Interventi

E’ in libreria da pochi giorni – e acquistabile on line presso Ediesse –  il più recente libro della collana sessismoerazzismo, Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia, di Katiuscia Carnà e Sara Rossetti, con un reportage fotografico di Alice Valente Visco e la prefazione di Renata Pepicelli (Ediesse, euro 14 – qui la scheda del libro).
Kotha, letteralmente «racconto » e/o «storia», vuole essere un libro di storie e racconti di donne bangladesi immigrate a Roma con le quali le autrici, per storie personali e motivi di ricerca, hanno avuto l’opportunità di instaurare un forte legame di fiducia e amicizia, che ha consentito una conoscenza reciproca, una condivisione di emozioni e sentimenti, una riflessione comune nel segno dell’interculturalità. “Ricercatrici” e “ricercate”, come scrive Renata Pepicelli, “superano tutti i confini materiali, simbolici, linguistici, emotivi per raccontare una realtà poco conosciuta, quella delle donne bangladesi che vivono in Italia e delle loro figlie nate o cresciute nella città di Roma”. Le autrici infatti, insegnanti nei corsi di lingua italiana per migranti e/o mediatrici linguistico-culturali per le lingue del Subcontinente indiano, sposate con uomini musulmani provenienti dal Bangladesh e dal Bengala occidentale, hanno avuto dei rapporti più facili e condivisi con le donne bangladesi, che con loro si sono aperte sentendosi a proprio agio. Vhabi (moglie del fratello maggiore), Apu (sorella) erano gli appellativi con cui venivano chiamate.
Una quarantina di interviste – o meglio di dialoghi – a  donne musulmane, indū e cristiane, casalinghe e imprenditrici, madri e giovani nuove italiane, percorrono tutto il libro, frammenti di esperienze, giudizi, opinioni sui temi che il libro affronta: il legame con la città, il sentirsi o meno “a casa”, la percezione del razzismo, il rapporto con la religione, con la lingua madre, con il proprio Paese d’origine, la sua storia, la sua attualità.
La comunità bangladese è la terza collettività non comunitaria nel Lazio (35.048), in costante crescita dagli anni 80/90, in particolare perché è cresciuta la componente femminile (oggi il 30%) rispetto ad una migrazione inizialmente prevalentemente maschile. Donne che sono venute in Italia per ricongiungimento familiare o matrimoni “combinati” con uomini già residenti in Italia, e giovani donne nate e/o cresciute qui “che non sono né migranti né straniere, malgrado i loro documenti” che si sentono “romane italiane bangladesi”.
Il teatro in cui il libro si svolge è Roma, una città in continua trasformazione, la capitale del Sacro che mostra un volto nuovo, rinnovato, multietnico e multireligioso, ma al contempo percorsa da contraddizioni e conflitti. Sullo sfondo il Bangladesh e la diaspora, la storia, l’attualità. Il libro ci parla di entrambi questi luoghi, Roma e il Bangladesh, così diversi ma così compresenti nella comunità bangladese immigrata.
Una Roma da sempre meta storica di migrazioni, interne ai confini nazionali e provenienti dall’esterno, fino ad essere la città con la maggiore concentrazione di cittadini migranti (rumeni, filippini, bangladesi, cinesi…). La comunità bangladese a Roma si concentra nei quartieri dell’Esquilino, Torpignattara (denominata Banglatown), Centocelle, Pigneto. Ma, sostengono le autrici, “è difficile parlare dei quartieri periferici romani come delle banlieue; in queste aeree infatti i cittadini non vivono le stesse condizioni sociali delle comunità ghettizzate in Francia. I quartieri periferici di Roma, anche quelli più multietnici, è erroneo associarli ad aree-ghetto, ma sono in realtà zone abitate da cittadini italiani e no, dove lo spazio diventa luogo di ‘incontro-scontro’ tra comunità culturali differenti. Se i quartieri francesi isolano ed incrementano disagi sociali, quasi sempre incolmabili, ai margini dei centri urbani, a Roma invece si può parlare di quartieri ‘multietnici’ che in posizioni urbane semiperiferiche, pur con le loro criticità, contraddizioni e lacerazioni, sono al contempo ricchi di stimoli e di un tessuto associazionistico che in molte aree va a colmare i gap amministrativi e burocratici” (p.46).
“Farsi una passeggiata in questi quartieri significa essere catapultati in una nuova Roma, multietnica, dai sapori molteplici e dalle fattezze di una metropoli, dove odori di cucine, suoni di musiche orientali, colori vivaci e brillanti delle stoffe presentano uno scenario del tutto nuovo. L’opportunità che ci offre la multietnicità è quella di poter conoscere altre culture e tradizioni anche semplicemente attraverso la gastronomia, i tessuti, i suoni, i volti” (p.42).
La comunità bangladese è ben visibile in tutta la città attraverso le sue attività imprenditoriali: phone center e ristoranti, frutterie e mini market, negozi di abbigliamento; attraverso una realtà multireligiosa situata prevalentemente nelle periferie: tempietti indū, sale di preghiera islamiche, magari situati in ex garage o in ex negozi, o in luoghi più adatti, comunque definite dalle comunità musulmane ‘moschee’, segni di “una progressiva visibilizzazione dell’islam nello spazio pubblico” (p.56).
Se questa è Roma, sullo sfondo, abbiamo detto, c’è il Bangladesh, la sua storia, la sua attualità, cui nel libro sono dedicati due capitoli: Il Bangladesh: l’orgoglio di un popolo, che ha conquistato la sua indipendenza dal Pakistan, che si è riappropriato della sua lingua e delle sue tradizioni, ma anche il Bangladesh, delle repressioni e delle torture, della corruzione e della politica familista, ma anche luogo di sfruttamento da parte dell’Occidente, di miseria e povertà, di emigrazione. La diaspora: il Bangladesh è uno dei Paesi con il più alto tasso di emigrazione al mondo.
Il titolo dell’altro capitolo è Il Bangladesh e le religioni. Il Bangladesh è uno degli Stati islamici più numerosi – ma anche  le altre minoranze religiose hanno il diritto di professare la propria fede -. “L’Islam bangladese, [a differenza di un Islam pakistano più ortodosso], è sempre stato sincretico. L’Islam bangladese ha avuto molti scambi con le altre religioni locali, innanzitutto l’induismo. Non è un Islam ortodosso, è molto spurio, sia nelle pratiche che nella sua ideologia. In questo senso è quanto di più lontano possa esserci dall’integralismo che arma i terroristi” (qui le autrici citano Andrea Priori in una intervista a Dinamo Press del 26 aprile 2016) (p.56).
E veniamo alla Roma delle bangladesi.
Facciamo parlare loro, e le autrici,  sui vari argomenti affrontati nel libro.

Roma

La città è molto, molto cambiata. Prima non trovavamo neanche un peperoncino! Quando qualcuno andava in Bangladesh dicevamo: ‘Prendi quella frutta, prendi quella verdura’. Mi mancava la papaya, quella frutta… adesso no, non ci sono problemi. Adesso è comodissimo! (Rehana, 45 anni)
Prima di venire in Italia io pensavo che casa non è così… come ho visto in film indiani l’Inghilterra, altre parti, così: una casa, c’è ungrande giardino e vive solo una famiglia. Invece qua ho visto come Dhaka, palazzo, tanta gente insieme… Sì, il nostro Paese è più sporco, però qua in Roma un po’ di sporco, no? […] io pensavo pulito, una casa, un giardino… (Amina, 29 anni).
Pensavo a una bella città, un bel Paese… invece quando sono arrivata era diverso. Però sì, mi è piaciuto, c’erano pochi stranieri, poca gente. Roma mi è piaciuta. Prima tutta la gente era tranquilla, non c’era razzismo (Nasima, 47 anni).

Il lavoro
: solo il 14,1% delle donne bangladesi in Italia lavora. Sono lavoratrici delle imprese di pulizie, infermiere, mediatrici culturali, imprenditrici, queste ultime in aumento, soprattutto nel settore dell’abbigliamento indo-bangladese.
Sono i mariti che non le fanno lavorare, io sono fortunata perché mio marito è così aperto… tante altre donne no, le portano qui per crescere i figli e cucinare… e basta… A lavoro tutti mi vogliono bene, anche quando parlano male degli stranieri poi dicono: Ma no Tasfi, tu sei diversa… (Tasfi, 40 anni).
Lavoro qui da sola, mio marito mi aiuta e mi sostiene… compro i vestiti, me li faccio arrivare dall’India e dal Bangladesh e li vendo a tante donne qui… Vedi, il mio negozio è sempre pieno soprattutto quando c’è nostra festa, Eid. Adesso ho anche la pagina facebook con mio figlio che aiuta me… e le persone mi chiamano per ordinare e comprare i vestiti così li spedisco, anche fuori Italia (Rehana, 46 anni).

Le nuove generazioni

Roma… io vivo qua, Roma è la mia città, è tutto per me Roma. […] A me piace stare qua, in questo quartiere, perché è casa mia, ci sono le persone che conosco, non cambierei zona (Hilda, 25 anni).
Non mi sento a casa mia quando sto in Bangladesh, infatti non vedo l’ora di tornare in Italia. Quindi per me l’Italia è tutto (Zahra, 25anni).
L’Italia per me è una parte importante della mia vita. Non riesco immaginare di vivere altrove. Con i pregi e difetti, mi piace questo Paese. Non andrei mai via, non posso cambiare tutto un’altra volta (Lisa, 26 anni).
Mi sono sempre chiesta: Ma quando una persona mi fa una domanda del genere – se mi sento italiana o bangladese, quanto l’uno e quanto l’altro – non posso rispondergli metà e metà? Posso essere semplicemente metà da una sponda e metà dall’altra? Perché no? Perché per una persona devo essere bangladese o italiana? Semplicemente ho acquisito entrambe le culture, entrambe le lingue… sono a metà, insomma, sono pure più avanti magari! Per me è una ricchezza, per mio marito è una ‘paraculite’. Mi dice sempre: ‘Quando ti fa comodo sei italiana, quando ti fa comodo sei bangladese!’ [ride]. (Razia, 26 anni).
Abbiamo mischiato tutto. Mangiamo cibi italiani, cibi bangladesi, mettiamo vestiti italiani, mettiamo vestiti bangladesi, facciamo un po’e un po’. Si è già creata una cultura nuova (Alya, 28 anni).
Le nuove generazioni sono “mediatrici per natura:… mantenendo la loro identità italiana, sfruttano a loro vantaggio le origini e ne fanno uno strumento di forza, spesso funzionale alla loro professionalità” (pp.120-121).
A me è servito molto imparare la lingua. I miei genitori me l’hanno insegnata per un fattore affettivo, ma poi io ho iniziato a lavorare come interprete (Razia, 26 anni).
Le nuove generazioni e la comunità: “A rendere poco desiderabile la permanenza in aree dove la presenza bangladese è numerosa, interviene il controllo sociale della comunità e le chiacchiere ad esso connesse” (p.123).
La comunità è piccola, appena vedono una ragazza cominciano a dire ‘Ma io l’ho vista qui, l’ho vista così…’ quindi mi sento un po’ accerchiata qui, se devo dire la verità. Però ci sono anche abituata. Però quanto ti sposti in altre parti lì è diverso, il senso di accerchiamento non ce l’ho e poi vado con tutti amici italiani, sono l’unica straniera, quindi neanche ci fanno caso! (Alya, 28 anni).
Negli ultimi anni sono arrivati anche alcuni bangladesi, ora ci sono. Ma ora sono ovunque! Però qui è molto tranquillo. A Torpignattara l’integrazione non è vera, stanno sempre tra di loro, mangiano nei ristoranti bangladesi, vanno al bar e sono bangladesi… dicono che stanno bene a Roma, ma no, non è integrazione questa (Razia, 26 anni).

Il razzismo 

Il livello di accoglienza di Roma, gli episodi di razzismo o intolleranza praticamente assenti dalla narrazione [delle intervistate] e i buoni rapporti con gli italiani fanno pensare ad un inserimento da manuale della popolazione bangladese, ma la situazione reale è sicuramente meno rosea. I cittadini di origine bangladese subiscono episodi di razzismo, come pure ne hanno subiti cittadini di altre nazionalità in vari quartieri di Roma, anche quelli a più altra concentrazione di stranieri. Basti ricordare l’assassinio nel 2014 del giovane pakistano proprio a Torpignattara o gli episodi di violenza ad opera dell’estrema destra ai danni di cittadini bangladesi. La stampa ne ha parlato in passato come di ‘banglatour’, una sorta di rito di iniziazione, di gioco goliardico nel quale vengono presi di mira cittadini bangladesi, considerati docili e facili bersagli di una violenza razzista che le vittime spesso non denunciano. Si parla di una cinquantina di eventi tra il 2012 e il 2013” (p.124).
Non abbiamo mai avuto problemi con i vicini di casa. Anzi, abbiamo avuto vicini che quando cucinavamo, facevamo il riso, venivano e volevano assaggiare! […] Io ho avuto amici di altre nazionalità, non solo italiani o bangladesi. Andavo a scuola con una ragazza colombiana, eravamo molto amiche… adesso ho un’amica araba. Per i miei è un po’ diverso. Loro escono molto, sì, ma il più delle volte andavamo sempre nella nostra comunità, eventi della comunità bangladese, capodanni, così… (Zahra, 25 anni).
“Quando Alya descrive Torpignattara fa notare quanto a suo parere non si tratti di un ghetto, come invece accade in altri Paesi europei, ma di un luogo dove si pratica una sana convivenza. Le chiedo quindi che cosa ha pensato quando, dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles, alcuni giornalisti l’hanno chiamata ‘la Molenbeek italiana’” (p.126).
Secondo me no, qui non lo vedo come un ghetto. Un ghetto mi dà proprio un senso dispregiativo… qui diciamo ci sono persone di varie culture, ma convivono benissimo. Non trovi gente che ti prende per i capelli o ti ammazza per strada, noi conviviamo. È una convivenza pacifica, anzi prendiamo un po’ da uno e un po’ dall’altro, i modi di vivere… Quello con Molenbeek secondo me è un parallelismo che non esiste, perché qui trovi i ragazzini che vanno a scuola, che si sono integrati, trovi i ragazzi che girano con i ragazzi italiani… (Alya, 28 anni).
Lì i ghetti li hanno proprio creati. Anche a Londra, hanno proprio la tendenza ad isolare le persone di altre nazionalità, hanno la tendenza a isolarsi loro e a isolare le altre persone. Se tu isoli è ovvio che poi loro si sentono isolati e creano queste situazioni di divisione.[…] A Roma non c’è questa cosa, ma è anche merito dei romani che non hanno isolato le altre popolazioni. […] Secondo me è per i valori, i valori degli italiani e dei romani ad esempio sono diversi dai valori dei londinesi. Loro hanno sempre avuto questa cosa dello straniero, ok, lo straniero serve per lo sfruttamento e basta. Secondo loro non possono proprio integrarsi. Invece gli italiani, essendo anche loro una popolazione di emigranti, conoscono le dinamiche, sanno le difficoltà e quindi capiscono… diciamo che ci sono più fattori che hanno contribuito… storici, economici… forse anche quelli religiosi, perché il cattolicesimo, che è una religione d’accoglienza, ha contribuito (Alya, 28 anni).
Vent’anni fa era tutta un’altra cosa. Oggi mi occupo di queste cose, ma quando andavo [presso uffici pubblici per documenti e pratiche varie,n.d.a.] per me non era così, era più ospitale. Dicono che le cose siano migliorate ma noi all’epoca non avevamo problemi, non è che i miei compagni di classe mi trattavano male perché ero nera… era diverso, la gente intorno ti sorrideva. Ora non so, a volte penso: ‘avrò visto male!’. […] Adesso vedo tutto cambiato in peggio! La reazione della gente intorno è come di non sopportare più (Sunita, 29 anni).

Il velo

“Il valore del velo dalla tradizione coranica alla società postmoderna ha assunto valenze differenti a seconda della comunità di appartenenza. Molte donne scelgono di indossarlo in seguito a riflessioni personali, momenti particolari della loro vita, come il matrimonio, o semplicemente perché il velo permette loro di ‘passare inosservate’. Più di una donna ha spiegato che spesso la scelta scaturisce dalla paura di essere giudicate dalla comunità di appartenenza” (p.136).
Io ho cominciato a velarmi una volta arrivata a Roma dal Bangladesh. In Bangladesh, infatti, la mia famiglia è molto laica, non mi ha mai chiesto di indossare il velo e mai lo farà. Vivevo a Dhaka, la Capitale, ora a Roma invece mi sembra di essere tornata in un villaggio del Bangladesh, sai perché? Perché i bangladesi si conoscono tutti o quasi, ci riconosciamo per strada che siamo bangladesi, riconosciamo anche il villaggio di provenienza a seconda del dialetto. E questo significa che se non indosso il velo, la comunità parla di me come una cattiva musulmana, una poco di buono. Lo stesso avviene se indosso i jeans e una t-shirt, sono pronti a giudicare. A noi bangladesi piace molto fare pettegolezzi, sai? Così anch’io ho deciso in modo forse un po’ falso di indossare il velo. Non è una questione religiosa, perché io la mia fede la porto dentro il cuore. Non posso permettere che la comunità giudichi male me e la famiglia, voglio far capire che sono anch’io della comunità, sono anch’io musulmana. Quando vado in Bangladesh invece non lo indosso, ma non lo indosso nemmeno se vado fuori Roma con mio marito a fare un viaggio in Europa. Mi dispiace se pensi male di me, ma sarebbe come se tu decidessi di indossare un abito in un’occasione e un altro in un’altra situazione (Mariam, 39 anni).
“Il velo può rappresentare l’espressione della propria personalità, dell’appartenenza e della necessità di auto rappresentazione nello spazio pubblico. Una testimonianza che ha modificato anche la mia percezione rispetto alla donna velata è stata quella di Shanti. Leggere questo breve stralcio d’intervista può davvero far comprendere come ogni donna sia da considerarsi un universo singolare, unica nel suo genere, irripetibile nella sua personalità” (p.137).
Sono in Italia da cinque anni e i primi tempi piangevo molto, perché non potevo indossare il mio burqa. Come sai bene sono sposata con un uomo bangladese, ma lui non vuole che io indossi il burqa, perché ha paura che la comunità lo giudichi e pensi che sia stato lui ad impormelo. Quindi una volta arrivata qui in Italia ho cominciato a soffrire della mia condizione: da una parte lo Stato italiano che impone il riconoscimento visivo a tutte le donne, dall’altra la paura del giudizio della comunità. Quando ero in Bangladesh indossavo sempre il burqa integrale con tutti i guanti. Nessuno della mia famiglia lo indossa o mi ha mai chiesto di farlo. È stata una mia decisione presa da adolescente. È difficile spiegare la piacevole sensazione di andare in giro per la strada indossando il burqa, quella sensazione di protezione che viene anche da Allah che mi faceva sentire bene, protetta. Ogni volta che torno in Bangladesh riprovo le stesse sensazioni indossandolo come quando vivevo lì. A Roma così mi limito ad indossare un abito lungo e sul capo l’hijab e in alcune occasioni copro anche la bocca e il naso, ma per me non è la stessa cosa (Shanti, 27 anni).

La religione musulmana, la religione induista

“La fede s’indebolisce per fare spazio alla quotidianità in un Paese non musulmano, allora si rafforzano i simboli identitari religiosi che cercano di supplire in un certo senso a questo vuoto identitario” (p. 141).
Spesso con le mie amiche del Bangladesh facciamo degli incontri, si dice talim, a Torpignattara fanno talim ogni domenica nella moschea di Via della Maranella, non solo donne bengalesi, anche donne arabe, egiziane, marocchine, le africane invece forse non sanno ancora di questa cosa. Parliamo del Corano, di Hadith, una donna legge un Libro, noi tutti ascoltiamo, poi dopo un’altra donna lo spiega ad alta voce.
“A differenza delle donne musulmane, quelle hindū non mostrano una forte simbologia religiosa da esteriorizzare negli spazi pubblici, se non una semplice polvere rossa che viene applicata dalle donne sposate sulla nuca tra i capelli, quotidianamente al mattino, dopo la Puja dell’alba” (p.155).
Il vivāha rappresenta un’istituzione molto tradizionale nei villaggi e sempre più ‘moderna’ invece nelle grandi città. Anche nel mondo hindū, come nell’Islam, le unioni matrimoniali non sono principalmente il coronamento di un sogno d’amore, ma il frutto di accordi prematrimoniali presi dalle famiglie… Il vivāha è radicato nell’antica cultura indiana, un sistema castale antico millenni dal quale è difficile svincolarsi. La regola vuole che l’unione avvenga tra un uomo e una donna della stessa casta, difficilmente invece vengono accettati matrimoni tra una donna ed un uomo di casta inferiore (p.158).

La violenza maschile

“La questione della violenza maschile è molto articolata, poche, se non rare, sono le donne che decidono di denunciare i maltrattamenti alla polizia o ai centri anti-violenza. Questo accade sia perché la gran parte della violenza rimane molto spesso nascosta nel silenzio delle pareti domestiche, sia perché, nel caso la notizia si diffonda, nella comunità si attiva un sistema di mediazione che cerca di trovare una soluzione tra i due coniugi. Ciò non significa che questa sorta di riconciliazione vada necessariamente a favore della donna in questione, solitamente infatti non viene condannato l’atto di violenza, ma solamente approfondito il perché l’abbia fatto affinché non si ripeta. Le donne bangladesi così hanno sia paura sia vergogna di raccontare la violenza subita, perché questo significherebbe mettere in cattiva luce anche tutta la collettività di origine. I mediatori sono sia uomini che donne, non qualificati per mediare, ma semplicemente persone di ‘buona volontà’ che hanno l’obiettivo di risolvere la situazione, ma anche quello di salvaguardare l’immaginario collettivo” (p.138).

Tutte a scuola
Una donna bangladese parla proprio della decisione di frequentare una scuola d’italiano (p.167):
Qualche donna vuole andare a scuola, vuole lavorare. Ma sempre il marito vuole no. Al Paese nostro è difficile dire no, quando il marito ha deciso. Poi qui nessuna di noi ha la famiglia, i genitori… allora dipende solo dal marito (Tasfi, 40 anni).
Corsi di italiano per sole donne? . La maggior parte di loro preferisce frequentare corsi rivolti a sole donne perché la vicinanza con persone dell’altro sesso non è ben vista dai mariti e dalla componente maschile della famiglia, ma anche per pudori personali o culturali (p.166).
Meglio tra donne, è più facile parlare, ridere. E il marito è tranquillo.
Ma Jasmin, mediatrice culturale dà un’altra spiegazione della scarsa conoscenza della lingua italiana da parte delle donne. “Racconta di quante, una volta acquisita una certa confidenza e fidandosi di lei, le confessano che la mancata frequenza ai corsi è da imputare proprio alla volontà dei mariti, che preferiscono non far uscire troppo le mogli di casa. Alle confidenze sono arrivati anche alcuni uomini, che le hanno chiaramente fatto sapere che non amano che lei frequenti le loro spose. «Se vengono con te imparano troppo», e per loro imparare troppo vuol dire muoversi in città, frequentare un corso d’italiano, allontanarsi da quella che alcuni uomini presumono essere la retta via per una moglie: la casa” (p. 168).
[…] in molti casi le donne bangladesi si avvicinano ai corsi di italiano molto tardi e perché devono fare l’esame e ottenere il certificato A2 per accedere al permesso di soggiorno di lungo periodo. Questo tipo di motivazione è un’arma a doppio taglio perché spesso lo studio viene improntato al superamento del test e poi viene brutalmente interrotto. Sono poche le donne che vogliono continuare dopo l’A2 come sono poche le donne che in effetti utilizzano la lingua appresa in classe al di fuori della scuola – spesso regredendo nell’apprendimento già dopo poche settimane dall’esame (Arianna, 34 anni).

Inghilterra

Quando ho figli, dopo, vado in Inghilterra. Inglese è la lingua internazionale. Italia no, qui solo italiano, no inglese. In Italia è tutto per bambini italiani, non per i nostri… Dottore, ingegnere, tutti i posti sono degli italiani. […] In Inghilterra tutto c’è: dottore bangladese, polizia, dottoressa… c’è tanto. Qua no (Aisha, 28 anni).
In Inghilterra non ci andrei mai, è come ritornare indietro. Ad esempio ho parenti lì che qui non si sono mai coperte, anche mia cugina si copre per andare a scuola. Qui non si era mai coperta. I miei zii, poi, avevano entrambi un lavoro a tempo indeterminato qui a Roma, adesso lui lavora e mia zia è rimasta in casa. Lì c’è più controllo della comunità, perché vivono tutti negli stessi enormi quartieri a maggioranza bangladese, per questo ragazze e donne hanno comportamenti più tradizionalisti che non avevano qui. Poi con questa storia dei sussidi a molti basta lo stipendio del marito e così la condizione delle donne peggiora, perché molte rimangono in casa con la scusa che tanto i soldi bastano. Poi l’inglese non tutte lo sanno, mia zia pure non parla una parola d’inglese. Sono proprio convinta che lei come molte altre stavano meglio in Italia (Sunita, 28 anni).

La scuola delle figlie e dei figli

In molti frangenti le donne si sentono poco accolte non tanto dal sistema scolastico, ma dagli altri genitori. La percezione è quella di essere messe da parte nelle questioni organizzative e nelle discussioni relative a scelte da compiere per attività extrascolastiche o per qualsivoglia esigenza o problematica relativa alle classi e ai bambini. “A volte la presunta emarginazione è dovuta alla scarsa conoscenza dell’italiano, altre volte a diffidenza o addirittura ad aperto razzismo da parte delle altre famiglie (p.181)”. Ma non tutte hanno avuto questa esperienza.
Sono fortunata perché mio figlio è stato sempre molto bravo: lui solo gioca a calcio e studia. Io andavo sempre a scuola a parlare con le maestre. Non capivo, ma mi aiutavano sempre gli altri genitori, gli amici… tutti gli amici di mio figlio abitano in questa zona, ci conosciamo, quindi loro sempre aiutano me. Alle riunioni io vado sempre, sentivo e quando non capivo dicevo subito a un’altra mamma: ‘Che ha detto?’. E subito loro mi spiegavano (Tasfi, 40 anni).

Lingua madre, lingua matrigna

Trasmettere la lingua madre è per le famiglie immigrate una scelta, non sempre lineare e non sempre semplice. Il bangla è considerato dalle famiglie una lingua importante, soprattutto per il mantenimento dei legami con la terra d’origine, sia personali con i parenti rimasti lì, sia identitari e di memoria storica
Molti dei genitori hanno insistito perché le nuove generazioni imparino la lingua bangladese (pp.187-188)
Da bambina non capivo questa importanza e quando i miei mi dicevano ‘Devi imparare a scrivere!’ li odiavo, non capivo e pensavo: ‘ma che ci devo fare?’. Adesso so leggere, ma scrivere… mmmh… adesso mi dispiace, avevano ragione quando si impuntavano. […] Col senno di poi capisco che è importante, per me stessa. Non posso tagliare quella radice (Zahra, 25 anni).
A casa nostra la lingua principale è il bengalese. Lo parlo con mia figlia perché adesso lo sta dimenticando, mi risponde in italiano. Io preferisco che lei parla tutti e due, perché quando vado in Bangladesh deve parlare. Ma non solo per questo, è la mia lingua e lei la deve rispettare (Soraya, 38 anni).
“Al pari di Layla, altre ragazze riconoscono l’importanza dei racconti dei genitori sulla lotta di liberazione e la loro insistenza nell’utilizzo della lingua di origine. Secondo Zahra non conoscere la storia del Paese sarebbe un disonore, mentre per Soraya conoscere il passato è un dovere e quindi anche trasmetterlo ai figli lo è” (p.189).
È un disonore, una mancanza di rispetto nei confronti delle persone che si sono sacrificate. Secondo me dovresti imparare. Infatti adesso ringrazio papà e mamma perché si sono impuntati (Zahra, 25 anni).
Io sempre parlo a mia figlia di come è stato costruito il Bangladesh, perché mi piace e lei deve capire, perché sua mamma viene da lì e lei deve capire che Paese è (Soraya, 38 anni).
Questo e molto altro  in questo libro. Come scrive Renata Pepicelli nella sua prefazione:
“raccontando una realtà scarsamente se non per nulla conosciuta, ‘Kotha’ non solo aggiunge un tassello importante alla letteratura sulla diaspora bangladese in Italia, ma offre degli utili strumenti per contrastare quella terribile amalgama di razzismo, sessismo e islamofobia che si sta affermando in Italia negli ultimi mesi. La pubblicazione di questo volume arriva in un momento quanto mai opportuno, rappresentando una delle risposte necessarie a quel dilagare di fake news e ignoranza,di cui le pratiche e i discorsi razzisti si nutrono”. 

Un commento a “Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia”

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