I commenti a caldo sui fatti del giorno rischiano sempre l’evanescenza. Quindi, per commentare l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca serve darsi una profondità storica. Per farlo usiamo un’ipotesi interpretativa avanzata, appunto, da uno storico degli Stati Uniti come Arnaldo Testi: ultimamente ha proposto di leggere le elezioni del 2020 come “la caduta di un regime”. Non quello dell’illiberale Trump – sì, anche – ma di un ordine politico-elettorale fondato sul primato di una specifica coalizione sociale, quello conservatore. Scrive Testi:
“Il regime politico-sociale repubblicano conservatore, concepito negli anni della presidenza Nixon, anche come reazione alla rovina di Nixon nel Watergate, e nato con la presidenza Reagan, ha avuto la sua età dell’oro nell’ultimo ventennio del Novecento. Ha plasmato le politiche del periodo, ha creato il contesto ideologico in cui hanno agito anche i presidenti democratici, Clinton e un po’ Obama. Poi ha cominciato a frangersi sugli scogli dei suoi stessi effetti, diventati problemi. Troppa deregulation (il governo come problema)? Troppe diseguaglianze economiche e una mobilità sociale ferma o verso il basso (cose micidiali nella repubblica democratica)? Grandi migrazioni, molte di popoli di colore? Cambiamenti demografici destabilizzanti, con timori razziali e razzismi che non vogliono scomparire perché sistemici? E di conseguenza, un’accesa polarizzazione partitica? (…) I problemi sono venuti al pettine (…) – sono venuti al pettine, dicevo, perché la maggioranza repubblicana conservatrice è, nel frattempo, diventata minoranza”.
Nonostante i 10 milioni di voti in più ottenuto da Donald Trump nelle ultime elezioni – con gli 81 di Biden, quello a cui abbiamo assistito è stata una “guerra civile fredda”: come a Gettysburg, sono state schierate tutte le truppe disponibili – è chiaro che la maggioranza politica e sociale che caratterizza oggi gli Stati Uniti si è ripresa le elezioni “rubate” nel 2016, ovvero quando Trump ha potuto vincere solo in virtù dei bizantinismi del sistema elettorale americano (dal 1992 nessuno Presidente repubblicano, a esclusione di George W. Bush nel 2004 – ha mai ottenuto la maggioranza popolare dei voti). È dalla meta degli anni 2000 che si discute della nascita di una “New Emerging Majority” democratica che rappresenterebbe il futuro del Paese: più urbana, femminile, secolarizzata, multietnica (il che significa anche più “popolare”), etc… destinata a soppiantate la centralità della vecchia America conservatrice del Law&Order di Nixon, cui si aggiunsero poi il radicalismo religioso e in modo sempre più smaccato il nazionalismo bianco. Sappiamo da anni che la maggioranza bianca diverrà minoranza (la più grande, ma pur sempre minoranza) fra 20 anni, e che il Partito democratico è votato proprio da quelle minoranze e da quei ceti urbani che della trasformazione demografica, economica e sociale sono il motore (un’alleanza piena di contraddizioni e problemi, ovviamente): la domanda, insomma, non era “se” il primato della coalizione conservatrice sarebbe venuto meno, ma “quando”.
Si pensava che la vittoria di Obama nel 2008 avesse segnato l’anticipazione di quel cambiamento, per poi conoscere il colpo di coda della coalizione conservatrice nel 2016 (ripetiamolo sempre: possibile solo in virtù dei meccanismi elettorali presidenziali). Oggi ci dobbiamo chiedere se, invece, stia nascendo davvero la nuova America della coalizione democratica. Se da un lato, i repubblicani hanno puntato su una strategia politica a “esaurimento”, basata sull’omogeneità di una base sociale forte ma in contrazione (e in crisi dopo gli spasmi violenti del 6 gennaio), le scelte strategiche del Partito democratico hanno poggiato, al contrario, sulla diversità ed eterogeneità di base elettorale ed eletti. Una scelta che ha un vantaggio (l’elettorato democratico ha un potenziale espansivo superiore a quello repubblicano) ma anche un costo: i conflitti sono strutturali.
E. J. Dionne – columnist del Washington Post – ha riportato i termini della discussione in modo chiaro, offrendo una narrazione dei fatti più che condivisibile. Secondo lui, per guidare i democratici servono “la pazienza di Giobbe e l’astuzia di Machiavelli”. La Grande Tenda democratica raccoglie tendenze che in Europa – dice Dionne – sarebbero raccolte da più partiti. Un esempio molto chiaro per noi europei, che sappiamo come funzionano le coalizioni di governo multipartitiche: oltreoceano si litiga nella stessa casa, e non può essere altrimenti. Il terreno su cui tenere unito il partito – per il Biden “Giobbe e Machiavelli” – è quello delle politiche pubbliche.
Scrive Dionne che si tratta di “un’assicurazione sanitaria dignitosa e conveniente per ogni americano (il 79% dei suoi elettori ha sostenuto l’Affordable Care Act); programmi ambiziosi per combattere il cambiamento climatico (che il 90% degli elettori di Biden ha visto come un problema serio); la promessa di ridurre le disuguaglianze economiche attraverso grandi investimenti in infrastrutture, assistenza all’infanzia e istruzione. Oh sì, e tutti sostengono grandi passi per contenere la pandemia (una priorità per l’80% dei suoi elettori) e per far muovere l’economia”.
I 17 executive order firmati mercoledì da Biden vanno in quella direzione: il cosiddetto “delivery” verso i segmenti sociali che quel partito rappresenta. Se le cose non andassero in porto, o incontrassero resistenze e difficoltà, si riaprirebbe un ulteriore chance perché il partito repubblicano individui nuove strategie di sopravvivenza elettorale e politica (anche fossero di brevissimo respiro). Nella drammaticità della crisi economica e di quella sanitaria e sociale, Biden è condannato a rispondere, almeno parzialmente, a una domanda di trasformazione delle vecchie gerarchie sociali: il paradosso di un Presidente nato nella vecchia America del Novecento, che si trova oggi a essere il ponte con l’America del futuro. E che non ha a caso, dietro di sé – assieme alle foto di famiglia – ha scelto di portate nell’Ufficio ovale il busto del sindacalista chicano Cesar Chavez.
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