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Articolo pubblicato su “fuoricollana”: https://fuoricollana.it/il-nemico-americano-le-tragedie-in-ucraina-e-palestina/

Quando si riflette sui dolori e le ingiustizie del nostro tempo è pratica diffusa occultare il nome di chi le ha causate, un occultamento che non è dovuto a disattenzione o scarsa memoria, ma a corruzione morale e/o materiale.

Il nemico principale

Rischiando di risultare apodittici, si proverà quindi a riflettere su tale aspetto, tentando di identificare il nemico principale, quale impresa preliminare a qualsiasi percorso verso un mondo migliore, tenendo a mente che tale incarnazione di forze ostili assume caratteristiche diverse a seconda dei contesti nei quali opera, pur facendo capo a una medesima aggregazione di poteri e interessi. Vediamo: sul piano economico il nemico da battere è il neoliberismo globalista-bellicista, su quello dei valori la mercificazione della società, sul piano politico una democrazia non-democratica, su quello filosofico il nichilismo narcisista e nei rapporti tra classi sociali una plutocrazia spietata e senza freni. Il punto di vista di chi scrive è che il motore di questo cumulo di tragedie, catalizzatore di ultima istanza di tale nefasta policromia, si colloca nell’oligarchia malata degli Stati Uniti d’America (in verità, nel suo nucleo occulto, lo stato permanente e quello profondo, che sopravvivono al cambiare dell’inquilino della Casa Bianca e non rispondono ad alcuna istanza democratica), uno degli imperi più funesti che la storia recente abbia registrato, una nazione che violenta il diritto e l’etica umana per estrarre risorse e ricchezze altrui attraverso minacce e ricatti, facendo ricorso alla violenza contro chiunque opponga resistenza, incurante dei valori di pace ed eguaglianza, mettendo a rischio persino la sopravvivenza del genere umano.

Deve rilevarsi che con Stati Uniti non s’intende qui il popolo americano, quei 335 milioni di abitanti anch’essi in larga parte sfruttati e sottomessi, ma solo una ristretta cerchia di superricchi e potenti individui che, come una piovra, proietta ovunque la sua ombra vorace. Del resto, le 800 basi militari in 145 paesi al mondo non hanno certo il compito di aiutare anziane signore ad attraversare la strada e nemmeno quello di proteggere la sicurezza americana a 10 mila chilometri di distanza, secondo un paradigma mistificatorio che la metà basta a ubriacare la mente. Quanto a noi, solo l’umiliante cecità delle classi una volta dirigenti d’Europa (quella italiana in prima fila) impedisce di prendere atto di tale metastasi. Le masse restano a loro volta passive, intossicate da TV e dipendenza smartfonica, mentre i pochi che si battono contro tali patologie sono divisi, schiavi di impulsi solipsistici o di insensate dissociazioni.

Ucraina: tre conflitti aperti e uno in ombra

Veniamo ora ai disastri: l’Ucraina. Quel conflitto, frutto di una strategia messa a punto decenni orsono dall’impero in questione: le evidenze agli occhi degli individui intellettualmente onesti sono di pubblico dominio e prendiamo dunque la libertà di non riproporle. In Ucraina hanno corso tre conflitti aperti e un quarto in ombra, ma cruciale: il primo beninteso tra Russia e Ucraina; il secondo, il principale, con cui Stati Uniti-NATO hanno puntato a destrutturare e frammentare la Russia, per estrarne le sue immense risorse; il terzo, quello degli Stati Uniti contro Europa, che vede svanire l’energia a basso costo, motore della sua economia, a favore degli avvoltoi americani, e infine l’ultimo, quello ombrato, con cui l’impero puntava a indebolire la Cina, sua principale avversaria, sconfiggendone il suo principale alleato, la Russia appunto.

La NATO, sorta sul teatro Atlantico e con intenti sulla carta difensivi (in verità, la sua genesi ha altre radici, ma non v’è spazio qui per elaborare), è oggi un dispositivo bellicista planetario per conto dell’impero. È sufficiente gettare uno sguardo sui comunicati dei suoi vertici annuali che qualificano nemici Corea del Nord, Cina, Iran, Venezuela e altri paesi, lontanissimi dal teatro euroatlantico[i], senza che popoli o parlamenti dei paesi membri ne sappiano qualcosa, ma solo perché così ha decretato il dominus americano.

Se nel 1991 la NATO fosse dileguata insieme al Patto di Varsavia, si sarebbe aperta una prospettiva di pace e stabilità sull’intero territorio euroasiatico, in un orizzonte distensivo, non alternativo e complementare rispetto all’euro-atlantismo. L’Impero del Bene, tuttavia, non l’ha consentito. Secondo l’antropologo francese Emmanuel Todd, un intellettuale di raro spessore che chiama le cose col loro nome, la NATO è un meccanismo militare-ideologico, istituito non per proteggere l’Europa, ma per controllarla nello stile mafioso: creare problemi e in parallelo offrire la soluzione in cambio di sottomissione e laute ricompense.

La nuova guerra fredda contro la Cina

Una dialettica geopolitica effervescente, la nuova guerra fredda contro la Cina dichiarata da D. Trump già nel 2017, poi confermata da J. Biden e ora riattivata da D. Trump 2.0, le ricorrenti provocazioni su Taiwan e la crisi ucraina hanno determinato un plateale rovesciamento della dottrina Nixon-Kissinger, che negli anni ’70 aveva puntato su Pechino contro Mosca. Dopo una lunga parentesi, sono ora Cina e Russia a convergere tra loro, non più nella cornice ideologica e anticapitalista dei tempi di Stalin e Mao, ma sulla scorta di interessi concreti – energia, commercio, industria militare, consonanze su Iran, Palestina, Corea del Nord e altro – il tutto impreziosito dalla comune necessità di contenere l’espansionismo bellicista americano.

L’impero americano sarà l’ultimo della storia. Pechino non ha alcuna intenzione – non ne avrebbe nemmeno la forza – di sostituirsi agli USA. Il mondo è già una realtà policroma, nella quale la Cina è la nazione di punta, attorniata però da altre potenze, in atto o in fieri: Russia, India, i Brics, la Sco, l’Unione Economica Euroasiatica, la Lega Araba, il Mercosur e altri insiemi continentali, tutti intenzionati ad affrancarsi dall’impero unipolare, sulla scorta del principio di sovranità e libertà di scelte politiche e ideologiche.

L’impero atlantico, seppure in ritirata, non intende però dileguare senza combattere. Nessun impero lo ha mai fatto. Esso si batterà con ogni mezzo contro tale infame destino, provando ancora una volta a intortare il mondo con l’ideologia dell’immutabilità capitalistica e degli ideali occidentali: democrazia liberale ed economia di mercato, quell’imbuto nel quale, secondo la mistificata profezia di F. Fukuyama, sarebbero prima o poi precipitati tutti i paesi del mondo.

Anche sotto questo aspetto, l’impero egemone dovrà fare i conti con la Cina, un paese che alla stabilità politica unisce economia mercatile vigilata e controllo pubblico delle risorse, e che a dispetto di alcuni deficit (tra cui l’iniqua distribuzione della ricchezza e una diversa esegesi delle libertà dell’individuo) costituisce un incubo per il preteso egemone unipolare. Persino sotto il profilo dell’efficienza produttiva (organizzazione di fabbrica, tecnologia, benessere generato, crescita dei redditi familiari), quel punto di forza capitalistico che sembrava sino a ieri incontrovertibile, il socialismo con caratteristiche cinesi, mostra di essere superiore al capitalismo neoliberista. Chi sopravviverà alla cupezza dei tempi potrà forse intravedere i lineamenti di quel coniglio che il borioso corporativismo americano farà uscire dal cilindro prima di prendere atto di quanto sopra.

Lo spostamento ad est del centro del mondo

Tornando all’Ucraina, la storia, perenne maestra di sorprese, ci mette oggi di fronte a taluni sviluppi che, seppure non ancora sedimentati, stimolano qualche riflessione. Fino al secondo ingresso di D. Trump alla Casa Bianca, nelle viscere dell’impero dominava l’angoscia della saldatura Russia-Europa (in spontanea attrazione queste due: storia comune, medesima religione, intreccio di culture, stesso colore della pelle – non paia eccentrico evocarlo – e altro ancora; l’Europa ha sete di energia, la Russia di capitali, macchinari e beni finiti di qualità), una prospettiva che avrebbe emarginato gli USA al di là dell’Atlantico, lontano dall’heartland, quel cuore della terra che già all’inizio del XX secolo H. Mackinder[ii] giudicava irrinunciabile per chiunque intendesse dominare il mondo. A tale saldatura poi si sarebbe unita la Cina – che con la Belt and Road Initiative[iii] mira proprio ad accorciare le distanze tra Estremo Oriente ed Europa attraverso l’infrastrutturazione dei paesi intermedi – e un giorno il resto dei paesi della massa asiatica. Il potere del mondo passerebbe in tal caso dalla talassocrazia anglofona (USA, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda) alla tellurocrazia multipolare (Europa, Russia, Asia Centrale, Cina e, col tempo, India e Sud Est asiatico), spostando ad Est (o comunque altrove) il centro economico, tecnologico e demografico del pianeta.

Washington prenderebbe ora atto del tragico errore di aver puntato a destrutturare la Russia – che andava invece reclutata sul fronte occidentale in funzione anticinese – insieme alla circostanza che il conflitto contro di essa per interposta Ucraina è ormai perso, spostando il focus della sua strategia imperialista in Estremo Oriente, con il fine di frenare l’ascesa cinese e con essa quella del Sud Globale. Anche in tal caso, tuttavia – è questa l’esegesi qui proposta – la Russia resterà per Washington un paese non amico (e viceversa, beninteso, alla luce della profonda diffidenza incarnatasi nella dirigenza russa nei riguardi di Washington e ancor più dei paesi europei!) anche se forse non più nemico come ora. L’agognato reclutamento di Mosca sul fronte occidentale (come suggerito dalla scuola realista – J. Mearsheimer) dovrà infatti aspettare lunghi decenni prima di essere ripescato quale ipotetica praticabilità, poiché la necessità di contenere la Russia e indebolirla (in Europa e altrove) non dovrebbe venir meno per gli orizzonti americani, poiché le sue ingenti risorse costituiscono asset formidabili per la crescita cinese – e invero per tutto il Sud Globale – nemici sistemici per un impero che non si rassegna a dileguare.

Se tale analisi risponde al vero, un ipotetico disimpegno USA dall’Europa resta fuori questione, anche qualora il citato intento pacificatore di Trump 2.0 in Ucraina andasse in porto.

La differenza rispetto a oggi si colloca altrove, poiché il contenimento della Russia (in altri termini il tentativo di prosciugarla in un conflitto senza termine) viene demandato all’Europa, dal momento che gli Usa dovranno spostare armi e bagagli dal teatro europeo a quello estremo-orientale (a gennaio 2025 il debito pubblico Usa superava i 36.000 mld di dollari!). Pur ridimensionata e spesata dagli europei, la Nato è dunque destinata a sopravvivere: in sua assenza, non sia mai, qualche paese potrebbe essere tentato di recuperare la sua sovranità, una prospettiva nefasta per gli interessi imperiali. Dal punto di vista USA, è dunque un gran bene che la cosiddetta Unione Europea continui a percepire la Russia come una minaccia. D’altro canto, le impalpabili classi dirigenti europee si mostrano esse stesse ansiose di farsene carico, mettendo mano alle cospicue risorse di cui dispongono, riducendo il welfare a favore del warfare, mentre dal riarmo europeo il complesso militare-industriale americano raccoglierà benefici in ogni caso. Resta un mistero doloroso che popoli e parlamenti europei digeriscano tali insulti senza fiatare.

A fine corsa, il rischio di un olocausto nucleare per il genere umano si sarà spostato dall’Europa all’Estremo Oriente – Taiwan, Mar cinese meridionale e orientale, Tibet, Xinjiang e via dicendo – rimanendo però tale, a ulteriore conferma che il partito della guerra non dorme mai, sordo a ogni sano principio di convivenza pacifica e non interferenza negli affari altrui.

Solo un riequilibrio dei rapporti di forza nel mondo, che implica il consolidamento economico e militare del Sud globale, potrà aprire qualche prospettiva di distensione, tenuto conto che nella società statunitense è assente qualsiasi segnale di cambiamento nei rapporti sociali che possa aprire qualche spiraglio di ridimensionamento della bulimia oligarchica dominante.

Lavorare insieme a un futuro condiviso per tutta la comunità umana è la saggia riflessione del presidente cinese Xi Jinping. Un’esplorazione questa che l’Occidente, pretesa culla di civiltà e valori umani, rispedisce quotidianamente al mittente senza riscontro, con la medesima disinvoltura con la quale due anni orsono aveva respinto lo schema che la Cina (la sola nazione ad averlo fatto) aveva approntato quale possibile compromesso in Ucraina.

Medio Oriente: riconciliazione storica o massacro di inermi

Qui la lettura degli eventi è ancora più palese, se appena si oscurano TV e giornali e si riflette sulla ignobile Macchina della Menzogna che agisce dietro le quinte. Un’ideologia violenta, il sionismo, al governo di un paese malato, impone una strategia neocoloniale, massacrando un popolo inerme, in complicità con gli Stati Uniti (e delle vassalle nazioni europee). I due paesi sono avvinghiati in un labirinto di interessi occulti, lontani da ogni valore etico, tenuto conto della pervasività delle potenti lobby pro-Israele attive nella finanza, media e apparati occulti, che dettano la politica americana in Medioriente[iv].

È ben evidente che senza il sostegno incondizionato degli Stati Uniti (risorse, armi e diplomazia) Israele sarebbe spinto ad accettare un sano compromesso con il popolo palestinese. In Israele/Palestina, gli ebrei sono 7,3 milioni, così come gli arabi/palestinesi (islamici, cristiani e altri). Nell’insieme della regione, la popolazione araba e/o islamica è la seguente: Libano 5,2 milioni, Egitto 108 milioni, Siria 23 milioni, Turchia 85 milioni, Giordania 10,5 milioni, Iraq 44,5 milioni, Arabia Saudita 36 milioni, Iran 90 milioni, Yemen 30 milioni e nell’insieme delle residue monarchie del Golfo Persico oltre a 24 milioni; a questi 463,5 milioni devono aggiungersi i paesi islamici più lontani, ma sensibili alla causa palestinese, Afghanistan, Tunisia, Algeria, Marocco, Sudan, Pakistan, Indonesia, Malesia e altri africani, altre centinaia di milioni. Molti di tali governi, ricattati da Washington, restano per ora silenti, ma i popoli restano sensibili alla causa palestinese e dunque potenzialmente destabilizzanti. Alla luce del divario demografico, solo una riconciliazione storica con il mondo arabo-mussulmano (che implica la nascita dello stato palestinese) costituisce per Israele una garanzia di pace, non certo il ricorso sussultorio alla forza e al massacro di esseri umani in complicità con americani ed europei.

Esiste una via d’uscita?

In via di logica, la questione palestinese presenta quattro soluzioni: a) apartheid, continuazione inerziale della condizione attuale (cittadini di prima classe, gli israeliani di etnia ebraica, e gli altri discriminati a seconda di etnia, religione o altro); b) pulizia etnica, vale a dire deportazione dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania, dove e come non è dato sapere: ipotesi impraticabile, a dispetto dei propositi pirotecnici dell’attuale inquilino della Casa Bianca; c) stato unitario di Israele/Palestina, dove israeliani, palestinesi e altri fruiscano di parità di diritti: in pochi anni i palestinesi diverrebbero maggioranza, una prospettiva inaccettabile per Israele; d) nascita dello stato di Palestina (soluzione dei due stati), che implica lo spostamento di 6/700.000 cosiddetti coloni israeliani che da decenni sottraggono terra e case ai palestinesi che vi abitavano da sempre, con reazioni ingestibili da qualsiasi governo israeliano.

Rebus sic stantibus, non v’è dunque alcuna via d’uscita. Solo la storia, maestra di sorprese, oltre che di vita, potrebbe indicarne una, e in ogni caso la chiave di volta resta nelle mani degli Stati Uniti (oggi insanguinate come quelle di Israele), senza i quali quest’ultimo non disporrebbe di armi e risorse per aggredire Gaza, Libano, Siria, Houti e Iran. Washington, è bene rilevarlo, avrebbe la responsabilità ultima anche qualora Israele, messo alle strette, dovesse valutare l’ipotetico ricorso all’arma atomica, di cui come noto (unico paese della regione) è in possesso.

Epilogo. Per una resurrezione democratica e popolare

Il trucco c’è, si vede, ma non importa a nessuno. E la ragione è banale: nessuno pensa che sia davvero possibile cambiare qualcosa. La democrazia per essere tale richiede effettiva sovranità e partecipazione popolare, senza le quali il sistema si converte in un meccanismo di mera legittimazione formale. L’assenza di sovranità è dovuta, a sua volta a: a) dominio del capitale globalizzato: le decisioni che contano non sono adottate da popoli o parlamenti, ma dal pilota automatico o dal vincolo esterno: mercati, agenzie di rating, la burocrazia ineletta di Bruxelles, la troika, il FMI etc.; b) presenza di centinaia di basi americane in 80 paesi del mondo, un ricatto permanente che svuota ogni spazio d’indipendenza e minaccia chi non si piega.

La super-potenza non riesce più, tuttavia, a contenere il risveglio dei nuovi protagonisti e nemmeno a garantire ai paesi cosiddetti amici (di cui, invero, si è sempre occupato poco) il benessere di un tempo: le classi medie scompaiono, si diffondono povertà e disoccupazione, denaro e potere sono quel che resta dell’etica sociale.

Si potrà guardare al futuro con qualche speranza solo se le presenti classi dirigenti – che in cambio di carriere, onori e denari umiliano ogni giorno bisogni e interessi essenziali dei popoli – saranno rimosse dagli scranni dove siedono da una resurrezione democratica e popolare, per essere sostituite da persone di livello intellettuale, politicamente colte e libere dalla propensione all’asservimento.

Nella malinconia dei tempi, non resta che confidare nell’autocoscienza dell’uomo nella storia, lavorando intanto al risveglio dell’indignazione attraverso resistenza e testimonianza, affinché giustizia e libertà possano diventare patrimonio di tutti i popoli della terra, e sfruttamento e alienazione siano relegati tra i ricordi dolorosi di un lontano passato[v].

Note

[i] NATO significa: “North Atlantic Treaty Organization”

[ii] Halford John Mackinder ((Gainsborough, 1861 – Bournemouth1947). Politico, diplomatico ed esploratore britannico. È considerato tra i padri della geopolitica

[iii] La “Nuova via della seta”, nota anche come Belt and Road Initiative, è un progetto strategico cinese di interconnessione e investimenti infrastrutturali, inizialmente centrato sull’Eurasia, che copre oggi tutti i continenti

[iv] J. Mearsheimer, S. Walt, A Israel Lobby e la politica estera americana, 2007, Mondadori Ed.

[v] Alberto Bradanini. Ex-diplomatico. Già Ambasciatore d’Italia in Cina (2013-15), Coordinatore del Comitato Governativo Italia-Cina (2007-09), Console Generale d’Italia a Hong Kong (1996-98), Consigliere Commerciale all’Ambasciata d’Italia a Pechino (1991-96), Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-12), attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea (Reggio Emilia, Italia). Alberto Bradanini è autore di diversi saggi e libri, tra cui “Oltre la Grande Muraglia” (2018); “Cina, l’irresistibile ascesa” (2022) e “Lo sguardo di Nenni e le sfide della Cina.

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