se l’Europa avrebbe avuto diritto, per graziosa concessione statunitense, alla direzione del Fondo.
Tali organismi si trovano oggi in grande difficoltà e per diverse ragioni. Prendiamo in particolare il caso del Fondo Monetario Internazionale. Molti paesi in via di sviluppo, dal Brasile alla Cina, contestano le sue operazioni, indicando che tale organismo è operante ed è organizzato per favorire l’Occidente, e anche al recente vertice dei Brics è stata chiesta una maggiore rappresentanza nell’organismo per i paesi in via di sviluppo. Lo stesso Segretario generale dell’ONU ha chiesto che sia dato maggior peso ai paesi in via di sviluppo nelle organizzazioni internazionali. Lula ha poi espresso preoccupazione perché a suo dire il Fondo asfissia le economie in difficoltà ponendo condizioni molto dure al loro salvataggio (Beattie, 2023).
In teoria è allo studio una revisione delle quote dei vari paesi. Considerando il suo peso economico, la Cina dovrebbe passare dall’attuale 6,4% di quote al 14,1%, mentre gli Stati Uniti dovrebbero scendere dal 17,4% al 14,8% (Beattie, 2023), perdendo anche il diritto di veto sulle decisioni dell’organismo. Ma questi ultimi sono ovviamente contrari a questo mutamento e la situazione appare bloccata. Intanto il Fondo, come la Banca Mondiale, avrebbero bisogno di molti più fondi per operare (la cooperazione dei paesi ricchi diminuisce mentre le necessità dei paesi del Sud aumentano; è stato così calcolato che la Banca Mondiale ha oggi una capacità di finanziamento cinque volte minore che negli anni ‘60 del Novecento (Bouissou, 2023)), all’aumento dei quali la Cina potrebbe collaborare in maniera sostanziale.
Con il blocco, i tre organismi stanno sempre più perdendo di rilevanza, mentre la Cina, in parte con altri paesi, sta potenziando dei meccanismi alternativi, che tendono a diventare più importanti di quelli citati. Ricordiamo che sono in piedi ormai da dieci anni i meccanismi della Belt and Road Initiative, che in tale periodo ha messo in opera investimenti per mille miliardi di dollari rivolti a 150 paesi. Ci sono poi gli organismi di finanziamento del commercio estero del paese asiatico, mentre funziona ormai quasi a pieno regime l’AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), rivolta all’Asia e si stanno potenziando le istituzioni bancarie dei Brics e dello Sco.
La dedollarizzazione
L’egemonia degli Stati Uniti sul resto del mondo riposa per una parte molto consistente sul controllo della moneta internazionale, il dollaro. La moneta USA è di gran lunga la più usata per gli scambi commerciali, per le operazioni finanziari sui mercati e come moneta di riserva, garantendo un “esorbitante privilegio” per il paese. In tale situazione, da una parte gli USA possono permettersi una politica di bilancio molto libera, dall’altra possono condizionare e ricattare gli altri paesi del mondo (“la nostra moneta, il vostro problema”, come dichiarò John Connally, Segretario del Tesoro del governo Nixon, a un G10 nel 1971).
Come è noto, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina gli Stati Uniti hanno reagito tra l’altro con il sequestro delle riserve in dollari della Russia; ma è anche noto che tale misura ha scosso in profondità i governi della gran parte dei paesi del Sud, che hanno cominciato a pensare che la stessa cosa avrebbe potuto succedere anche a loro in futuro.
Così negli scorsi mesi abbiamo assistito a una serie di iniziative anche disordinate volte a ridurre il peso del dollaro nel regolamento delle transazioni commerciali tra i vari paesi. Il fenomeno più vistoso manifestatosi sinora è indubbiamente il passaggio dal regolamento della maggior parte delle transazioni della Russia dal dollaro allo yuan. C’è da dire che in generale l’ipotesi della sostituzione piena del dollaro con lo yuan non sembra completamente fattibile, vista anche l’ostilità da parte di alcuni paesi e diversi problemi tecnici; a ogni modo, il ruolo della moneta cinese è destinato aumentare fortemente. Intanto. va avanti il progetto dello yuan elettronico. I Brics, come abbiamo già accennato, stanno ora discutendo su quale meccanismo valutario utilizzare per ancorarvi i loro scambi. Tuttavia l’abbandono del dollaro da parte dei paesi del Sud – che a chi scrive sembra ormai inevitabile – si potrà svolgere apparentemente solo lentamente e con fatica, visto il radicamento profondo dell’attuale sistema e la resistenza occidentale a ogni cambiamento. Il dollaro conserverà peraltro ancora a lungo un ruolo importante. Non sono in ogni caso note le conseguenze del processo di dedollarizzazione, in particolare in quale misura ne sarà colpita l’economia e la finanza americana; il colpo, comunque, potrebbe essere duro.
Certo la soluzione migliore sarebbe quella di riformare il sistema monetario internazionale sulla base del meccanismo dei diritti speciali di prelievo, soluzione anch’essa et pour cause osteggiata dagli Stati Uniti.
Conclusioni
Nel testo abbiamo cercato comunque di cogliere i movimenti essenziali delle trasformazioni in atto nell’assetto dell’ordine mondiale.
Tale trasformazione procede lentamente, almeno su alcuni fronti, ma apparentemente in maniera inesorabile. Forse non si tratta tanto di un passaggio di testimone dagli Stati Uniti alla Cina, come si era magari portati a pensare qualche tempo fa. Tale ipotesi – che comunque non può essere del tutto esclusa – si scontrerebbe, da una parte, con le evidenti riserve di una parte almeno dei paesi del Sud, ma anche, dall’altra, con l’apparente scarso interesse della stessa Cina a occupare tale ruolo. Questo non toglie che la Cina si avvii probabilmente a essere la potenza più rilevante a livello economico e tecnologico del mondo, non impedendo con questo che gli USA conservino comunque una forza considerevole in diversi campi.
Naturalmente la storia ci ha abituato a sconvolgimenti anche repentini della situazione e le previsioni che possiamo fare sono soggette a molta cautela.
Ci troviamo oggi comunque in una situazione nella quale, per riprendere un’idea di Gramsci, il vecchio ordine non ce la fa più e il nuovo stenta ancora ad emergere. Si può ricordare a questo proposito come la crisi del ‘29 sia stata anche provocata dal fatto che la Gran Bretagna non aveva più la forza per governare il mondo e gli Stati Uniti non erano ancora pienamente in grado di sostituirla. Viviamo degli anni di rilevanti disordini che potrebbero appunto essere originati dalla mancanza di un nuovo e chiaro ordine delle cose (Leonhardt, 2023).
In ogni caso, se andiamo verso un mondo pluralista, come sembra di poter intravedere, bisogna cercare di creare al più presto delle istituzioni adeguate per il suo governo. Tra l’altro, sarebbe necessario varare un nuovo sistema monetario inclusivo e mettersi d’accordo sul rinnovamento di Banca Mondiale, Fondo Monetario, Organizzazione per il Commercio. La maggiore difficoltà alla costruzione di tale sistema rimane l’opposizione degli Stati Unti, sostenuti come al solito dai vassalli europei.
Testi citati nell’articolo
– eattie A., Why the «Global South» isn’t running the IMF, Financial Times, 5 ottobre 2023.
-Bezat J-M., Chine-Etats-Unis, l’impossible divorce, Le Monde, 29 agosto 2023.
-Bouissou J., FMI et Banque mondiale: le Sud veut peser, Le Monde, 11 ottobre 2023.
-Bulard M., Quand le Sud s’affirme, Le Monde diplomatique, ottobre 2023.
-Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza, Bari-Roma, 2023.
-England A., «Bridges with everyone»: how Saudi Arabia and UAE are positioning themselves for power, Financial Times, 23 agosto 2023.
-Frachon A., Le monde post-1945 s’efface, Le Monde, 6 ottobre 2023.
-Hurst D., China leading US in technology race in all but a few fields, thinktank finds, The Guardian, 2 marzo 2023.
-Lamperti L., Cina ed Arabia Saudita, il nuovo asse sull’intelligenza artificiale, Wired, 15 novembre 2023.
-Leonhardt D., The global context of Hamas-Israel war, New York Times, 9 ottobre 2023.
-Rachman G., Europe is falling behind America and the gap is growing, Financial Times, 19 giugno 2023.
-Romei V., Smith C., How is the Us economy managing to power ahead of Europe?, Financial Times , 19 ottobre 2023.
-Russell A., The à la carte world: our new geopolitical order, Financial Times, 21 agosto 2023.
–The Economist, Costly and dangerous, 12 agosto 2023.
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