Gli accordi di pace in Colombia, sottoscritti nel 2016 dal Governo del Presidente Juan Manuel Santos ‒ il predecessore dell’attuale Ivan Duque ‒ e dal principale esercito guerrigliero FARC – EP – Fuerzas Armadas Rivolucionarias de Colombia avevano creato un immaginario di speranze nel popolo colombiano e in buona parte della comunità internazionale.
Sottoscritti all’Avana con l’accompagnamento della stessa Cuba e della Norvegia, sono stati frutto di un lavoro anche collettivo, nel quale le comunità colombiane hanno contribuito con un capillare coinvolgimento di gruppi e movimenti territoriali, per la costruzione di una pace “con giustizia sociale”.
Cinque anni dopo, possiamo tristemente dire che il conflitto colombiano non ha ceduto il passo alla pacificazione.
Dal 28 aprile scorso, il paese andino è scosso da una potente ondata di proteste, scaturite dallo sciopero generale indetto dai principali sindacati contro la riforma tributaria proposta dal Governo di ultra destra di Ivan Duque. Attorno a queste prime istanze, si sono agganciate le storiche rivendicazioni di una popolazione vessata da più di mezzo secolo di guerra interna, da politiche neoliberiste di saccheggio dei territori, di risorse e di diritti, e da un divario di diseguaglianze che la pandemia di Covid-19 non solo ha aumentato, ma ha visibilizzato in maniera sconsolante.
L’ESMAD ‒ il corpo di polizia antisommossa della Forza Pubblica colombiana ‒ ha reagito, ubbidendo agli ordini, con violenza inaudita contro la gente scesa nelle strade.
Il saldo al 10 di giugno ‒ annunciato dal Comitato Nazionale di Sciopero, composto da sindacati, organizzazioni della società civile e gruppi studenteschi, e confermato da diverse organizzazioni per i diritti umani nazionali ed internazionali, fra cui Indepaz – Instituto de Estudio Para el desarrollo y la Paz ‒ parla di 76 morti accertati e migliaia di violazioni di diritti umani, fra cui l’odiosa prassi dell’utilizzo di violenze sessuali su molte donne e studentesse arrestate.
La Federazione Nazionale per la Libertà di Stampa ‒ ma tanti sono anche i giornalisti italiani in loco che chiedono appoggio ‒ lancia l’allarme per le aggressioni, i sequestri di materiale, le negazioni di accesso a documenti ufficiali, e le minacce, ricevute dai giornalisti che seguono le proteste.
Nonostante le condanne contro l’uso eccessivo della forza sulla popolazione civile, giunte da gran parte dei governi, dall’Onu e l’arrivo finalmente della Commissione Interamericana dei Diritti Umani, fatta entrare in Colombia dopo essere stata a lungo bloccata alle frontiere ‒ è di pochi giorni fa la marcia cittadina che a Bogotà ne ha accompagnato l’entrata in città ‒ non si fermano le violenze: a Cali ‒ uno dei teatri principali degli scontri, con la Guardia Indigena del Popolo originario Nasa che ha raggiunto la città per dare il proprio aiuto alla gente ‒ si certificano altri cinque morti per mano della forza pubblica nella notte fra il 7 ed 8 giugno.
Le proteste continuano: se da una parte assistiamo ad un massacro di civili, dall’altra la Colombia sta alzando la testa con una dignità e un coraggio che segneranno un’epoca intera e che sta attraversando l’intero continente.
I colombiani tutti ‒ non solo le comunità indigene, contadine ed afrodiscendenti, da sempre esempio di resistenza ed organizzazione ‒ vogliono un Paese non più in scacco di corruzione e criminalità.
Nel contesto del conflitto armato, cifra ancora approssimativa, si contano 120.000 desaparecidos, ai quali si sommano purtroppo i 379 di questo ultimo mese. Gli assassinii mirati contro leader e leaderesas comunitari ed attiviste/i di base, difensor@s di diritti umani ed ambientali ed ex guerriglieri fariani, parlano di oltre 1000 morti dalla firma degli accordi di pace. Tragedia che ha dato vita alla campagna internazionale “Nos estan matando – ci stanno uccidendo”, e che in Italia ha attivato, fra gli altri, la rete In Difesa Di – per i diritti umani e per chi li difende.
Una mattanza che non ha risparmiato neppure il giovane Mario Paciolla, cooperatore ONU e giornalista napoletano trovato senza vita nel luglio dello scorso anno in circostanze non ancora chiarite, mentre si trovava nel cuore dell’Amazzonia colombiana, nella regione del Caquetà. Mario era entrato in connessione con una vicenda drammatica, un bombardamento aereo dell’Esercito colombiano che aveva provocato la morte di almeno nove bambini, in principio insabbiata, e che aveva provocato ‒ una volta uscita alla luce ‒ le dimissioni dell’allora ministro della difesa Botero. Una morte di cui si chiede ancora giustizia, e che in Italia unisce Comuni ed organizzazioni, al fianco degli amici e della famiglia.
Le ragioni dello sciopero generale in Colombia sono da ricercare ben oltre la risposta sociale focalizzata contro la riforma fiscale ‒ che comunque Ivan Duque ha dovuto ritirare ‒ che alzava le tasse sui beni di prima necessità in una società come dove il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
L’evoluzione politica e sociale della Colombia degli ultimi decenni si legge anche nelle sue trasformazioni fisiche: le metropoli si sono trasformate in megalopoli per l’accumulo dei desplazados nelle periferie (comunità indigene, contadine ed afrodiscendenti che a causa del conflitto armato hanno dovuto lasciare le proprie terre; gli sfollati in Colombia si calcolano fra i 7 ed i 10 milioni di persone, cifra che situa il Paese secondo al mondo per sfollati interni), creando centinaia di favelas (comunas in colombiano) strette in una povertà feroce, acuita in questo anno e mezzo dalla pandemia.
Una mancanza di prospettive grave soprattutto per la popolazione giovanile, che soffre di un alto tasso di disoccupazione, e un governo sordo e distante dalla società, e che rappresenta da molte elezioni l’élite colombiana di cui l’ex presidente Alvaro Uribe Velez è emblema: una figura controversa che da oltre due decenni ha segnato la storia del Paese, legata secondo i più al paramilitarsimo e al narcotraffico che insanguinano da sempre i territori, accusato di essere il mandante di massacri e omicidi mirati, e oggi agli arresti domiciliari per frode fiscale. Uribe e l’“uribismo”, di cui anche gli ultimi due governi ‒ Juan Manuel Santos era suo ministro della difesa, l’attuale Ivan Duque il suo delfino politico ‒ sono emanazione, e che ha fatto coniare la definizione di narco-governi.
Il conflitto colombiano non è complicato, è complesso: nella sua posizione geopolitica fondamentale, intreccia interessi dell’industria estrattivista, a quelli del controllo delle vie di commercio (legale e illegale), alla proprietà della terra, all’utilizzo delle immense risorse del sottosuolo; e la storica mancanza di una riforma agraria che ancora oggi approfitta di un’organizzazione delle terre di tipo feudale, in mano a poche famiglie che sono le stesse che siedono nei palazzi di potere.
Ciò che sta accadendo in Colombia in queste settimane è comunque una svolta: le ragazze ed i ragazzi di Primera Linea ‒ il nome che si sono dati ‒ si organizzano per proteggersi dalla violenza senza confine dell’ESMAD. A Bogotà da giorni si danno il cambio al Portal de las Americas ‒ soprannominato Portal de la resistencia ‒ e attraverso la protesta sociale, il confronto e l’arte, costruiscono nuovi linguaggi e prospettive. La Guardia Indigena Nasa e di molte comunità originarie, scende in marcia nelle città per dare il proprio aiuto agli abitanti stremati.
Di fronte a tutto questo, il governo italiano è silenzioso. Fra le dichiarazioni di organismi internazionali e governi di mezzo mondo, le istituzioni hanno scelto una linea di basso profilo difficile da capire. L’onorevole Laura Boldrini, insieme a pochi colleghi, ha fatto eccezione, stilando per prima l’interrogazione parlamentare dove si chiedeva, fra le altre cose, di utilizzare come strumento di pressione la firma degli accordi del Trattato di Libero Scambio fra Unione Europea e Colombia. La risposta, laconica, dice tutto: “In linea con le considerazioni svolte insieme ai partner dell’Unione europea, al momento non riteniamo opportuno sospendere l’accordo di libero scambio tra UE e Colombia […]. L’impegno europeo a favore del processo di pace in Colombia richiede il sostegno allo sviluppo economico del Paese, anche attraverso il commercio”.
La speranza risiede dunque nella gente colombiana, perché riesca a gestire il conflitto senza alzare il livello di violenza: c’è bisogno di quel salto politico culturale necessario per uscire dalla spirale di violenza e dalle dinamiche di guerra, alimentate dagli alleati che il governo colombiano ha nel mondo, e che sono gli stessi che questa guerra la vogliono mantenere.
Ma soprattutto, c’è bisogno delle lotte delle comunità territoriali, le uniche capaci davvero di creare alternative al sistema ultra neoliberista e di conseguenza, di costruire la pace.
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