A differenza degli inattivi, che non lavorano né sono alla ricerca di un impiego, i disoccupati si trovano in una condizione transitoria per definizione, che finisce non appena trovano un posto di lavoro.
Tuttavia non sempre questa transitorietà è effettiva, e i tempi di ricerca possono essere molto lunghi, con effetti molto negativi sia sulla produttività e quindi sulla società nel complesso che sulle persone in questione, che si trovano maggiormente esposte al rischio povertà. Si parla di disoccupazione di lunga durata quando la condizione di assenza e ricerca di impiego supera i 12 mesi.
La disoccupazione di lunga durata in Europa
Nel 2022, secondo il rilevamento sulla forza lavoro di Eurostat, questa condizione colpisce oltre 5 milioni di persone in Europa, ovvero il 4,6% dei cittadini che fanno parte della forza lavoro. Una quota molto significativa del totale delle persone disoccupate.
Il 38,5% dei disoccupati in Ue lo sono da più di 12 mesi (2022).
Relativamente al totale dei disoccupati il dato più elevato in Europa è quello della Slovacchia, dove due terzi dei disoccupati lo sono da oltre 12 mesi. Seguono Grecia (61,9%) e Italia (57,3%). Ultime invece Danimarca e Paesi Bassi con cifre inferiori al 20%.
La Grecia sale invece al primo posto se consideriamo il totale della forza lavoro, con un valore pari al 7,7%. Seguono Spagna e Italia con rispettivamente il 5% e il 4,6%. Si tratta infatti dei paesi Ue con più persone che non hanno un impiego.
Eurostat ricostruisce poi anche quante sono le persone che risultano disoccupate da oltre 2 anni (disoccupazione di durata molto lunga). È interessante osservare che in questo caso i paesi caratterizzati dalle percentuali maggiori sono gli stessi, e che i dati non sono troppo lontani da quelli precedentemente analizzati. La Slovacchia è ancora al primo posto con il 46,1% di disoccupati che non trovano lavoro da più di 24 mesi, la Grecia al secondo con il 40,7% e l’Italia di nuovo al terzo con il 39,9%. Un dato che fa supporre che nella maggior parte dei casi la situazione si protragga molto a lungo.
Un miglioramento contenuto
Negli anni la quota di disoccupati in Europa si è gradualmente ridotta e così anche quella dei disoccupati di lunga durata. Un segno positivo, di ripresa rispetto alla lunga crisi che ha colpito il continente dal 2008 in poi. Basti pensare che nel 2013 questa condizione colpiva quasi la metà dei disoccupati (46,8%, ovvero 8 punti percentuali in più rispetto a oggi) e il 5,4% di tutta la forza lavoro (mentre oggi il valore è pari ad appena il 2,4%, meno della metà).
Se andiamo ad analizzare i dati relativi ai paesi più grandi, vediamo però che il miglioramento ha subito una piccola battuta d’arresto: è andato calando progressivamente fino al 2020 ma poi ha visto un lieve aumento. Probabilmente a causa della crisi post-pandemica. Se mediamente nel 2022 la situazione si è nuovamente stabilizzata, questo non è però successo in Italia.
Dal 2013, l’Italia è sempre stata il paese con il tasso più elevato rispetto agli altri grandi stati dell’Ue. Fatta eccezione per la Francia, che però riporta valori molto più bassi, è anche l’unico che non ha registrato un calo pronunciato negli anni.
La Spagna ha registrato, in questo periodo, una diminuzione pari a -10,7 punti percentuali (passando da un tasso del 49,7% nel 2013 a uno del 39% nel 2022). E la Germania addirittura di 13,1 punti (da 46,1% a 33%). In Francia invece il calo è stato il più contenuto di tutti: -0,2 punti percentuali. Tuttavia qui la quota di disoccupati di lunga durata è inferiore alla metà di quanto si registra in Italia (27,4% contro 57,3%). Nel nostro paese infine la riduzione è stata di 2,2 punti percentuali tra 2013 e 2022. E dal 2020 si è verificato un nuovo aumento, che non si è ancora arrestato.
In Italia i tassi più elevati si registrano nelle fasce di età più avanzate. I più giovani, per quanto maggiormente esposti alla disoccupazione, come abbiamo raccontato in un recente approfondimento, tendenzialmente trovano un impiego più in fretta. Risulta leggermente più elevato tra gli uomini (58,6%) rispetto alle donne (55,9%) e marcatamente più alto tra le persone con un grado di istruzione più basso.
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