Articolo pubblicato su “Affari Internazionali” del 27.10.2023.
Come ha detto il Segretario Generale delle Nazioni Unite, scandalizzando molti amici di Israele, il feroce massacro del 7 ottobre non si può spiegare (pur condannandolo senza riserve) se non si tiene conto della soffocante occupazione che dura da 56 anni. Hamas ha infatti reagito alle continue vessazioni della popolazione palestinese, alle prepotenze dei coloni sicuri dell’impunità, alla annessione strisciante della Cisgiordania, all’assedio. Ma, forse più importante, ha a lungo pianificato questa clamorosa provocazione per precipitare una crisi in modo da sabotare gli “accordi di Abramo” con cui la diplomazia americana stava per riuscire ad archiviare la questione palestinese. Sta pagando un prezzo altissimo, anzi lo fa pagare alla popolazione, ma ha raggiunto l’obiettivo.
Aveva certamente messo in conto la feroce rappresaglia israeliana, inevitabile se si considera che la strage è stata più sanguinosa di quella dell’11 settembre 2001 (in proporzione: 15-20 volte). Ma l’intenzione annunciata dal Governo israeliano è non solo quella di punire e di dissuadere da futuri attacchi del genere, bensì di eliminare la minaccia proveniente da Gaza una volta per tutte, anche a costo di sacrificare la vita di molti suoi soldati. In ciò siamo di fronte ad un preoccupante salto di qualità.
Come già all’indomani dell’attacco di Hamas, rimane aperto un triplice interrogativo sui piani del governo Netanyahu: Cosa intende fare di Gaza (o della metà settentrionale della Striscia) e della sua popolazione al termine della spedizione punitiva? È davvero disposto a rischiare una guerra su più fronti, eventualmente coinvolgendo l’Iran? Come pensa di conciliare il negoziato sulla liberazione degli ostaggi con i crudeli bombardamenti su Gaza, o addirittura con l’annunciata invasione?
Uno sviluppo recente è l’azione di freno esercitata dal presidente statunitense, che inizialmente, assicurando incondizionata solidarietà al paese attaccato, sembrava avallare qualsiasi vendetta israeliana. Molto chiara (ma non sappiamo quanto ascoltata) è stata la sua raccomandazione di non ripetere gli errori fatti dagli USA dopo l’11 settembre.
Ma Joe Biden si è premurato di chiarire che è solo un consiglio, trattandosi di una decisione che spetta esclusivamente al Governo israeliano (quasi che il rischio di un conflitto allargato non abbia conseguenze per gli Stati Uniti, per i rapporti fra paesi NATO e Sud del mondo, e per l’intera economia mondiale). L’indisponibilità dei presidenti staatunitensi a esercitare pressioni su Israele è un dogma sempre rispettato in passato, e garantito da un consenso “bipartisan” in Congresso.
Resta solo da sperare che dietro questa facciata di esagerato rispetto per la libertà di decisione di Israele, anche contro i suoi interessi vitali e quelli dell’Occidente, Washington prospetti tangibili disincentivi a iniziative rischiose che gli Stati Uniti non possono approvare.
Per il momento vediamo solo una richiesta americana, accettata da Netanyahu, di ritardare l’operazione di terra, motivata con l’esigenza di far affluire sistemi difensivi da oltre-Atlantico e con quella di risolvere prima il problema degli ostaggi. Biden ha smentito di aver chiesto di rinunciare all’invasione, e a maggior ragione non chiede di fermare i bombardamenti (il suo portavoce Kirby si è pronunciato contro un cessate-il-fuoco, in quanto avvantaggerebbe Hamas), né la pulizia etnica della zona settentrionale, né la drastica limitazione dei rifornimenti di beni essenziali per la sopravvivenza.
È quello che invece auspica l’Unione Europea, ma a livello puramente declaratorio, avendo da sempre una influenza sulle decisioni di Israele pari a zero. A maggior ragione dal momento che si schiera apertamente dalla parte di Israele, che “ha il diritto di difendersi” (nel senso di “vendicarsi”). Naturalmente auspica che si rispetti il diritto internazionale, ma non prospetta alcuna penalizzazione per la continuazione della carneficina e dell’assedio, che ne sono massicce e continue violazioni.
L’idea di risolvere il dramma degli ostaggi, grazie alla mediazione del Qatar, per poi procedere all’invasione non è realistica. Appare ovvio che Hamas ha interesse a centellinare la loro liberazione per ottenere in cambio un allentamento della morsa al valico di Rafah e l’arresto dei bombardamenti. Una volta liberati gli americani e tutti quelli con doppio passaporto, il negoziato sugli altri si farà più duro e verrà condotto senza fretta. La trattativa sui militari israeliani verrà per ultima e presumibilmente comporterà la liberazione di gran parte dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.
È evidente che questi tempi non sono conciliabili con quelli di un esercito in fase di mobilitazione generale da settimane. Di qui il pericolo che il Primo ministro si lasci convincere dai capi militari che non si possono tenere i riservisti mobilitati per mesi, che smobilitare equivarrebbe a dichiararsi sconfitti e che pertanto non ci sono alternative a una fuga in avanti. Nell’agosto 1914 la guerra che era nell’aria scoppiò perché la mobilitazione dell’esercito russo fu dai tedeschi considerata praticamente irreversibile.
Se gli europei vogliono avere un qualsiasi ruolo positivo, dovrebbero insistere con l’alleato americano perché faccia uso di tutta la sua autorevolezza per impedire a Israele di scegliere una via avventurista. Ma anche per far cessare i bombardamenti e l’assedio. Se non per ragioni umanitarie (che dovrebbero essere in primo piano ma a quanto pare contano meno del diritto di “farsi giustizia”), per un nostro interesse politico di fondo: attenuare quella deriva verso una ostilità di tutto il Sud del mondo contro l’Occidente che è stata messa in evidenza dal recente vertice dei BRICS.
La corsa di paesi extra-europei più o meno democratici ad aderire a questo eterogeneo raggruppamento, guidato da Pechino e unito solo dalla insofferenza verso la hybris degli USA e dei suoi alleati europei (con l’effetto di riabilitare Putin!) è un campanello d’allarme che non dovremmo ignorare.
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