L’ultimo libro di Franco Cassano, “L’umiltà del male”, è una buona occasione per riflettere sulla politica, non per le sue vicende contingenti, ma per il suo significato sostanziale e per il suo destino. Il tema è quello del potere, della sua logica, della sua dinamica, e delle possibili alternative che possono essere esplorate. Ho la convinzione che se non riusciamo a pensare la politica nei suoi fondamenti non avremo nessuna possibilità di uscire dal pantano in cui oggi siamo immersi. Abbiamo bisogno di uno sguardo più in profondità, per poter intervenire sulla radice stessa del potere e per rovesciarne il senso. Altrimenti resteremo sempre in balia di oscillazioni superficiali, di un movimento altalenante dove tutto sembra cambiare e tutto eternamente ritorna. È un’avvertenza critica che può essere utile nell’attuale momento politico, dopo l’ondata delle elezioni amministrative, non per sottovalutarne il significato, ma per andare più a fondo nella necessaria opera di scardinamento dell’attuale sistema di potere, per non esserne nuovamente risucchiati. È sempre in agguato il rischio di ripercorrere una delle tante ventate illusorie, che si concludono nell’amarezza della frustrazione e del disinganno. Per questo, spero che finiscano al più presto le cerimonie celebrative, con il loro inevitabile carico di retorica e di autocompiacimento, e che si cominci a lavorare sulla materialità della struttura sociale e dei rapporti di potere. La “vertigine del successo” è sempre una cattiva consigliera. Ma torniamo al libro di Cassano. In esso domina la figura del “Grande Inquisitore”, intrecciando così un affascinante dialogo a distanza con Dostojevskij. Il Grande Inquisitore rappresenta in una forma di estrema coerenza una delle possibili varianti del potere: il potere come espropriazione della libertà individuale, come strumento di asservimento e di inganno consapevole, in base all’assunto che la grande maggioranza degli uomini non è in grado di reggere una condizione di libertà e ha bisogno di una autorità esterna, di una istituzione a cui affidare la propria sicurezza, e per questo è necessario tutto un apparato di simboli, di riti, di illusioni, perché solo nell’illusione l’uomo trova il suo apparente appagamento. “Il miracolo, il mistero e l’autorità”, sono questi gli ingredienti del potere, i vincoli che tengono il popolo in una condizione di volontaria sottomissione. Ma questo meccanismo è solo una possibile variante, o è la logica intrinseca del potere in quanto tale? L’Inquisitore è solo il rappresentante di un mondo ormai tramontato, o viceversa ha il merito di dire con schiettezza e con tracotanza ciò che continua ad essere vero anche nelle nostre società democratizzate? Lo scenario in cui Dostojevskij colloca la sua “leggenda” è la città di Siviglia, nella Spagna della Controriforma e della lotta feroce contro le eresie, ma è chiaro che il suo intento non è storico, ma filosofico, che l’Inquisitore è una “figura” che va oltre il suo tempo, che sono dunque messi in questione problemi di ordine generale, universale, che riguardano tutto il rapporto tra fede e potere, tra religione e politica, tra libertà e autorità. È un tema che ritorna, anche in quella parte del mondo che ha vissuto un processo di secolarizzazione. Ritorna una domanda di assoluto, di fede, di autorità, per mettere un argine all’arbitrio individuale. Nel nostro mondo globalizzato e civilizzato, che si era illuso di aver realizzato il definitivo trionfo della razionalità illuministica, tornano a ricomparire gli Inquisitori, i depositari esclusivi del bene, dell’identità popolare, della tradizione, pronti a scatenare una nuova crociata contro le perversioni della modernità. Tutto l’edificio dello Stato laico, con il quale si pensava di aver neutralizzato gli effetti politici della religione, confinandola in uno spazio delimitato, appare sempre più traballante. I confini tra le due sfere si sono fatti incerti e sfumati, aperti alle più spregiudicate incursioni, dall’una o dall’altra parte, e in questa ibrida sovrapposizione sia la religione che la politica si avviano a perdere la loro anima, la loro verità. Ma il problema va visto in una dimensione allargata, perché non si tratta solo dei risorgenti integralismi etnico-religiosi, ma più in generale della dinamica del potere, in tutte le sue forme. Resta cioè aperta l’interrogazione sui fondamenti del potere, e resta legittimo il dubbio che dietro i mutamenti delle forme esteriori resti immutata la sostanza di una politica che funziona solo come dominio, che dunque tutte le nostre libertà “moderne” siano poco più di un’apparenza. È una domanda inquietante, che non può essere elusa. Al posto del sacro, del miracolo, al posto di una istituzione “totale” che impone dall’alto il suo ordine, c’è il libero sviluppo delle pulsioni individuali, libero solo nell’apparenza, perché resta pur sempre dentro un meccanismo di dipendenza e di manipolazione. Nella “società dei consumi” i meccanismi del potere sono più sottili e indiretti, ma non meno efficaci, e l’individuo continua a dipendere da potenze esterne che non può controllare. L’Inquisitore cambia volto e usa nuove tecniche, ma non è meno dispotico nella sua volontà di controllo sulla vita delle persone. Il capolavoro di questo nostro tempo è l’aver messo la libertà al servizio del potere. In questo, la critica di Adorno e della scuola di Francoforte coglie esattamente nel segno: la società dell’individualismo dispiegato è la società in cui l’individuo si perde, e non ha più una sua forza autonoma, una sua struttura, ma finisce trascinato dalla corrente. Torna allora la domanda: è questo un destino, una necessità, o ci può essere un’alternativa? La mia tesi è che l’alternativa non può essere cercata dall’interno del potere, ma solo estendendo il più possibile tutte le forme di autonomia dal potere, liberando interi territori della nostra vita dalle trappole del potere. Autonomia è la parola-chiave: autonomia della persona, dei soggetti sociali, autoregolazione. Autonomia in quanto rovesciamento del dominio. Solo così ci possiamo sottrarre all’abbraccio dell’Inquisitore, alla sua pretesa di dettare i ritmi della nostra vita e della nostra morte, di fissare i confini e le regole di una comunità che ci accoglie nella stessa misura in cui ci opprime. Può essere anche questo un mito: non la conquista del potere, ma la liberazione dal potere. Il mito, nell’azione politica, non è che l’enunciazione di una traiettoria, di un obiettivo-limite, che poi dovrà essere articolato nei suoi diversi e complessi passaggi tattici. In questo caso, si tratta di progettare una società nella quale non possa più funzionare il ricatto dell’Inquisitore, perché vengono disinnescati gli strumenti del dominio. Il grande errore del movimento comunista è stato quello di pensare che fosse sufficiente cambiare il segno di classe del potere, col risultato di riprodurre un sistema ancor più oppressivo e invasivo. Non è stato un risultato accidentale dovuto a particolari circostanze storiche, ma è stato il destino già scritto fin dall’origine di un’operazione storica grandiosa, che puntava tutte le sue carte sul “primato della politica”, sull’iniziativa dall’alto, sulle infinite risorse del potere, dove quindi non c’era spazio per nessuna forma di autonomia. L’idea di fondo era che solo un potere estremamente concentrato potesse cambiare il corso della storia. L’Inquisitore si è arruolato sotto le nuove bandiere, e ha continuato a svolgere il suo sporco lavoro. Da questo punto di vista, meriterebbero di essere riscoperte e ristudiate tutte le correnti libertarie che hanno cercato, dall’interno del movimento operaio, di offrire un’alternativa al modello leninista centrato sul primato assoluto del partito come unico depositario e interprete della coscienza di classe. Solo Bruno Trentin, che io sappia, ha tentato di imboccare questa strada, rovesciando tutto lo schema interpretativo ufficiale e riscoprendo l’attualità delle correnti minoritarie che sono state sconfitte. È un metodo storico essenziale, io credo, quello di prendere in seria considerazione gli sconfitti, di scavare sotto l’ufficialità della “storia dei vincitori”, per far venire alla luce quel grande deposito di potenzialità inespresse, di idealità frustrate, di intuizioni che non hanno avuto il tempo per svilupparsi. C’è sempre molto da imparare dalle eresie. E forse è possibile oggi, caduti i grandi miti del Novecento, affermare un diverso approccio a tutto il tema del potere, e ridefinire una strategia politica che metta al centro l’autonomia della persona, la sua liberazione e la sua realizzazione nel lavoro e nelle relazioni sociali. Questo progetto è possibile solo se c’è una falla nelle tesi dell’Inquisitore, se gli uomini non sono per loro natura destinati all’asservimento, ma c’è anche, talora nascosta o inespressa, una domanda di libertà e di autonomia, su cui è possibile far leva per costruire una diversa prospettiva politica. La politica lavora col materiale umano che è messo a disposizione. In questo Cassano ha del tutto ragione quando ci invita a guardare alla realtà umana con realismo, senza pretendere che essa si possa rispecchiare in un ideale astratto di perfezione etica. Ma ci deve pur essere una condizione esistenziale che resta aperta all’innovazione, al cambiamento, ed è su questa apertura che dobbiamo lavorare. È solo una possibilità, un varco che si può aprire. Dovrebbe essere ormai chiaro che non c’è nessun “progresso” storico necessario, che tutto è lasciato all’incertezza e alla precarietà del nostro agire, individuale e collettivo. Ed è proprio la mentalità “progressista” l’ostacolo che si frappone ad un’azione politica intelligente ed efficace, perché essa non riesce mai a vedere il lato “negativo” della realtà, e finisce per adattarsi passivamente a tutti i cambiamenti, accecata dal culto della modernizzazione. A questa mentalità la sinistra ha già pagato dei prezzi troppo elevati, perché ha perso il senso del conflitto e del ruolo decisivo che è affidato alla nostra soggettività. La storia non è un continuum, ma procede per salti, per rotture, e va colto il momento della possibile iniziativa vincente, senza che sia mai possibile affidarsi ad un disegno provvidenziale. In questa visione antideterministica, in cui nulla è dato per scontato, non ha nessun senso la disputa tra l’ottimismo e il pessimismo antropologico, perché si tratta di due miti entrambi devianti, in quanto presuppongono una natura originaria, un’essenza, uno statuto metafisico, là dove invece si tratta di analizzare la variabilità dei processi sociali e le infinite possibili combinazioni che ne discendono. Si può piuttosto dire, con gli esistenzialisti, che l’uomo non ha un’essenza, ma un’esistenza, e di questa esistenza può fare liberamente gli usi più diversi. Il “male” rientra in questo campo di possibilità, è uno dei modi in cui si esplica la libertà umana, dentro le coordinate di un determinato sistema sociale e politico. Non è nè la regola, nè l’eccezione, ma è una virtualità sempre aperta, che può irrompere nei modi più impensati e imprevedibili. Ogni volta che c’è un atto di ferocia, si dice sempre che il presunto colpevole era una persona del tutto normale. Appunto: il male è un precipizio nel quale ciascuno può all’improvviso cadere. Secondo Cassano “nella sua partita contro il bene, il male parte sempre con un netto vantaggio perché, avendo molto più confidenza del suo avversario con la fragilità dell’uomo, è più capace di volgerla a proprio favore”. L’errore da evitare è allora l’aristocraticismo etico, che si pone in una posizione troppo distante dall’esperienza comune delle persone, dalla loro quotidianità, che è fatta anche di debolezze, di compromessi, di smarrimenti. Che l’uomo sia un “legno storto” lo diceva già Kant, ma non per questo rinunciava a fissare un sistema rigoroso di imperativi morali. Potremmo limitarci a dire, nella definizione di una teoria morale, che occorre trovare un equilibrio, tra il necessario rigore della norma e la sua flessibilità, il suo realismo, la sua compatibilità con le debolezze umane. L’imperativo etico è “categorico” nella sua essenza, ma è solo un’idea-limite, alla quale ci possiamo approssimare solo parzialmente, con un lavoro graduale, mai concluso e mai definitivo, di purificazione della nostra condotta di vita. Ma il problema che pone Cassano riguarda non la sfera morale, ma quella della politica. E qui vorrei esprimere una opinione che si discosta, almeno in parte, dalla sua argomentazione. Non so se le categorie del bene e del male sono utilizzabili nel linguaggio politico. Possiamo usarle solo in modo traslato, in un diverso contesto e con un diverso significato. E allora possiamo dire che il “male”, ovvero il negativo, l’ostacolo che deve essere abbattuto, è la forza d’inerzia che ci tiene incatenati al presente, è il potere dell’immanenza, che brucia ogni possibilità di cambiamento. È su questa forza che fanno affidamento gli inquisitori, di tutte le specie, perché essi hanno bisogno in ogni caso di una umanità manovrabile, che si ritaglia il suo piccolo spazio privato nelle pieghe dei rapporti sociali che sono dati, senza che vi sia nessun impulso etico e politico verso un superiore ordinamento sociale. Qui si colloca il concetto della “zona grigia”, di cui parla Primo Levi. È la zona dove il confine tra il bene e il male resta indistinto, perché le persone riescono a pensare solo alla loro convenienza particolare e immediata, e possono quindi essere trascinate verso una sostanziale complicità, sia pur passiva, con il dispotismo del potere o con la criminalità organizzata. È sempre la zona grigia il vero punto di forza dei poteri criminali. Il problema, a questo punto, è se noi abbiamo le risorse necessarie per risvegliare questa zona grigia e per farla uscire dalla sua passività, o se invece, in modo rassegnato, dobbiamo con essa scendere a patti. Cassano sembra dire, se ho ben inteso la sua tesi, che dobbiamo restare in comunicazione con una umanità fragile e incapace di grandi obiettivi, che la politica deve essere proporzionata al grado di maturità dello spirito pubblico, per non finire nella presunzione e nell’arroganza aristocratica, per non produrre una frattura insanabile tra il popolo e le èlites. È una tesi che può essere rovesciata. Quelle energie potenziali e nascoste che possono essere riattivate e sottratte al controllo dell’Inquisitore hanno bisogno, per essere messe in movimento, di messaggi forti, di qualcosa che le scuota dalla loro quotidianità. La zona grigia non ha bisogno di tolleranza, di accomodamento, ma di essere messa in crisi, di essere aggredita nel suo torpore e nella sua passività. Tutta la storia ci dimostra che le grandi masse si muovono solo quando c’è in gioco qualcosa di essenziale, si tratti della salvezza religiosa, o del mito della società giusta, o dell’entusiasmo patriottico. Il cristianesimo si è spesso deformato e corrotto a contatto con il potere, ma la sua straordinaria forza espansiva è nel messaggio radicale annunciato da Gesù di Nazareth. Ancora oggi, continua ad avere una capacità di mobilitazione perché mette davanti agli uomini un ideale trascendente, che va oltre le miserie della loro vita comune. Su questo punto, ha del tutto torto il Grande Inquisitore: la Chiesa, senza il messaggio di Gesù, sarebbe una scatola vuota. Lo stesso fenomeno si è prodotto, su scala mondiale, con il miraggio della società comunista, con l’idea di un totale e definitivo riscatto dell’umanità dalle sue storiche sofferenze. In entrambi i casi vi sono stati travisamenti, distorsioni, inganni. Ma non va perso di vista il punto essenziale: che l’umanità si mette in movimento solo per una causa che possa apparire come universale. Ciò non vuol dire avere una visione idealizzata della realtà, ma solo capire quale sia la dialettica che muove questa realtà, quale sia il ruolo possibile delle idee in quanto forza mobilitante che può, in determinati casi, vincere le resistenze degli interessi corporativi. Se dunque il “male”è la forza d’inerzia che ci tiene legati al presente, esso non sarà scalzato da proposte politiche moderate, prudenti, ma solo da un qualche messaggio che investa nel profondo il significato della vita delle persone. È ciò che si continua a non capire, con la stravagante tesi che siamo un paese di moderati e che può vincere solo chi incarna in se la mediocrità e la banalità di una politica che ha rinunciato a pensare. A me sembra che stia qui, in questa mediocrità, l’ostacolo, il pericolo di una politica che sta tutta immersa nella zona grigia dei compromessi e delle complicità. Sull’altro versante, c’è il rischio di un’aristocrazia arrogante, saccente, lontana dal senso comune. Ma è davvero questo, nelle condizioni attuali, il pericolo incombente? Continuo a pensare che noi abbiamo bisogno di una élite politica, che sia capace di forzare il corso delle cose, e di offrire un progetto, un’idea, che ci faccia uscire dall’attuale situazione stagnante. Una élite, non un’oligarchia. Un gruppo dirigente, non una casta di privilegiati. Le differenze con Cassano sono forse più di accenti che di sostanza. Il suo obiettivo mi sembra quello di ritornare ad una politica di massa, che sia capace di rivolgersi a tutti, e di offrire a tutti un sostegno, una risposta ai bisogni più elementari, di coinvolgerli in un’impresa collettiva. Sono d’accordo, ma credo che l’obiettivo non si raggiunge con una navigazione prudente, minimizzando gli obiettivi, ma solo alzando il tiro delle nostre ambizioni politiche. È un problema di misura, di equilibrio, di come si possono tenere insieme teoria e pratica politica, strategia e tattica, fini e mezzi. Ecco, non mi sembra che oggi la sinistra sia sbilanciata sul versante dei principi, della teoria, dell’audacia programmatica, e in questo senso il discorso di Cassano può avere l’effetto indesiderato di lasciare che la sinistra resti impigliata nelle sue debolezze e incertezze, scambiando per realismo politico ciò che è solo debolezza di pensiero. Il discrimine è quindi il seguente: se il popolo debba essere lasciato alla sua passività spontanea, se tutte le sue debolezze e fragilità devono essere tollerate, o se sia possibile una qualche “trascendenza”, un salto che va oltre i rapporti di potere consolidati. La parola “trascendenza” ha evidentemente un significato diverso in una prospettiva religiosa o in una politica. Ma c’è in comune una tensione etica, che può dar luogo ad importanti convergenze, alla condizione che in entrambi i casi ci sia una volontà esigente, rigorosa, un impegno di coerenza tra i valori dichiarati e la prassi reale. Io non rinuncerei, in nome del realismo politico, a questo punto di principio: dobbiamo essere assolutamente esigenti, con noi stessi e con gli altri. Senza arroganza, ma senza cedimenti. Il contrario di tutto ciò può essere definito come il populismo, un concetto ambiguo, di cui spesso si straparla, ma che può trovare un senso nel contesto qui analizzato. Il populismo è l’idealizzazione della passività e della sottomissione del popolo, è la mitizzazione di una virtù originaria, la quale consiste , in ultima istanza, nella perfetta e totale aderenza alla realtà dei rapporti sociali costituiti. È il popolo come è stato sempre sognato da tutti gli inquisitori, sottomesso e pacifico, incapace di slanci e di conflitti. Qui si instaura un rapporto perverso tra massa e potere, in nome di una identità chiusa, statica, che si oppone a qualsiasi cambiamento e che esclude tutto ciò che è esterno, vedendo nell’altro il nemico che attenta alla nostra tradizione. Questa è la partita che è aperta in tutto il continente europeo: identità chiuse e settarie, o all’inverso la costruzione di una nuova cittadinanza, su basi universalistiche. Il populismo, in questo senso, è l’incarnazione della filosofia del Grande Inquisitore. Ed esso ha bisogno di nemici, di eretici da bruciare, di atti di violenza. Non illudiamoci di avere estirpato questa malattia che rischia di ammorbare tutto il nostro paesaggio politico. Le recenti elezioni hanno segnato, a Milano soprattutto, un cambiamento di scenario. Ma vale sempre l’antico insegnamento di Lu Hsun: non basta buttare il cane nell’acqua, ma va battuto con tutte le nostre forze per impedire che torni più aggressivo di prima.
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