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Le immagini di Modi, Putin e Xi che conversano amichevolmente, scambiandosi sorrisi, è l’istantanea che meglio rende il senso dell’incontro di Tianjin. L’Europa, finita ai margini dei processi, rifiuta di considerare la Russia come una grande potenza e denuncia il suo presidente come un “orco”. Nel Sud globale, però, ha fatto cilecca la logica delle sanzioni, e sterili suonano anche le minacce della Baronessa di spingersi oltre la vecchia strategia del contenimento, in auge al tempo della Guerra fredda, per valutare quando stanziare le truppe di combattimento in Ucraina.
L’avvicinamento di Mosca a Pechino non serve solo per attutire i colpi delle sanzioni o per piazzare l’hardware militare e la tecnologia nucleare e spaziale. In prospettiva potrebbe affacciarsi una ricollocazione del Cremlino nel solco del capitalismo politico di tipo cinese. Nella storia, nessun’altra potenza ha sperimentato un così drastico declino in tempi di pace come quello vissuto in occasione del crollo sovietico. Fallito il disegno di una integrazione-assorbimento dell’antico “Impero del male” nelle trionfanti economie di mercato, la Russia ha denunciato l’espansione provocatoria della NATO a Est. Per immunizzarsi, dopo le cosiddette rivoluzioni colorate aizzate dall’Occidente, Mosca ha abbracciato una cultura di conservazione identitaria dei valori contro l’affronto proveniente dall’immoralità liberal-cosmopolita. Il progressivo coordinamento con il vento cinese determinerà forse una rifondazione delle basi politico-culturali di un regime che non intende scivolare nel gruppo degli Stati semi-periferici e non potrà ottenere un consolidamento effettivo poggiando su una base di leadership puramente personale.

Nel summit di Tianjin erano perfettamente bilanciati hard power (con la presenza tra l’altro di quattro potenze nucleari, come Russia, Cina, India e Pakistan, oltre alla Turchia che rappresenta il secondo esercito più grande della Nato) e soft power (cooperazione, equità e giustizia negli affari internazionali). La crescente importanza dei 26 Paesi invitati, misurabile sul piano economico (25% della ricchezza mondiale), demografico (quasi metà della popolazione del pianeta), politico, strategico e diplomatico, chiede ora anche una traduzione efficace nella ristrutturazione delle relazioni internazionali. Il discorso che Xi ha pronunciato lunedì nella città portuale proponeva un “sistema di governance globale più giusto ed equo”. Con la partecipazione dell’India ai lavori è naufragata la retorica di chi l’accarezzava, in conformità a un logoro schema binario, come potenza democratica da contrapporre al Dragone autocratico. Questa demarcazione manichea (democrazie vs. autoritarismi) nasconde, a parere di Xi, una ipocrita pratica unilaterale ed egemonica, che è modulata su un gioco a somma zero nel controllo delle risorse e nella distribuzione dell’influenza.

Con il cosiddetto approccio del doppio motore (sicurezza e cooperazione, commercio e amicizia) il leader cinese ha prospettato un gioco geo-economico a somma positiva. In esso i 26 componenti dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), benché rivali e con interessi divergenti su alcune questioni specifiche, sono poi, in altre agende ben più cruciali, “tutti amici e partner”. La Casa Bianca, per difendere l’egemonia al tramonto, opera in termini di potere ricattatorio da esercitare secondo modalità post-coloniali. Nel ricorso ai dazi e nell’aggressione alle organizzazioni internazionali, lo Studio Ovale lascia ardere il plusvalore che ha permesso agli Yankee di siglare trattati con sessanta alleati storici. La Cina cerca di superare il suo tallone d’Achille di potenza con pochi amici proponendosi come giocatore globale pragmatico che ha l’ambizione di costruire reti. L’intervento del Presidente cinese ha fissato in cinque punti il programma di “una globalizzazione universalmente vantaggiosa e inclusiva”. Il primo postula una “uguaglianza sovrana, con piccoli e grandi Stati aventi pari diritti e poteri”: non è accettabile che qualcuno indossi abusivamente gli abiti dell’Impero e strappi a propria discrezione la Carta dell’Onu imponendo un regime fortemente ineguale e asimmetrico tra i soggetti.

Connesso è il secondo tema, cioè la essenzialità dello Stato di diritto internazionale per uno sviluppo pacifico che grazie alla collaborazione mette al riparo dall’urto tra blocchi o disaccoppiamento. Il terzo tassello è il multilateralismo che, per Xi, poiché implica “una governance più giusta e ragionevole”, esige l’incontro tra le diverse culture e non già uno scontro di civiltà, come quello evocato da Huntington. Proprio questa prevalenza del dialogo sulla contrapposizione frontale è la condizione per fondare la quarta istanza, ovvero la centralità della persona e la speranza di una “vita migliore”. Alla quinta, e ultima casella, Xi ha collocato le “azioni concrete” per affermare la complementarietà delle economie. Accennando alla Global Governance Initiative (GGI) egli ha parlato di cooperazione anche tra non alleati, di aiuto ai paesi poveri attraverso “progetti piccoli e belli”, oltre che della creazione della SCO Development Bank per limitare il dominio del dollaro. La dottrina del dialogo tra “partner non rivali” è stata raccolta nel documento strategico finale sulla programmazione decennale (sicurezza, economia, cultura, ambiente, digitale). Contro l’ordine globale unilaterale dell’Impero nervoso solitario a stelle e strisce, si scaglia lo spirito paziente e antiegemonico di Shanghai.

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