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Articolo pubblicato su “Strisciarossa” il 04.02.2025.

Ma è stato un vertice informale dell’Unione europea, quello che si è tenuto nel fine settimana a Bruxelles, o un vertice quasi formale della NATO? L’ordine del giorno era, informalmente appunto, la difesa europea. Tema che ovviamente riguarda anche il Governo del Regno Unito e il vertice politico dell’Alleanza atlantica. Altrettanto ovviamente si potrebbe aggiungere che riguarda anche l’amministrazione statunitense, cosicché ci si potrebbe chiedere perché, visto che c’erano il Primo ministro britannico e il Segretario generale della NATO, non sia stato invitato anche Donald Trump. Magari non proprio lui in persona, ma il suo Segretario di Stato o qualche alto funzionario dell’amministrazione (magari qualcuno c’era e non lo sappiamo).

La difesa europea al bivio

Parlare di tutto con tutti è sempre una strategia consigliabile, ma questo ennesimo episodio di commistione tra due piani che sono diversi e tali sarebbe bene che restassero si presta a molte considerazioni politiche, alcune inquietanti.

La discussione sulla difesa europea è arrivata a un bivio tra due strade del tutto diverse e divergenti sul modo in cui le spese per sostenerla dovrebbero essere finanziate. Da un lato c’è chi ritiene che debbano ricadere sui bilanci nazionali e, poiché in questo modo rischierebbero di far saltare i conti della disciplina di bilancio di quasi tutti i paesi, andrebbero non computate ai fini del Patto di stabilità. Gli Stati cioè potrebbero spendere liberamente in armi senza correre il rischio di incorrere in sanzioni e procedure di infrazione da parte delle autorità di Bruxelles. Campione di questa impostazione è qui da noi il ministro della Difesa Crosetto. Il quale, come tutti coloro che la pensano come lui, non è sfiorato minimamente dal dubbio lapalissiano che – siano computati o meno nel Patto di stabilità – si tratterebbe comunque di esborsi a carico di bilanci nazionali già molto risicati, quello dell’Italia più di tutti gli altri. Bilanci incomprimibili se non rinunciando a pezzi di welfare. Più cannoni e meno burro, per richiamare l’antico programma dei re prussiani.

Dall’altro lato c’è chi ritiene che le spese andrebbero finanziate ricorrendo a forme di indebitamento europeo: qualcosa di simile a quanto si è fatto sotto la pressione della pandemia con i programmi finanziati con titoli europei sfociati alla fine nel Next Generation EU e i PNRR. In ultima istanza, sempre di soldi dei contribuenti europei si tratterebbe, ma a carico di un bilancio comune europeo o magari della Banca europea per gli investimenti (BEI) che consentirebbero margini ben più agibili, considerando il fatto che le risorse proprie su cui si baserebbero gravano attualmente sui bilanci degli stati membri in modo irrisorio e potrebbero essere quindi aumentate senza eccessivi sacrifici. Contro questa ipotesi si pongono i governi degli Stati cosiddetti “frugali”, la Germania, i nordici e soprattutto i Paesi Bassi, ma anche la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che pure fu la promotrice del finanziamento europeo del NGEU. E, come vedremo, è lecito il sospetto che questa contrarietà abbia una sua ragione politico-strategica.

Se lo stato della discussione è questo, è il caso di chiedersi se sia opportuno allargarla al Governo di Londra e al vertice politico della NATO. Cioè da un lato al leader di un paese che, sia pure da qualche tempo tormentato dai ripensamenti e forse avviato a ritrovare un dialogo con l’UE, scelse la Brexit proprio per sottrarsi alla logica degli impegni comunitari e fare cavalier seul nel mercato mondiale e nelle finanze continentali e, dall’altro lato, al massimo responsabile politico di un’organizzazione che da molti anni, ben prima che arrivasse Trump, reclama un radicale burden sharing, e cioè l’aumento delle contribuzioni di ogni singolo Stato europeo, “almeno” al 2% del suo PIL, salvo allinearsi, come pare abbia fatto nel suo recente incontro con il nuovo inquilino della Casa Bianca, sul fantascientifico 5% reclamato dall’americano che distruggerebbe i conti pubblici di qualunque membro dell’alleanza che non fosse gli Stati Uniti.

I conflitti tra Bruxelles e i paesi del gruppo di Visegrad

Fin qui la riflessione che riguarda i finanziamenti della futura (possibile) difesa europea. Ma essa va inserita in un ragionamento dai confini politici ben più ampi. A considerare realisticamente il passato dei rapporti tra l’Europa politica e la NATO bisogna riconoscere che un certo livello di confusione tra i due piani c’è sempre stato, anche quando dell’Unione facevano parte paesi almeno teoricamente neutrali come la Svezia e la Finlandia, più l’Irlanda, Malta, Cipro e l’Austria che ci sono ancora. La commistione si fece più forte in vista dell’ingresso nell’Unione dei paesi orientali dell’ex blocco sovietico, i quali tendevano a considerare l’appartenenza all’Europa politica una sorta di protezione contro l’ancora esistente minaccia russa. Cioè attribuivano all’Unione il compito che era proprio della NATO e consideravano l’adesione alla prima e alla seconda come due aspetti della stessa scelta “occidentale”. Si arrivò al punto che questa impropria identificazione fu in qualche modo ufficializzata dal presidente statunitense di allora, Billy Clinton, il quale chiese al Presidente della Commissione UE di imporre prima l’ingresso nella NATO agli Stati che chiedevano l’adesione all’Unione.

L’approccio dei paesi dell’est descritto sopra, considerare l’Europa più una garanzia di sicurezza contro la minaccia da est che l’adesione a un progetto di costruzione di una dimensione politica comune con le sue regole e le sue idealità, ha portato con sé una serie di distorsioni e di conflitti tra Bruxelles e gli Stati del gruppo di Visegrád sulla quale non ci si può soffermare qui, ma va detto che se una certa confusione di ruoli fra l’Unione europea e la NATO c’è stata almeno dagli anni ’90 in poi, essa è stata relativamente gestibile, salvo qualche crisi ricorrente, finché gli interessi economici e le visioni strategiche tra Washington e l’Europa convergevano o almeno non divergevano troppo.

Ma ora? A dimostrazione di quanto la situazione dei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico sia cambiata basta il fatto che la riunione di Bruxelles, convocata per discutere di difesa comune, è inevitabilmente scivolata sulla questione dei dazi trumpiani e mentre si partiva dal riconoscimento di doversi preparare all’ipotesi di una teorica guerra con l’esterno, la Russia, la discussione si è concentrata su una concreta guerra con gli USA. Guerra commerciale, certo, ma senza alcuna garanzia che non trabocchi in qualcosa di molto più minaccioso. La storia in materia è triste maestra.

Bisognerebbe chiedersi, a questo punto, se e quanto ancora le istituzioni di Bruxelles possano rimanere nella vaghezza e nell’indecisione su che cosa si intenda e si voglia fare in termini di difesa europea. Se essa debba essere il puro e semplice rafforzamento della componente militare europea della NATO, da realizzare inevitabilmente a spese dello Stato sociale e degli investimenti per lo sviluppo paese per paese, oppure la prosecuzione di un cammino governato da Bruxelles verso la piena integrazione politica del continente. Semmai le due cose abbiano potuto in passato coincidere, non pare proprio che questo sia più possibile. La Presidente attuale della Commissione, della quale si dice che in passato abbia considerato la possibilità di candidarsi alla segreteria generale della NATO, sembra essersi fissata sulla prima ipotesi, sostenuta da un pessimismo programmatico che vuole in qualche modo la guerra della Russia all’Europa già cominciata. Così però l’idea di Europa ce la giochiamo e non è per niente detto che in un Occidente trumpiano saremmo in grado di ritrovarla.

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