Dalla Francia un grande vecchio della Resistenza ci ha appena intimato, con pamphlet smilzo e perentorio nei toni, «indignatevi!». Dall’Italia un grande vecchio della Resistenza ci suggerisce adesso, con libro-intervista smilzo e quasi sommesso nei modi, «Indignarsi non basta». La differenza di stile tra Stéphane Hessel e Pietro Ingrao non potrebbe risultare più lampante. E, per diverse ragioni, impressionante.
La riflessione sui limiti dell’indignazione in servizio permanente effettivo era finora stata condotta in Italia da destra, un genere letterario col pilota automatico, ormai. Prevedibile, scontata, roba da sonno alla terza riga. Che venga infine sviluppata dall’ultimo grande vecchio della sinistra italiana è diverso. «Indignarsi non basta», spiega Pietro Ingrao, che compie 96 anni, consegna oggi un libro che ha esattamente quel titolo, e entra nel vivo della polemica politico-culturale centrando in pieno uno dei nervi (non il solo, peraltro) sui quali s’è arenata la sinistra.
Se ci fissiamo sull’indignazione, osserva Ingrao, non è che autorizziamo derive moralistiche e giacobine (come bofonchiano i professionisti dell’immoralismo); semplicemente, contribuiamo all’abdicazione della politica. E questo per la sinistra della sua generazione – la sinistra che s’avviò alla politica con la rivolta anti-franchista – sarebbe stato impensabile. Quella generazione ebbe numerosi limiti, coltivò insopportabili silenzi, toppò di brutto quando doveva prendere posizione (proprio Ingrao altrove ha ricordato non gli errori, ma l’Errore della vita: il fondo col quale, da direttore dell’ Unità , non condannò i carri armati sovietici a Budapest). Eppure per noi, riflette Ingrao, indignarsi era tutt’uno con l’impegnarsi. Facevano politica, loro.
Se il rombante invito all’indignazione proveniva da un seducente ex resistente di origini berlinesi, naturalizzato francese, diplomatico, politico, scrittore, uno così figo da ispirare François Truffaut per Jules e Jim (Hessel, appunto), il sommesso invito a non fermarsi all’indignazione arriva da un militante che s’è sempre considerato «uno del popolo», un intellettuale anche lui, certo, ma di Lenola, campagnola provincia laziale, nato con le lotte dei braccianti e cresciuto per strada.
Se Hessel teorizza la non violenza integrale da enoteca parigina, Ingrao dice: «Non sono mai stato per il pacifismo integrale. Sono stato e resto persuaso che l’azione armata del nemico costringe a rispondere con le armi». Non Gandhi, l’articolo 11 della Costituzione.
È così che il vecchio spacca in due l’attualità – pensate alla Libia, o ai dibattiti sul Cavaliere – meglio di moltissimi altri, nonostante i tanti «egemonia», «reificazione» e «alienazione» di cui abbonda il suo eloquio.
Non per caso oggi il libro è spunto di una discussione attuale con Nichi Vendola (vi parteciperanno i due intervistatori, Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti), e viene pubblicato da Aliberti, particolare non trascurabile, trattandosi di uno degli editori del Fatto . Lo storico capo della sinistra interna del Pci si toglie lo sfizio di predicare in partibus infidelium.
«Il giorno in cui Francisco Franco varca lo stretto di Gibilterra, beh, quel giorno mi sono indignato», ammette ora. «Mi sono interrogato su quello che io stavo facendo e su quello che accadeva nel mondo. Che dovevo fare io?». Indignarsi parve troppo poco, bisognava «costruire una relazione condivisa, attiva. Poi la puoi chiamare “movimento” o “partito” o in altro modo».
Per Hessel «il motore della Resistenza era l’indignazione», sentimento primario da trasmettere ai giovani. Ingrao sussurra invece a un giovane: «Pratica il dubbio ogni volta che l’agire collettivo contrasta col tuo sforzo di essere libero». Detto da un comunista di quell’epoca, fa impressione. E ancora, alla sinistra: «Vedo prevalere una critica morale alla degenerazione dei partiti, alla corruzione e all’affarismo del ceto politico. Ne condivido le ragioni e l’asprezza. Ma l’indignazione non dà conto delle modificazioni sostanziali. La mera denuncia, in qualche modo, le occulta».
Le parole di Ingrao non nominano escort, notti di Arcore e re del bunga bunga. Bisogna pur andare avanti e immaginare qualcos’altro, il paradosso è che ce lo ricorda uno di 96 anni.
La Stampa, 30.03.2011 di Jacopo Iacoboni
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