Ogni volta che un papa muore e un papato termina, l’imponente coreografia di Piazza San Pietro – la sua geometrica potenza, verrebbe da dire se non suonasse blasfemo – testimonia la grandezza dell’istituzione-Chiesa, che tale permane nonostante la sua tanto proclamata crisi. E ogni volta quella coreografia sembra fare posto ai potenti della terra solo per dimostrare loro che fra la politica della Chiesa e la politica secolare non c’è partita, perché la prima mantiene, con il rigore formale e l’esattezza dei codici, quella tensione alla trascendenza che la seconda ha completamente perso e rinnegato, anche e tanto più quando fa della religione un’arma impropria di legittimazione del potere.
Tutto sembra ripetersi uguale nell’ossequio della tradizione: la bara del pontefice al centro della scena; nell’anfiteatro attorno, sulla sinistra il rosso e l’oro dei cardinali e il viola dei vescovi, sulla destra il nero dei capi di stato e di governo, costretti all’ordine alfabetico; più in là il bianco del clero; infine, come fosse da accogliere ma tenendolo a debita distanza, il popolo che accorre vestito come può. Eppure, nella continuità della scenografia e del messaggio, quale differenza fra il funerale di Francesco oggi e quello di Giovanni Paolo II vent’anni fa.
Allora, il rigore delle forme e l’esattezza dei codici rappresentava una Chiesa ancora imperiale, che era nata dalla sconfitta del comunismo anzi ne era stata parte determinante, accettava la sfida della globalizzazione ma guardandola ancora da un supposto centro europeo, rifletteva, e spesso anticipava, il cambiamento delle forme della politica: la curvatura populista del rapporto fra il capo e i fedeli (checché se ne dica oggi, è stato Wojtyla, non Bergoglio, il primo papa populista), l’accentuazione biopolitica del governo dei corpi e delle anime, l’uso spregiudicato dei mass media nella costruzione dell’egemonia.
Oggi, la riforma apparentemente minima della liturgia funeraria voluta da Francesco ne smonta di fatto il sostrato gerarchico, e riporta alla più ampia riforma che ha contrassegnato il suo pontificato. La bara uguale a quella dei comuni mortali e senza catafalco toglie al vicario di Cristo l’aura regale e lo umanizza; il percorso da San Pietro a Santa Maria Maggiore, a bordo della papamobile bianca e frugale e in mezzo a due ali di fedeli, ribadisce che la Chiesa deve uscire dal perimetro dello Stato vaticano, e il popolo dal ruolo di contorno della tribuna dei potenti; l’approdo a Santa Maria Maggiore fra gli “scarti” umani – detenuti, migranti e trans, occultati dalle televisioni mainstream – riflette la Chiesa “aperta a tutti” e “ospedale da campo” di Bergoglio, con al centro un Papa che non si è limitato a parlare al suo popolo ma è andato a incontrarlo nelle periferie del mondo, sui confini fra gli Stati e ai margini della società, portando la croce e la redenzione di Gesù dove più forte è il disagio, più stridenti le contraddizioni, più acute le ingiustizie, più violente le reclusioni e le deportazioni.
Dove cioè la volontà di potenza del “capitalismo sfrenato” ha mostrato il suo risvolto catastrofico. A differenza di Giovanni Paolo II, della globalizzazione Francesco non ha attraversato la fase trionfante bensì quella fratturata dall’incombenza di crisi devastanti, da quella climatica a quella pandemica a quella migratoria, e dal ritorno in grande stile della guerra al centro della scena. E a differenza di Benedetto XVI, non ha cercato di affrontarle concimando le radici cristiane dell’Europa, le ha afferrate una per una spostando radicalmente il punto di vista aldilà del perimetro dell’Occidente. Se non è una rivoluzione, di certo è una rotazione dalla quale la Chiesa prossima ventura non potrà prescindere: non solo nella prosecuzione (o nel tradimento) dell’agenda di Bergoglio, ma anche e tanto più negli orientamenti che si troverà ad assumere, mediando necessariamente fra prospettive culturali assai diverse, sulle questioni ad alto impatto antropologico e ontologico – sacerdozio femminile, sessualità, genere, post-umano, intelligenza artificiale – che Francesco ha lasciato aperte e che incombono sul prossimo futuro.
Da questa rotazione non dovrebbe prescindere neanche chi in attesa del conclave si esercita a ipotizzare quale sarà la Chiesa post-bergogliana, applicando automaticamente e malamente alla comunità cristiana gli schemi, peraltro consunti, della politica secolare occidentale. Un fatto è certo: sulle grandi sfide globali del nostro tempo, la voce autorevole di Francesco non ha trovato interlocutori alla sua altezza. Non sulle questioni come la crisi ecologica, la pandemia, le migrazioni, che domandano un governo dell’interdipendenza globale e alle quali la politica ha risposto invece erigendo muri e gonfiando i muscoli dei nazionalismi. Non sulla “guerra mondiale a pezzi”, l’allarme massimo di Francesco rimasto inascoltato precisamente da quanti non gli hanno mai perdonato il suo mancato allineamento con il fronte occidentale, tanto in Ucraina quanto in Palestina.
Quei muri e quella sordità restano sul campo come un marchio d’infamia della classe politica responsabile di un disordine mondiale ormai fuori controllo. La fiera dell’ipocrisia che si è scatenata in morte di Francesco non basta a rimuoverlo, come non bastano due foto-opportunity strappate nel backstage del rito del commiato. Sul sagrato di San Pietro, quella della tribuna politica era e rimane una macchia davvero nera.
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