Qui la locandina

«Da anni analizzo le condizioni di lavoro di milioni di operai invisibili dell’IA in più di venti paesi. Alcuni insegnano agli autovelox a leggere automaticamente le targhe dei veicoli, altri analizzano brevi estratti audio per verificare la corretta interpretazione degli assistenti vocali e altri ancora decidono se un contenuto sui social debba essere raccomandato o filtrato. Tutte funzioni semplici, come leggere una cifra in un’immagine scattata da una telecamera, ascoltare una frase captata da uno smartphone o giudicare se un’immagine su internet è adatta a un certo pubblico, che sono fondamentali per far funzionare app, assistenti vocali, postazioni elettroniche eccetera.

Essere pagati per realizzare microtasks per produrre servizi di IA è sempre più frequente, soprattutto in paesi con tutele lavorative deboli. Le retribuzioni oscillano tra salari orari minimi e cottimo, spesso insufficienti come unica fonte di reddito. Anche se alcune persone riescono a guadagnare fino a 15 euro all’ora nei paesi più ricchi, nel Sud globale si incontrano frequentemente casi di persone pagate qualche centesimo per task. E questa fonte di reddito può scomparire da un giorno all’altro, senza garanzia».

Così Antonio Casilli racconta i risultati delle sue ricerche più recenti in un percorso che, oltre a sfatare, dati alla mano, i miti della fine del lavoro provocata dall’intelligenza artificiale, ha al centro della sua attenzione il ‘lavoro digitale’.

Un termine che descrive un insieme molto ampio di lavori. Ad esempio, il lavoro non retribuito su social media, il lavoro retribuito mediato da piattaforme digitali (sia in presenza che online), i lavori nelle industrie tecnologiche o tradizionali che hanno subito intensi processi di digitalizzazione.

Lo studio del ‘lavoro digitale’ ci mostra una contraddizione fondamentale.

Da un lato, gli algoritmi e le tecnologie digitali modellano un nuovo regime di lavoro caratterizzato da estrazione dei dati, sorveglianza diffusa e controllo rigoroso sui lavoratori, che si traducono nella frammentazione, nell’individualizzazione e nella precarizzazione del lavoro.

D’altra parte, le ricerche sul lavoro digitale ci mostrano una ripresa inaspettata dei conflitti di lavoro. Azioni informali, a volte individuali, ma spesso collettive. Iniziative di lotta guidate dai lavoratori stessi, o avviate da organizzazioni di base, e che, in alcuni casi, hanno visto anche i sindacati tradizionali assumere un ruolo di primo piano.

Alcune iniziative si sono basate su ‘contro-usi’ dei mezzi digitali sul posto di lavoro, ad esempio attraverso la creazione di apposite app, con l’obiettivo esplicito di consentire ai lavoratori di comprendere e riformulare le loro condizioni di lavoro.

Interpretazioni, usi e pratiche che non solo sfuggono alla sorveglianza delle piattaforme, ma consentono anche di stabilire relazioni sociali diverse da quelle definite dal lavoro, minando così l’efficacia del potere delle piattaforme.

Questo dimostra che le piattaforme digitali potrebbero non avere il potere esclusivo di modellare l’era digitale e che i lavoratori, individualmente e collettivamente, possono con la loro azione trasformare radicalmente le traiettorie dello sviluppo tecnologico.

*Antonio Casilli, Institut Polytechnique de Paris, autore di: “Waiting for Robots. The Hired Hands of Automation”, University of Chicago Press, 2025.

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