(In)senso comune
Mentre la terza guerra mondiale a pezzi si sta concretizzando ogni giorno di più, torna sempre utile quel Manzoni del buon senso “nascosto per paura del senso comune”. Il buon senso, infatti, è ormai rintanato, rintanatissimo, in un cantuccio e quindi diventa più urgente che mai cercare parole/storie che possano ridare fiato a chi, come noi, cerca proprio col buon senso di fermare, o almeno tentare di fermare, l’incendio in corso. Questa epifania risale a quel punto di svolta del 1989 quando il senso comune diventò neoliberista; trascinando con sé, come corollario, un Io sempre più parcellizzato e distrutto. Sul finire degli anni Sessanta, Pasolini arriva nello Yemen (lì la guerra mondiale a pezzi contrappone gli Houthi al governo legittimo) e decide di perorare, presso l’UNESCO, la conservazione della capitale, Sana’a, attraverso una lettera aperta in forma filmica. Il breve filmato si chiude con una bellissima e celebre frase sulla “scandalosa forza rivoluzionario del passato”. Un punto talmente importante e dibattuto che proviamo a dirne qualcosa partendo dall’Erlebnis di alcune storie capaci di una goccia di splendore.
Le radici e le ali
C’è una bellissima ed epica canzone del gruppo marchigiano dei Gang, Le radici e le ali, che racconta la biografia di un “gigante”, il quale, nato in un paese di “fame e pietre”, si trova a vivere la nascita del fascismo, attraversa poi la lotta per la Spagna repubblicana, la Resistenza italiana e, infine, le disillusione del dopoguerra e le “piazze vuote”. Questa vita immaginata è spesso il profilo reale biografico di quanti, fra uomini e donne, scelsero, nella seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso, di accorrere in Spagna in difesa della Repubblica. Fra loro, Anello (solo all’anagrafe, in realtà Nello) Poma che nasce a Biella nel 1914. Da giovane operaio tessile entra in contatto con l’antifascismo e inizia la sua militanza nel Partito Comunista. Nel 1937 parte volontario per combattere nelle Brigate Internazionali durante la Guerra civile spagnola. Viene quindi detenuto in Francia, confinato a Ventotene, e durante la Resistenza diventa comandante partigiano nel biellese con il nome di battaglia “Italo”. Dopo la Liberazione è stato dirigente comunista e sindacale, impegnato nella politica e poi nella ricerca storica, svolgendo un ruolo attivo fino alla sua morte nel 2001. È uscito da poco un libro, I fascisti tradirono l’Italia di Anello Poma, a cura di Italo Poma (il figlio) e Alberto Zola, per DeriveApprodi. Il libro è piccolo ma composito: una biografia di Anello a cura di Italo, il testo di una lezione (disponibile anche in rete) in cui Anello racconta la “sua” guerra e il “tradimento” dei fascisti, un testo di Zola a commento della lezione, infine quattro articoli di cui tre sulla Guerra Civile in Spagna e uno sul dirigente comunista Pietro Secchia. Interessante, in tutto questo materiale, segnalare due cose.
La prima è che Anello, a partire dal 1965, si è occupato essenzialmente di storia, pur non essendo storico di professione, alternando ricerca e attivismo (è uno dei fondatori dell’AICVAS, l’Associazione italiana combattenti volontari antifascisti di Spagna). Come nasce questa scelta? Forse lo “scandalo” pasoliniano era nel vedere in quell’Italia, degli anni Cinquanta, la Costituzione “messa in esilio” (per usare l’espressione di Giuseppe Filippetta). Poma intuisce che ricominciare a raccontare la Resistenza (il suo testo sulla Resistenza biellese è considerato un “long-seller” per usare il linguaggio editoriale), estendere la rete degli Istituti regionali preposti allo studio della Resistenza, fondare l’AICVAS (come estensione più organizzata della “Fratellanza Garibaldina”) servivano, contemporaneamente al “ventennio costituzionale” (dalle giornate di Genova e dalle occupazioni delle fabbriche del 1960 al 1980), a far tornare dall’esilio la Costituzione. L’altro elemento utile è la critica serrata e assolutamente circostanziata di Poma a Luciano Violante che, nel discorso d’investitura del 9 maggio 1996 come Presidente della Camera, si chiedeva “se l’Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogni sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà”. Poma pone due questioni fondamentali: la distinzione fra chi è stato volontario e chi no all’interno della RSI; l’altra è l’accusa di “alto tradimento” (da cui il titolo della lezione) nei confronti di chi ha agito, come i repubblichini, al comando dei tedeschi invasori. Oltre questi due punti dirimenti, è ancora più utile la trascrizione esatta di come Poma chiude la questione “dopodiché la partita è chiusa e l’aprirla è una follia, è un qualcosa che noi non comprendiamo”.
Noi
In tempi di linguaggio inclusivo, l’uso del “noi” è sempre forte. Noi, che abbiamo avuto la fortuna di sentire chi provenisse dall’esperienza di quel movimento operaio, rimaniamo sempre colpiti da questa insistenza sul “noi” senza mai chiudersi in un io autoriferito e narcisistico (come troppo spesso ci accade con *, ə, etc). Un Io, come detto all’inizio, parcellizzato in mille improbabili e transeunte identità (il padrone della ferriera, alias Facebook, prevede 58 diverse identità di genere oltre le sole opzioni “maschio” e “femmina”). Il “noi” si presenta dunque come quella trascendenza (e autonomia) della politica che tanto spesso vediamo minacciata dal senso comune di cui sopra. Un senso comune che premia l’individualismo e l’idea che, per impegnarsi, sia necessario partire delle proprie questioni/problematiche. E invece ci è sempre piaciuto quella indicazione che Che Guevara dava ai propri figli “ma più di ogni cosa, imparate a sentire profondamente tutte le ingiustizie compiute contro chiunque, in qualunque posto al mondo”. Un’indicazione che sia Guevara, sia Poma hanno preso sul serio: partendo in difesa di paesi, la Bolivia uno, la Spagna l’altro, dove sentivano un’ingiustizia in atto. Questa è una grande caratteristica che ha preso il nome di internazionalismo e che, nella vita dei singoli, ha significato trascende la propria quotidianità e relazionarsi con un “noi” molto diverso e diversificato. Una scelta radicale che dall’io frustrato e incattivito ti pone al centro di una collettività nuova e tutta da inventare. Un atto creativo, anche, di natura profondamente politica perché basata su quell’autonomia (“prima parola del lessico della politica” ci ha insegnato Tronti) in cui il singolo costruisce da sé e per sé una relazione con i molti accorsi, nel caso specifico, a difendere la Repubblica spagnola (come raccontato nei tre saggi finali del libro di Poma). Il “noi” insomma diventa una delle forme dello scandalo del passato rivoluzionario? A rileggere la polemica contro Violante, a vent’anni o quasi dagli accadimenti, la compressione che poteva avere un senso metafisico (Spinoza ci ammonisce nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere) diventa, per il politico che non difende l’autonomia della sua vocazione, la partita, ormai riaperta, in cui l’antifascismo diventa un reato e il partigiano un sanguinario. Per fortuna, libri (e storie) come quelli di Poma cercano di invertire quel risultato con la fatica del concetto e la pratica di quella piazza che, in questi, giorni ci ha dato un po’ di ossigeno per cospirare insieme in uno scandaloso Noi tutto da costruire.
Il libro “I fascisti tradirono l’Italia” sarà presentato martedì 21 ottobre alle 18:15 a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia, in Via San Francesco di Sales 5. Qui la locandina.
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