Le persone che viaggiavano sull’imbarcazione che si è schiantata sulle coste di Cutro sono state definite, come d’altronde altre prima di loro, “migranti clandestini”.
Questo appellativo, che ha in sé già un giudizio assolutorio verso chi li contrasta, ha sostituito nel lessico qualunque altra fattispecie evidentemente molto più nobile come quella di profugo, richiedente asilo, apolide.
Tutti sono divenuti migranti irregolari e quindi, come tali, già sospetti di reato.
Si scopre, poi, che tra le 180 persone che, presumibilmente, erano presenti su quella nave, la gran parte erano afghani, siriani iracheni, pakistani, molte le donne e i bambini, il che conferma la loro natura di profughi.
La stragrande maggior parte di loro, quindi, fuggiva da situazioni di guerra o da persecuzioni.
Definirli, perciò, migranti clandestini è il primo torto che è stato fatto loro.
Si può obiettare che su quelle barche c’è di tutto e non si può sapere a priori quale sia lo status di ciascuno, tuttavia, nel dubbio, li chiamiamo clandestini e così ci mettiamo in pace con la coscienza. Fino a quando, come è accaduto a Cutro, non li abbiamo visti in faccia, da vivi e da morti, e non abbiamo visto negli oggetti che il mare ha riportato gli stessi giocattoli, le stesse tutine, le stesse scarpine dei nostri bambini e i caricabatterie, necessaire, medicine, insomma quello che ognuno di noi si porta quando si mette in viaggio.
Quanto grande è stata l’indignazione per le parole dell’ex prefetto Piantedosi, che stento a definire Ministro della Repubblica, tanto urgente e necessario è porsi questa domanda: come si potrebbe fare diversamente?
La risposta l’abbiamo sotto gli occhi ma nessuno ne parla, meno che mai dalle parti del Governo, ed è che dal marzo 2022 il Consiglio europeo ha deciso di dare attuazione, per la prima volta, a una direttiva europea del 2011 che prevede la Protezione temporanea europea. Questa decisione, tuttavia, vale esclusivamente per i profughi del conflitto in Ucraina e non solo per i cittadini ucraini, ma anche per chi ha ricevuto protezione dallo Stato Ucraino.
Questa decisione ha consentito a oltre 3.266.480 persone (dati Eurostat al dicembre 2022) di uscire dal loro Paese e di essere protetti con dignità e diritti.
La Protezione non è indeterminata, dura un anno e può essere rinnovata, tanto che è stata già rinnovata due volte, e presuppone la volontà di tornare in sicurezza nel proprio Paese a condizioni mutate.
L’ingresso è dato da un primo titolo di soggiorno che consente per tre mesi la libera circolazione nell’intera area Schengen e, in seguito, la scelta del Paese in cui risiedere.
La protezione presuppone assistenza alloggiativa e sanitaria, la possibilità di lavorare e, per i minori, lo stesso accesso all’istruzione dei minori residenti nel Paese di accoglienza.
Perché la stessa protezione non è garantita agli altri?
All’obiezione che l’assistenza all’Ucraina è facilitata dal fatto di essere un Paese confinante, replicherei che tra i 27 Paesi europei e le rappresentanze UE, abbiamo sedi diplomatiche e consolari in tutto il mondo capaci di ricevere richieste di protezione e di evaderle, e se il richiedente non può farlo nel proprio Paese potrebbe avanzare la richiesta in altri Paesi facilmente raggiungibili, restituendo così alle persone la dignità che meritano.
Insieme ai relitti riportati dal mare, abbiamo tutti negli occhi le immagini del ritiro dall’Afghanistan con i corpi appesi agli aerei in volo e la gente che implorava protezione o le immagini del martoriato Kurdistan, la cui popolazione è esposta a ogni sorta di persecuzione dopo il ritiro statunitense.
Estendere la protezione temporanea si può e si deve. Solo un’attitudine razzista può giustificare questa difformità di comportamento.
Se lo faremo, daremo speranza anche alle nostre future generazioni che, altrimenti, riceveranno indietro tutto l’odio accumulato da queste plateali ingiustizie.
Per ciò che riguarda poi l’immigrazione così detta economica, la principale domanda da porsi è: a che condizione è possibile l’ingresso legale in Europa?
A questa domanda una risposta non c’è; allora, prima di affibbiare ai poveri l’etichetta dell’illegalità, dovremmo essere noi per primi impegnati a costruire percorsi legali tutt’ora inesistenti.
La protezione e l’asilo hanno accompagnato pressoché tutta la storia umana, codificati e praticati dagli antichi imperi e dalle diverse forme istituzionali che dal Medioevo sono arrivate fino a noi, proseguite con la “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948 e con le diverse Convenzioni, a cominciare da quella di Ginevra del 1951. Tuttavia, esistono evidenti lacune sia nel diritto internazionale che in quello europeo e in quelli nazionali, tali da rendere ancora possibili comportamenti statuali e governativi che stridono con il rispetto dei diritti umani.
Insieme al diritto è il lessico che deve cambiare cominciando a mettere al bando termini come clandestino e illegale, da usare solo per persone che hanno ricevuto condanne o sono in attesa di giudizio e non associati al movimento delle persone; quest’ultimo, dovrebbe essere accostato a ben altri concetti come ad esempio quello di libertà.
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