La storia plurimillenaria dell’Iran va esaminata con il respiro lungo che distingue i grandi imperi. Gli iraniani hanno vissuto gli ultimi 70 anni per metà sotto il regime dello Scià e per altri 35 anni sotto il regime degli ayatollah. Siamo a una svolta? Non subito, manca un’alternativa strutturata in grado di sfidare la teocrazia. La morte imprevista del presidente Raisi non segna la fine dell’attuale potere politico e finanziario, rimasto saldo nelle mani dei Guardiani della Rivoluzione e delle Waqf, le fondazioni religiose detentrici di ingenti ricchezze. Ma l’economia stressata dalle sanzioni e dall’inflazione soffre, al punto che ormai le transazioni commerciali si fanno negli Emirati o nel Qatar. Sbarcando a Dubai, fa impressione vedere quante società e banche iraniane hanno aperto i loro uffici nella “Svizzera” del Golfo. Tra i 56 milioni di elettori iraniani chiamati al voto il prossimo 28 giugno la voglia di cambiamento ribolle: l’affluenza alle urne è prevista minore che alle presidenziali del 2021, quando votò per Raisi solo il 48%; mentre alle precedenti elezioni il moderato Rouhani aveva raggiunto il 70% dei voti.
Chi arriva oggi a Teheran sente odore di stantio nelle stanze del potere. Solo viaggiando nel Paese s’incontra gente, tanta gente, che proclama “Donna Vita Libertà” e aspira ai costumi occidentali. Quando però una potenza straniera offende la dignità nazionale, la popolazione si trincera in un (comprensibile) patriottismo. Come a Cuba. Eppure gli Stati Uniti non vogliono capire. I governi statunitensi si sono abituati a etichettare con spirito manicheo i “buoni” e i “cattivi”, inventando il cosiddetto “Asse del Male” e decidendo che a capo dell’Asse troneggia l’Iran. Perciò Teheran ha reagito con un più concreto “Asse della Resistenza” che va dall’Afghanistan fino al Libano, formato da combattivi movimenti sciiti (con l’aggiunta dei sunniti di Hamas) che stanno dando del filo da torcere agli USA e a Israele.
Il miglior successo diplomatico nell’ultimo decennio è stato l’accordo che va sotto il nome di JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action): un acronimo criptico per chiunque salvo che per gli esperti. Sottoscritto nel 2015 dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (più Germania e UE), avrebbe limitato la produzione di uranio arricchito in Iran ai soli usi pacifici, sotto il controllo dell’AIEA (l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica). Era costato lunghi anni di fatiche diplomatiche, giocate su uno scacchiere dove la diplomazia iraniana era maestra e dove una delle poche “carte” disponibili era la fatwa lanciata dall’ayatollah Khomeini contro le armi di distruzione di massa. Ebbene, bastò un gesto demenziale del nuovo presidente statunitense, Trump, per distruggere anni di lavoro diplomatico voluto da Obama e gestito pazientemente da John Kerry. Trump, senza neppure preavvertire gli altri firmatari, stracciò a nome degli Stati Uniti l’accordo multilaterale, quasi fosse un chiffon de papier. Oggi l’Iran è a un passo dal produrre un paio di bombe atomiche; e chi a novembre voterà Trump non ne terrà conto, evidentemente.
La teocrazia iraniana, per occhiuta e fanatica che sia, non ha mai osato abolire il Capodanno zoroastriano, il Nowruz, festeggiato il 20/21 marzo quale inizio dell’anno nuovo. Nessuno perseguita in Iran le minoranze ebree, armene, zoroastriane, yazide, ismailite, bahai, sufi o parsi. Nel Parlamento cinque seggi sono riservati ai non musulmani: due per gli armeni e uno ciascuno per ebrei, zoroastriani e assiri. Nelle grandi città sono aperte 23 sinagoghe, 5 scuole religiose e 4 ospedali gestiti da ebrei. Sia Khatami che Ahmadinejad hanno fatto visita, da presidenti, a una sinagoga di Teheran. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 Khatami inviò condoglianze ufficiali a Bush, per significare che il terrorismo di al-Qaeda era una minaccia comune a entrambi.
Nel Parlamento il seggio riservato a un deputato ebreo è occupato oggi dall’onorevole Ciamak Morsathegh, che dichiara: “Noi ebrei non siamo mai stati in pericolo qui. L’antisemitismo è un fenomeno occidentale”. Quando Netanyahu offrì soldi per indurre gli ebrei a lasciare l’Iran, non tutti abboccarono; diecimila rimasero e risposero così: “Noi siamo fieri della nostra nazionalità iraniana. Nessuna somma di denaro può incoraggiarci a partire. La nostra nazionalità non è in vendita”. È curioso che mentre la destra israeliana spinge la diaspora a venire a occupare terre palestinesi – e in mezzo mondo risorge la piaga dell’antisemitismo – è proprio in Iran, strenuo avversario d’Israele, che l’antisionismo non sfocia mai nell’antisemitismo. Anche nei momenti di peggior scontro tra le due potenze mediorientali, come ora, non un solo ebreo iraniano è stato molestato. Paradossalmente, si potrebbe argomentare che l’Iran è il Paese più sicuro al mondo per un israelita.
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