Il prossimo 4 luglio circa quarantotto milioni di elettori britannici saranno chiamati a esprimersi sulla composizione della Camera dei Comuni per la prossima legislatura. Dopo l’annuncio dell’indizione di nuove elezioni a fine maggio, la già perenne campagna elettorale in cui sono impegnati Conservatori e Laburisti, i due partiti più grandi per numero di deputati, è entrata nella sua fase più concitata, con un’ipertrofica presenza di politici di rango nazionale nei programmi televisivi e sui canali sociali, dediti a lanciare promesse per convincere determinate categorie sociali a votare per loro. Al momento della composizione di questo articolo, ai primi di giugno, risulta invece assente l’analisi della situazione complessiva del Paese e dei fattori sistemici di crisi che perdurano da tempo senza esser affrontati. Si tratta di elementi che coinvolgono tanto la dimensione costituzionale quanto l’economia e l’insieme articolato di relazioni sociali che formano la vita quotidiana di decine di milioni di persone; tuttavia, sembra esserci un deliberato desiderio di evitare in ogni modo di prendere coscienza della crisi e di affrontarla. In parte perché la classe dirigente britannica non differisce dai propri omologhi nei paesi della Ue nel perseguimento di obiettivi di corto respiro in funzione elettorale, in parte perché i due partiti principali nella loro attuale composizione perseguono il mantenimento dello status quo.
Le frizioni con le nazioni del Regno
Sotto il profilo istituzionale sono latenti vari punti di frizione sia tra poteri dello Stato a livello nazionale sia tra le entità regionali autonome che compongono il Paese. Gli attriti tra questi corpi dello Stato sono emersi nel corso degli ultimi anni, soprattutto nel momento in cui si è reso necessario affrontare le pulsioni indipendentiste che albergano in parti del Paese e le conseguenze dell’uscita del Paese dell’Unione europea. Un primo elemento di controversia ha riguardato il diritto all’autodeterminazione delle nazioni costituenti il Regno e i limiti che a essa lo Stato voglia e possa porre nel rispetto della costituzione non scritta vigente nel Paese. La questione era già emersa alla fine del secolo scorso ed era stata affrontata con esiti positivi tramite la devoluzione di determinate prerogative dello Stato centrale verso nuove strutture di autogoverno create ad hoc in Galles, in Irlanda del Nord e in Scozia. Pur con significative differenze storiche e culturali tra queste tre entità regionali, la concessione di nuovi poteri alle amministrazioni regionali non ha annullato o sopito l’afflato autonomista presente nelle rispettive società, che tuttavia è stato nel tempo gestito con una serie di ulteriori riforme in senso autonomista e finanche con l’indizione di un referendum sull’indipendenza della Scozia nel 2014. Questo delicato equilibrio è saltato successivamente alla consultazione referendaria sulla cosiddetta Brexit che aveva visto gli elettori irlandesi e scozzesi optare in maggioranza per il mantenimento dell’adesione alla Ue. Innanzitutto, è emerso il malcontento di fronte alla prospettiva di un abbandono del progetto comune europeo percepita come un’imposizione di una scelta degli elettorati inglese e gallesi, in secondo luogo, nel momento in cui si è trattato di avviare negoziati con Bruxelles si è generato uno scontro tra l’Esecutivo e le amministrazioni regionali, in particolare quella scozzese, in quanto queste avrebbero voluto avere voce in capitolo per evitare un esito delle trattative sfavorevole agli interessi commerciali e strategici dei propri territori. A fronte del tentativo del Governo centrale di estromettere non solo le autonomie regionali ma anche il Parlamento a Westminster dal processo negoziale, i nazionalisti scozzesi hanno tentato di capitalizzare lo scontro per proporre un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia entro il 2021, scadenza poi posticipata al 2023, forti anche di sondaggi che mostravano il sostegno all’indipendenza in crescita. A differenza di quanto accaduto in Catalogna nel 2017, l’Esecutivo guidato da Nicola Sturgeon non ha forzato la mano indicendo unilateralmente una consultazione popolare, ma ha preferito contenere il confronto nell’alveo istituzionale; dopo il rifiuto del Governo a Londra di concedere nuovamente il voto sul tema dell’indipendenza, il Governo scozzese ha deferito la questione alla magistratura perché accertasse il diritto del Parlamento regionale all’indizione della consultazione referendaria. Nel novembre 2022 la Corte Suprema del Regno Unito ha emesso un giudizio unanime che l’indizione di un referendum sull’indipendenza della Scozia esulasse dalle competenze previste dalla devoluzione, adducendo che il tema oggetto della consultazione avrebbe riguardato l’assetto dell’intero Regno Unito; alla sentenza dell’alta corte britannica si sono aggiunti scandali giudiziari che hanno coinvolto le alte sfere del partito nazionalista scozzese e che ne hanno fatto perdere il consenso tra la popolazione. Tuttavia, i sondaggi continuano a mostrare una società divisa a metà sul tema indipendentista ed è probabile che i temi della sovranità e dell’autodeterminazione delle nazioni costituenti il Regno Unito riemergano nuovamente nella prossima legislatura dal momento che il Partito laburista, favorito nei sondaggi per le elezioni generali del prossimo luglio, adotta nei confronti del nazionalismo scozzese una posizione analoga a quella dei Conservatori, che governano a Westminster dal 2010.
Pur con motivazioni e modalità differenti, le relazioni con il Governo centrale sono tutt’altro che prive di tensioni anche nell’Irlanda del Nord; gli accordi del Venerdì santo siglati nel 1998 stabilirono un delicato equilibrio tra comunità etniche, tra i partiti che ne rappresentano le aspirazioni e tra questi e le istituzioni che hanno sede a Londra. Con la decisione presa a Westminster di abbandonare la Ue in toto tale equilibrio è stato implicitamente messo in discussione, in quanto la completa uscita dallo spazio economico e dall’unione doganale avrebbe reso necessario istituire una barriera doganale tra il Regno Unito e la Repubblica d’Irlanda, unico stato membro dell’Ue a condividervi una frontiera terrestre. L’erezione di un confine “duro” sul suolo irlandese avrebbe potuto scontentare l’ala repubblicana dell’assemblea regionale di Belfast oltre ad avere effetti negativi sull’economia locale e sul tessuto sociale delle due “Irlande”, ormai integrate tra loro; per contro, l’ipotesi di una barriera doganale nel mare tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord avrebbe minato il concetto di unità nazionale caro ai cittadini unionisti e ai partiti che li rappresentano, in particolare il Democratic Unionist Party (DUP). Il protocollo siglato nell’ambito degli accordi tra Governo britannico e Commissione Europea nel 2021 ha adottato la seconda soluzione con disappunto del DUP i cui deputati regionali hanno dato vita ad una sorta di Aventino dopo le elezioni regionali del maggio 2022; tali consultazioni hanno consacrato il partito nazionalista irlandese Sinn Féin come il primo per numero di deputati regionali, spostando l’asse dell’assemblea nordirlandese su posizioni più europeiste. La situazione di stallo nella formazione dell’Esecutivo regionale si è solo sbloccata nel gennaio 2024, a seguito di interventi legislativi della Camera dei Comuni e del Governo di Westminster che hanno unilateralmente modificato alcuni dei termini concordati con l’Ue, senza il consenso dei partiti nordirlandesi non unionisti, anche se essi rappresentano oltre la metà dei seggi nell’assemblea regionale. In aggiunta, con un atto di partigianeria manifesta il Governo centrale ha stipulato un’intesa con il DUP per garantire un rilassamento dei controlli sui flussi di beni tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, resa pubblica solo all’inizio di questo anno. Come nel caso scozzese, la crisi politica e istituzionale sembra superata, ma è inevitabile che i cambiamenti demografici in corso nella parte settentrionale dell’isola e il continuo processo di integrazione economica e sociale sui due lati del confine irlandese ripropongono in un futuro prossimo la questione dell’autodeterminazione delle istituzioni nordirlandesi e dei cittadini che esse rappresentano. Anche su questo fronte, i due principali partiti del Regno hanno posizioni che oscillano tra l’ultranazionalismo dei Conservatori e l’ambiguità dei Laburisti, il cui attuale segretario è passato dal proporre un referendum per rientrare nella Ue nel 2019 al corteggiare la parte di elettorato euroscettico che cinque anni fa aveva consegnato alcuni collegi storicamente di sinistra ai Conservatori.
L’ombra del governismo
Parallelamente agli attriti tra il livello centrale e quello regionale elencati precedentemente, in tempi recenti sono emerse controversie in merito all’equilibrio tra i tre poteri fondamentali dello Stato e all’eventuale primazia dell’Esecutivo sulle altre istituzione, in virtù del fatto che esso sarebbe il luogo supremo dell’esercizio della sovranità popolare.
Dopo l’esito del referendum sulla permanenza nella Ue del 23 giugno 2016 ci fu un cambio al vertice del Governo centrale dovuto alla necessità di un ribilanciamento delle influenze nel Partito conservatore, la cui segretaria era anche a capo dell’Esecutivo. Per chiarezza, la prassi istituzionale del Regno Unito prevede che il Primo ministro sia espressione del partito maggioritario nella figura del suo segretario; conseguentemente cinque dei capi di Governo avvicendatisi negli ultimi diciassette anni sono stati espressione dei congressi e delle primarie di partito anziché dell’esito di elezioni del Primo ministro in forma diretta, o surrettiziamente diretta. La dirigenza conservatrice e l’Esecutivo entrati in carica nell’estate del 2016 manifestarono sin dal principio l’intenzione di invocare le proprie prerogative costituzionali per procedere alla notifica formale dell’uscita dalla Ue e avviare i negoziati con Bruxelles, senza che fosse il Parlamento a fissare tempi e termini con un atto legislativo, esautorando l’unica camera elettiva da un processo epocale per il Paese. A fronte di osservazioni sulla legalità delle intenzioni del Governo espresse da alcuni giuristi e intellettuali, un gruppo di cittadini presentò un esposto presso l’Alta Corte di Giustizia dell’Inghilterra e del Galles perché fossero ristabiliti i poteri e l’autonomia del Parlamento; a seguito di un giudizio in favore dei ricorrenti il ministro competente fece ricorso alla Corte Suprema del Regno Unito che a sua volta riaffermò la sovranità parlamentare sulla questione delle relazioni con la Ue. Dopo il primo verdetto il Daily Mail, il Sun, il Daily Telegraph e il Daily Express, quattro quotidiani in formato tabloid a grande diffusione e di proprietà di quelli che possono a buona ragione essere definiti oligarchi, pubblicarono sulle prime pagine titoli del tenore di “Nemici del popolo” a fianco delle immagini dei tre giudici che avevano emesso la sentenza. Il tono adottato a suo tempo da queste testate rifletteva bene un approccio eversivo che accomuna una parte dell’ala conservatrice della società britannica ai propri omologhi di destra e di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti, e non fu un episodio isolato. Nella primavera del 2019 il processo negoziale per l’uscita dalla UE era in stallo a seguito del rifiuto della Camera dei Comuni di approvare i termini negoziali proposti dall’Esecutivo; incapace di superare l’impasse la Prima ministra Theresa May si dimise aprendo un processo di selezione del nuovo leader dei Conservatori; Boris Johnson, politico opportunista e populista, ne emerse vincitore con una linea dura sul futuro rapporto con l’Ue atta a catalizzare intorno alla figura del politico londinese il sostegno degli euroscettici dentro e fuori il partito. A fine estate dello stesso anno l’Esecutivo convinse la monarca, Elisabetta II, a concedere la proroga delle attività parlamentari per un periodo inusitatamente lungo; la mossa fu un tentativo di aggirare un’eventuale opposizione parlamentare alla proposta di trattato con la Ue e alla propria visione di un Regno Unito “globale”, svincolato da ogni possibile restrizione dettata dalla partecipazione del Paese, caldeggiata da Johnson; la proroga avrebbe consentito alla compagine governativa di procedere con alcune decisioni sul tema della Brexit in autonomia, senza lo scrutinio parlamentare. Anche questo caso fu l’iniziativa di alcuni cittadini e di alcuni membri dell’assemblea scozzese di rivolgersi alla magistratura a fermare il colpo di mano di Johnson; la proroga fu sospesa a seguito di due sentenze, una della Corte di Sessione, che è la più alta istanza giudiziaria civile in Scozia, e un’altra della Corte Suprema del Regno Unito. In questa circostanza tanto i politici quanto la stampa di destra mantennero un profilo più defilato senza indulgere in toni eversivi; tuttavia era ed è rimasto latente il disdegno per l’indipendenza dei poteri dello Stato e per una concezione dell’assetto istituzionale che non ponga il Governo al di sopra di tutto. Come si sarebbe potuto vedere successivamente con l’iter di un disegno di legge che avrebbe autorizzato la deportazione dei richiedenti asilo.
Il Rwanda e la questione migratoria
La questione dell’immigrazione e della gestione dei suoi movimenti è da lungo tempo argomento della propaganda elettorale e del rumore che si spaccia per dibattito politico; essa è stata a più riprese uno dei cavalli di battaglia dei Conservatori che in varie campagne elettorali hanno promesso di ridurre considerevolmente i flussi migratori netti. A fronte della propria incapacità di mantenere le proprie promesse elettorali e messi a confronto con gli effetti di un’uscita dal Regolamento di Dublino una volta implementata la Brexit, i segretari di Stato agli Affari interni che si sono avvicendati nella presente legislatura hanno preferito giocare la carta propagandistica contro gli immigrati e più nello specifico contro i richiedenti asilo anziché negoziare con la propria controparte europea per rivedere gli accordi in vigore e invece di potenziare gli investimenti nell’agenzia che si occupa di frontiere e di immigrazione. Di atto propagandistico in atto propagandistico la campagna ostile è sfociata nella proposta di deportare verso un Paese terzo, individuato nel Ruanda, parte dei richiedenti asilo in attesa di una risoluzione della propria domanda di asilo; nonostante l’opposizione nelle due camere del Parlamento e le critiche da parte di affermati avvocati e giuristi che si occupano di diritti umani, i Conservatori hanno deciso di essere inamovibili e di ripresentare nel dibattito parlamentare la proposta, introducendo a ogni lettura minime modifiche pur mantenendone lo spirito. È dovuta nuovamente intervenire la magistratura nei suoi differenti livelli di giudizio, su iniziativa di organizzazioni che si occupano della tutela dei diritti umani e del diritto all’asilo; nonostante ripetute sentenze che minano l’essenza della proposta governativa, il disegno di legge è stato nuovamente presentato alle camere, dove è passato in ultima istanza anche in conseguenza del fatto che la Camera dei Lord non ha il potere di bloccare indefinitamente gli atti legislativi approvati dalla Camera dei Comuni. Come nel 2017, i Conservatori e i mezzi di informazione a loro prossimi hanno mostrato la propria insofferenza reazionaria verso la presenza di controlli esterni all’operato governativo e del bilanciamento dei poteri; la destra non fa mistero di desiderare un ridimensionamento del campo di azione della Corte Suprema, la cui istituzione era già osteggiata dai deputati conservatori durante l’iter legislativo che ne avrebbe decretato la creazione nel 2005; ogni sentenza che ostacoli i progetti del partito di governo diviene quindi un pretesto propagandistico per giustificare questo progetto. Tuttavia la strategia comunicativa della destra non ha preso di mira i magistrati con attacchi ad personam, gli strali sono stati invece rivolti verso la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in vigore dal 1950, alla base delle loro sentenze sfavorevoli al progetto del Governo. Si tratta di una strategia non nuova, infatti non essendo più possibile tirare in ballo l’Unione europea come capro espiatorio per i mali veri o presunti del Regno Unito, i falchi del partito di maggioranza e i giornalisti a loro compiacenti hanno iniziato già da alcuni anni una campagna denigratoria e dai tratti xenofobi nei confronti del Consiglio d’Europa, della succitata convenzione e della Corte Europea dei Diritti Umani che ha il compito di farla applicare. Rielaborando i topos e il linguaggio dell’euroscetticismo che avevano portato alla Brexit, la destra ha iniziato a porre al centro della propria comunicazione l’uscita dalla convenzione del 1950 e l’abolizione della legislazione nazionale che ne applica i principi; il tutto è presentato come un progetto di buon senso e patriottico, dal momento che aspira al recupero di non meglio definiti valori umani britannici, “nativi”, in sostituzione di quelli imposti da fuori e che, in quanto esterni, limiterebbero la sovranità del popolo britannico.
Va evidenziato che l’impostazione che traspare negli episodi riassunti nei paragrafi precedenti non si limita alla sfera costituzionale; essa si accompagna una visione complessiva della società in cui il diritto alla libera espressione del dissenso e della critica verso il potere costituito siano limitati e soggetti all’arbitrio del potere stesso. Nell’aprile del 2022 e in quello del 2023, ad esempio, sono state varate due leggi che allargano i poteri delle forze di polizia nella gestione della manifestazioni pubbliche, consentendo loro di vietare o bloccare cortei e presidi senza che vi siano evidenze di un pericolo per l’ordine pubblico, la decisione può di fatto esser arbitraria e basata sulla supposizione che le manifestazioni possano causare fastidio a parte della cittadinanza.
Un Labour a tinte spente
Tornando alla considerazione iniziale, l’approssimarsi della scadenza elettorale di luglio non lascia presagire particolari cambi di rotta sulle questioni affrontate in questo articolo come anche su temi quali la proprietà dei beni comuni, la democrazia nel mondo del lavoro, le politiche economiche del Governo che sono percepiti come importanti da ampie fette della popolazione. Sebbene una riaffermazione dei Conservatori come forza maggioritaria sia improbabile, un Esecutivo supportato da una maggioranza parlamentare laburista lascerebbe molte di queste questioni intoccate. Candidatosi alla guida del Partito laburista nel 2020 con una piattaforma che ricalcava i programmi elettorali progressisti del 2017 e del 2019, il potenziale futuro Primo ministro Keir Starmer ha nel frattempo abbandonato molte delle promesse fatte, allineandosi via via ad alcune delle politiche del proprio principale avversario. Pur avendo prestato opposizione in Parlamento alle leggi menzionate precedentemente, la dirigenza laburista ha mostrato poca determinazione nel promettere la cancellazione di queste come di altre leggi invise al proprio elettorato; sia da esempio che egli ha tenuto più volte a ribadire che manterrà una linea dura sull’immigrazione, che non bloccherà i voli già previsti verso il Ruanda pur volendo cancellare la legge che ne ha consentito l’introduzione per sostituirla con un fumoso piano di contrasto all’immigrazione irregolare. Di che natura possa essere questo piano è lasciato intendere dal fatto che il partito ha aperto le porte a transfughi conservatori, inclusa la deputata del collegio di Dover ed ex sottosegretaria sotto il secondo Governo Johnson nota per le sue posizioni estreme in materia di immigrazione. La novità delle prossime elezioni sarà la probabile dall’elezione di una piccola pattuglia di deputati indipendenti di sinistra e l’avanzamento dei Verdi che potrebbero portare nelle istituzioni una voce alternativa al centrismo di Starmer e che offrirebbero una sponda istituzionale alle istanze delle piazze e della società civile. Questa novità fa parte di un lento sgretolamento del duopolio imposto con il modello maggioritario già avviato un quindicennio fa e che si è palesato in maniera più lampante nelle elezioni regionali e amministrative degli ultimi anni, quando la perdita dei consensi per i Conservatori è stata solo in parte capitalizzata da un Partito laburista percepito sempre più come l’altra faccia della medaglia dell’establishment. Anche questo è un elemento di crisi cui si continua a non voler mettere mano ma che dovrà esser inevitabilmente affrontato, auspicabilmente assecondando le istanze della società anziché arroccarsi sullo status quo.
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