Sulla marcia dei quarantamila è stato scritto di tutto e di più; abbondano le memorie dei protagonisti e i saggi di quasi tutte “le scuole di pensiero”. Non mancano intuizioni e riflessioni molto profonde, forzature, strumentalizzazioni e finanche qualche auto-assoluzione con tanto di vera e propria rimozione.
Certo è che quel corteo di quadri, impiegati (e anche operai) che sfilarono a Torino 45 anni fa, il 14 ottobre del 1980, è ormai assunto a simbolo – nell’immaginario collettivo – della chiusura di un decennio glorioso per noi (gli anni ‘70 con la riscossa operaia e lo Statuto dei Lavoratori, le grandi conquiste sociali e civili, l’avanzata del PCI al di “qua” del muro ecc.) e pericoloso e destabilizzante per altri (a partire da quelli che poi si riunirono nel 1992 sul Britania). La fine di un ciclo sociale, politico e finanche culturale e l’inizio dei rampanti ed edonistici anni ‘80 (segnati dall’egemonia craxiana in italia, liberista negli USA e nel Regno Unito, dalla crisi del c.d. socialismo reale ad est).
E fu certo una data che successivamente è stata assunta (nella pubblicistica sicuramente) anche a grande sconfitta operaia, all’inizio (ma in realtà così non era, le difficoltà si erano già manifestate) di quel processo di dissoluzione dell’unità sindacale che culminò poi, anche formalmente, quattro anni dopo con il referendum sulla scala mobile.
Vi sono letture che enfatizzano i ritardi nel cogliere il cambio tecnologico e le trasformazioni in atto all’epoca dell’apparato produttivo nazionale e internazionale; altre che si cimentano sul cambiamento dei costumi (e dei consumi) con un ritorno a un individualismo per troppo tempo sacrificato dalla dimensione collettiva (nella società, nei luoghi di lavoro, finanche nelle relazioni interpersonali). Vi sono autori che puntano il dito sugli errori tattici e strategici del sindacato e del principale partito d’opposizione (chi non ha mai visto la foto di Berlinguer ai cancelli della FIAT e chi non ricorda la frase detta, rispondendo a un delegato della FIM-CISL, sull’eventuale occupazione della fabbrica; frase poi decontestualizzata e spesso finanche strumentalizzata). E altri ancora hanno sottolineato – forse un po’ troppo “modello Spectre” – come quell’occasione fu astutamente ricercata e poi sfruttata da parte delle imprese per riprendersi il controllo dei luoghi di lavoro, con una stretta autoritaria volta a limitare le capacità del sindacato e dei consigli di fabbrica di incidere sull’organizzazione del lavoro, da quel momento tornata gradualmente ma inesorabilmente nelle mani dei tecnici della produzione taylorista, come campo di decisione esclusiva dell’azienda. E potrei continuare, evidenziando le varie tesi, senza avere ovviamente le conoscenze e soprattutto la pretesa di evidenziarne nel dettaglio validità e strumentalità.
Anche perché sarei portato ad assumere comunque più elementi sia di contesto, sia di trasformazione produttiva e sociale, sia di gestione della vertenza come tutti fattori incidenti sull’esito finale, coesistendo più spinte. Insomma provando ad assumere la complessità per leggere fenomeni complessi.
Eppure – fatta questa lunga e necessaria premessa e con l’intenzione di rivolgere questo scritto alle compagne e compagni più giovani della CGIL – ancora oggi ritengo utili e preziose le riflessioni che a caldo (anzi a “caldissimo”) caratterizzarono l’intervento di Sergio Garavini, all’epoca Segretario confederale della CGIL e poi, qualche anno dopo Segretario Generale della FIOM. Il 22 ottobre fu lui, a nome della Segreteria (anche se con la contrarietà di Giovannini come Garavini ricorda all’inizio della relazione) a porre al massimo organismo della CGIL alcune questioni, spunti, critiche e autocritiche (per chi è interessato al testo integrale, conservato nell’Archivio Storico della CGIL Nazionale, rinvio al libro di A. Ballone e F. Loreto “Sergio Garavini. Il sindacalista politico”; Edizioni Ediesse 2010). Riflessioni che, rilette 45 anni dopo e senza ovviamente pretendere una meccanica trasposizione ai temi dell’oggi, hanno a mio parere ancora una grande valenza.
Se non altro per come all’epoca si discuteva, ci si interrogava e soprattutto per come ci si poneva il tema del giusto messaggio che il mondo del lavoro doveva dare, di carattere generale e rivolto sempre al futuro, in grado di allargare alleanze dentro e fuori i luoghi di lavoro, di tenere insieme la singola vertenza, per quanto importante, con una capacità rivendicativa a tutto campo. Dove merito, proposta, lotta, contrattazione, partecipazione dei lavoratori erano fasi di un unico processo che tenesse sempre legate le “avanguardie”, la parte più attiva e sensibile del mondo del lavoro, con la grande maggioranza di operai, impiegati e tecnici. Almeno questo era il pensiero di Sergio Garavini.
Garavini – lo scrivo sempre per i più giovani – era del resto espressione, pur con tratti specifici (“operaisti” diremmo oggi, sapendo quanto parziale e probabilmente non accettata dallo stesso Garavini, sarebbe questa etichetta) di quella generazione che segnò la stagione di attuazione del ritorno alla fabbrica indicato da Di Vittorio dopo l’autocritica per le elezioni (perse) alla FIAT nel 1955 e che avrebbe animato poi la stagione dei consigli.
Garavini fu – scrisse una volta Guglielmo Epifani – tra “le figure principali di quel sindacalismo della classe, più autonomo, democratico e unitario di altre culture sindacali, affermatosi trasversalmente nel 1968-69 e che rappresentò una sfida importante alla linea tradizionale del sindacato, molto radicata nella stessa CGIL di Novella”. E ancora (scrive Trentin nei suoi Diari) “Sergio è l’unico che esprime una linea alternativa e compiuta a quella che vado proponendo” (siamo alla vigilia della Conferenza di Programma di Chianciano). Per lui “la libertà o ha una dimensione collettiva e rivendicativa, anche articolata, anche innovativa, ma sempre a partire dai luoghi della produzione, o non è piena libertà”. Probabilmente – come mi disse una volta Iginio Ariemma (amico di Trentin e curatore dei suoi diari) – Garavini era uno dei pochi dirigenti veramente stimato da Bruno perché portava avanti fino in fondo una visione di sistema più togliattiana e comunista, molto diversa da quella, più eretica (Trentin nasceva infatti azionista) del Segretario Generale. E non a caso – a completamento di questa sommaria descrizione di Garavini, sempre per i più giovani – Sergio continuò la propria esperienza dopo la CGIL come Deputato del PCI e poi come primo segretario di Rifondazione Comunista (per chi è interessato oltre al libro già citato ricordo due testi: “Le ragioni di un comunista. Scritti e riflessioni sullo scioglimento del PCI e sulla nascita di una nuova forza comunista in Italia”; Garavini Sergio, Datanews, 1991; e “Ripensare l’illusione. Una prospettiva dalla fine del secolo”; Garavini Sergio, Rubbettino, 1999).
Ma cosa disse e quali temi pose Garavini quel 22 ottobre del 1980?
Prima di tutto pose un tema di metodo: era giusto o no fare questa discussione per capire errori tattici e strategici, capire la portata dello scontro e i suoi esiti (la FIAT era veramente centrale in termini politici ma anche “numerici” in quegli anni in Italia, tanto che si diceva “quello che va bene per la FIAT va bene per l’Italia”). E poi come questa discussione sarebbe stata comunque un contributo, non certo una definizione compiuta, alla discussione che unitariamente si sarebbe fatta con CISL e UIL all’interno della Federazione unitaria.
Ma soprattutto Garavini entra subito con i piedi nel piatto:
“Non c’è dubbio che la lotta c’è stata alla FIAT e i risultati di questa lotta sono destinati a incidere profondamente sui destini del movimento sindacale e sulla nostra prospettiva”. [C’è stato] “un tentativo di teorizzare la vicenda in puro termine di sconfitta del sindacato e tuttavia non possiamo cavarcela con una difesa e valorizzazione della portata della lotta […] con la saggezza tattica che vi è stata nel concludere l’accordo: al contrario dobbiamo avere la forza di aprire noi il discorso critico il cui punto di partenza evidentemente deve essere una valutazione relativamente alla lotta e ai risultati”.
È vero, dice Garavini
“la lotta ha avuto momenti di grande partecipazione e solidarietà, anche di importanti forze politiche” [ma] “allo stesso tempo dobbiamo sottolineare che lo sviluppo della lotta ha marcato un crescente isolamento del nucleo operaio più attivo della FIAT” [e] “poi una rottura tra questa avanguardia e una parte decisiva dei lavoratori e della stessa città, fino a quel momento clamoroso di frattura rappresentata dalla grande manifestazione di massa che l’associazione quadri intermedi della FIAT ha promosso, in cui vi è stata una partecipazione di capi, di impiegati, ma anche di operai e anche un riferimento di opinioni nel corso della stessa manifestazione, che certamente deve essere da noi valutato in tutta la sua portata”.
Garavini continua poi spiegando la bontà della mediazione (l’applicazione dell’articolo 4 del CCNL metalmeccanico secondo l’interpretazione sindacale, quindi con la non predeterminazione di eventuali licenziamenti dopo i due anni di cassa integrazione) e i limiti di questa (non essere riusciti a superare la cassa integrazione a zero ore solo per una parte dei lavoratori, contro la proposta di una cassa a rotazione su tutti), ma il punto è un altro.
Garavini si chiede perché
“questo compromesso che sul piano della tecnica contrattuale […] non è certo il peggiore accordo che abbiamo fatto su questa materia e anzi per certi aspetti anzi profondamente e positivamente innovativo” [è stato visto] “e vissuto da una parte degli operai e certamente dalla maggioranza del nucleo più attivo impegnato nella lotta, come una sconfitta”?
E su questo il Segretario nazionale della CGIL chiede “ai compagni di andare fino in fondo nella nostra discussione” [perché oggi emerge che] “c’è un problema politico e i problemi sono questi di linea, di condotta tattica e di portata generale ed è su questo fatto, su questo dato di carattere generale, sulle responsabilità confederali che dobbiamo concentrare la nostra attenzione”.
Senza nessuna forma – dice sempre testualmente Garavini – di “gattopardismo”, perché il tema non è fare “una discussione per essere tutti colpevoli o tutti assolti”, si deve “avviare tra noi una discussione sincera per poi andare avanti”.
E allora Garavini da la sua (della Segreteria CGIL) prima lettura politica:
“Quale è stato il terreno della lotta? Il terreno della lotta è stato la crisi, la crisi economica internazionale ed interna, la crisi dell’industria del settore dell’auto e della FIAT” [ma a un certo punto questa linea] “è stata messa in discussione nel corso della lotta”.
Per Garavini a un certo punto il tema non è stato più come stesse cambiando la struttura dell’industria nel nostro paese, ne se ne sarebbe uscita una struttura diversa dell’occupazione, in termini quantitativi e qualitativi, in termini di governo di una possibile diversa organizzazione del lavoro, “ma a un certo punto – si chiede retoricamente Garavini – non è che si è discusso esclusivamente di come difendere gli apparati produttivi e l’occupazione negli apparati produttivi così come sono, ritenendo questo il terreno per meglio difendere le conquiste ottenute dentro e fuori l’azienda”?
Continua Garavini:
“Vi parranno interrogativi apparentemente elementari che noi pensiamo di aver sciolto e invece, francamente da questi interrogativi bisogna ripartire”.
Questa incertezza, secondo Garavini,
“ha senza dubbio dato grande rilievo politico alla nettezza con cui il padrone ha risposto a questi interrogativi dicendo che nella crisi le cose devono cambiare e proponendo naturalmente la sua linea di cambiamento con un forte richiamo all’ordine, all’autorità, all’autoritarismo”.
“Dentro questa linea padronale c’è un contenuto […]: la risposta alla crisi è sostanzialmente una riduzione della base produttiva dell’azienda”. E all’inizio “la lotta contro i licenziamenti alla FIAT ha avuto per noi un contenuto di alternativa ad una possibile risposta alla crisi” e qui Garavini ricorda i dati di produzione e indebitamento e ricollega la vertenza specifica alla più generale battaglia della CGIL (in particolare verso le aziende partecipate e le imprese chimiche) per una politica industriale di riconversione produttiva, di qualificazione e specializzazione, di concentrazione di alcune attività per un verso di articolazione per altri, consapevoli che queste rivendicazioni avrebbero comportato “modifiche di organi del lavoro e di struttura dell’occupazione funzionali a questa qualificazione, specializzazione, concentrazione, articolazione”, coinvolgendo tutte le “funzioni di impresa” comprese le attività di ricerca e le spinte a collaborazioni interne ed internazionali “in questa direzione”.
Insomma la vertenza FIAT nasce dentro un
“discorso più complessivo che portiamo avanti, un progetto di programmazione e riforme anche (…) contro determinate posizioni che tendono a confinare le possibilità di espansione produttiva nelle aziende di minori dimensioni, in settori che non richiedono grande impegno di ricerca e tecnologie”.
Quindi per sintetizzare
“una linea alternativa contro il declassamento della grande industria, con i riflessi evidenti per l’intera economia nazionale e per la quantità e qualità dell’occupazione”.
Ma cosa è successo poi? Qui il primo giudizio, a caldo, della Segreteria CGIL è netto:
“È evidente compagni che nello sviluppo della lotta, di questo scontro fra una linea di riduzione della basa produttiva e una linea che punta invece alla rivoluzione della grande industria in un disegno di programmazione e sviluppo del paese, questo tema è rimasto progressivamente in ombra ed è emerso sempre più il tema propriamente politico del governo dell’impresa, del rapporto di potere fra il sindacato e il padrone”.
E questo “fino a che la battaglia in sostanza è finita ad essere solo una lotta in difesa” nella “quale scivola in ombra il contenuto economico di sviluppo”, lo scontro diventa “frontale” su un “terreno più confacente alla rigidità padronale”.
Uno scontro frontale in cui
“progressivamente abbiamo perduto sulla stessa questione dell’esercizio del potere contrattuale nella fabbrica, i caratteri concreti e definiti che erano presenti nella nostra piattaforma della vertenza, cioè le nostre specifiche proposte sulla mobilità, sull’organizzazione del lavoro, sull’orario di lavoro di fatto, che sono scivolate in secondo piano così come insieme ai temi generali economici e di programmazione”.
La vertenza “ricondotta quindi a uno scontro frontale sul potere in fabbrica” non poteva quindi non portare a quella specifica forma di lotta che è stato lo sciopero a oltranza. Una forma
“nella quale non vi è più una massa di lavoratori chiamata a essere protagonista nella lotta in un dibattito non solo nelle forme di lotta, ma sui problemi reali in tutta la loro articolazione […] e rispecchiati in una articolazione della piattaforma”.
E Garavini continua
“e in questa analisi impietosa che così vi vado proponendo” [che dobbiamo registrare] “questo vero e proprio, in parte almeno, ritorno al passato che abbiamo avuto nel contenuto e nella natura dello scontro – un passato anche glorioso, intendiamoci, ma tutto riferito ad un’altra situazione […]”.
E questo diviene l’interrogativo di fondo.
Quindi Garavini comincia a entrare ancora di più in profondità, con una franchezza e durezza politica a cui forse non siamo più abituati:
“vi è una prima risposta che può essere data. Non siamo riusciti ad offrire alla FIAT, non abbiamo offerto alla lotta alla FIAT, un quadro abbastanza efficace di un progetto complessivo” ma questa tesi, ancor che giusta, ancor che utile non “mi pare ancora una spiegazione completamente sufficiente”.
Per Garavini si paga la mancata correlazione pratica tra proposta complessiva e azione contrattuale e rivendicativa quotidiana: il “punto di collegamento” dice esplicitamente. E torna alla FIAT:
“Pensiamo alla FIAT. Se noi contrapponiamo all’azienda la proposta di un evoluzione della base produttiva, nella crisi, nel contenimento della domanda, nell’acuirsi della concorrenza internazionale, è chiaro che non basta dire: voi dite un milione e duecentomila vetture l’anno, noi ne proponiamo due milioni. Sarebbe persino sbagliato formulare così il nostro progetto […]: se vogliamo pensare a una proposta di evoluzione della base produttiva in questo contesto, siamo noi a doverci porre il problema della modifica della struttura produttiva e anche della struttura dell’occupazione, a proporre nuove condizioni di governo dell’impresa, sulla mobilità, sugli orari di lavoro, nel senso di una loro riarticolazione forse anche elasticità, sull’organizzazione del lavoro, dove ci ripromettiamo di andare oltre certe cristalizzazioni delle linee e (…) quindi come contrattiamo periodicamente obiettivi produttivi e di organici, come impostiamo e risolviamo il problema cosiddetto delle saturazioni, cioè dei livelli produttivi richiesti individualmente e collettivamente, come risolviamo i problemi, in questo contesto concreto, dell’orario di lavoro, dell’equilibrio ad esempio fra le fermate tecniche e la pausa mensa”.
E continua con un punto strategico:
“Se la nostra è una proposta non di difesa della struttura sociale e produttiva esistente nella quale ci sono le nostre conquiste, ma di modifica di questa base sociale e produttiva esistente, noi dobbiamo cambiare il terreno delle conquiste che abbiamo ottenuto in fabbrica negli anni ‘70 e quindi dobbiamo essere noi a scegliere e rempistare diversamente le rigidità e le garanzie […]”.
E se l’alternativa è la difesa solo di quello che c’è bisogna essere consapevoli che
“cosi andiamo a degli scontri frontali, durissimi, nei quali siccome l’esigenza di cambiare la struttura produttiva, che è oggettiva nella crisi, sta tutta dalla parte del patroni noi prima resistiamo e poi perdiamo”.
Di questo errore strategico Garavini si assume la responsabilità, rimandando anche ai “nodi non sciolti nei nostri orientamenti” e sul fatto che si è compiuto un “errore non tattico, strategico” anche poco coerente con quell’articolo 4 del CCNL con cui lo stesso sindacato metalmeccanico aveva assunto il tema della riorganizzazione delle strutture produttive e delle ricadute occupazionali e sociali.
Garavini quindi continua e anche la seconda parte dell’intervento è assai interessante, indicativa e coerente con l’impostazione di partenza.
Garavini si pone il tema della funzione del consiglio di fabbrica in una fase di lotta e non di specifica e articolata contrattazione, al rapporto tra consigli e masse dei lavoratori nella costruzione degli strumenti di lotta più adatti e pone poi temi di grande attualità (all’epoca e se vogliamo in termini di versi ancora oggi): il tema di cosa “agganciare” alla mobilità interna ed esterna (sul mercato del lavoro) a fronte del cambio tecnologico e della domanda, il tema degli orari di lavoro, il tema di riconoscere in termini salariali meglio i vari contributi professionali alla produttività, il tema di articolare orari ed “elasticità” per evitare esternalizzazione dei cicli produttivi (potremmo dire oggi i “primi appalti”), redistribuendo in maniera diversa o generalizzata gli stessi orari. Garavini dice a un certo punto
“votiamo, poi chi ha ragione vince e si va avanti; però si decide, non possiamo far finta di avere una linea e adottarne un’altra. Questa è proprio la cosa più nociva per tutti noi, più pericolosa per l’organizzazione e tutti noi possiamo cambiare idea, valutazioni, analisi e orientamenti, ma insieme”.
Concludo, riportando, in una visione a mio parere coerente sul punto posto relativo al “cosa fare, chi deve fare e come”, le parole di Garavini sul funzionamento della democrazia sindacale.
“Io mi limiterei alla materia assemblee-delegati-consigli, intanto ristabilendo fra noi nel movimento qualche verità. I delegati e i consigli non sono nati per una rigida gestione di norme […] tutto al contrario, sono nati per spezzare una contrattazione basata sull’applicazione di norme costituite e predeterminate, come prevalentemente era diventata la gestione delle commissioni interne, e per ristabilite una contrattazione dinamica capace di adeguarsi alle mutevoli condizioni della struttura produttiva, della composizione degli organici e via dicendo”.
“Secondo – continua sempre il dirigente – i sindacati non sono nati per dare spazio a una concezione di un sindacato come sindacato delle avanguardie, all’opposto: i sindacati sono nati come risposta di tutti i lavoratori a una concezione della lotta operai secondo cui la lotta è fatta di avanguardie che trascinano le masse. […] Terzo, i sindacati si sono formati contro la demagogia salarialista ed egualitarista. Non per sostenerla”.
Quindi pone
“il problema di una rivalorizzazione dei delegati e dei consigli è problema di riuscire a portare dentro questa struttura primaria del sindacato i contenuti veri dei problemi che ci stanno di fronte. Io mi chiedo, per esempio, questa lotta all’estremo su tutte le rigidità, questo avanguardismo verbale, questa logica per vince il più uno, sono nati dai delegati e dai consigli, o non sono stati con una accentuazione drammatica, soprattutto negli ultimi anni, qualche cosa che è stato versato nei delegati e nei consigli dall’esterno?”
E due affermazioni lapidarie chiudono questo ragionamento. La prima:
“bisogna fare uno sforzo per cui questa struttura (i consigli di fabbrica n.d.r) primaria non sia più la palestra di esercitazioni verbali prevalentemente di funzionari di un apparato sindacale che è già troppo vasto, ma sia terreno in cui ci si cimenta su un’analisi sulla situazione reale, sulla crisi, sui rapporti di forza, sulle condizioni dei lavoratori di quel reparto, di quell’officina, e sul modo come rispondere a queste condizioni dei lavoratori”.
La seconda, con l’affetto che solo un torinese potrebbe avere verso gli operai della FIAT, è dolce e amara (ma lucida) allo stesso tempo:
“Ora io capisco i compagni di quelle leghe, di quelle strutture che erano nella delegazione, di cercare di presentare una realtà sui suoi termini positivi […], ma attenzione perché la capacità di vedere la realtà delle situazioni fino in fondo è decisa per noi, anche nel nostro costume”.
La discussione fu lunga e articolata e di fatto, forse, in modo carsico ancora non ci ha abbandonato del tutto, ma vale la pena ricordare le parole finali di quell’importante intervento: nelle prossime settimane dovremmo essere in campo “con una capacità di proposta di rinnovamento del sindacato, su una linea che non è il sindacato dei soci, che non è il sindacato delle avanguardie, ma (è il sindacato che fa propria) la linea della democrazia organizzata di massa” e “della capacità di tenere insieme i lavoratori” sempre.
E io credo che con limiti, errori, contraddizioni la CGIL di oggi sia ancora quella forza democratica che tra governo dei processi e vertenzialità, conflitto e coinvolgimento, prova a tenere insieme la singola condizione di quella specifica realtà produttiva (certo cambiata, destrutturata, de materializzata, ecc.) con una visione più generale di cambiamento e sviluppo.
Certo, non è possibile piegare all’oggi le parole e le riflessioni di Garavini così come di altri dirigenti sindacali, leader politici, intellettuali che operarono in contesti specifici, in momenti definiti. E non vale – per quanto umano – consolarsi o autoconsolarsi in una dimensione di nostalgia, quando tutto sembrava (a noi) più facile (e neanche è vero probabilmente).
Ognuno è artefice e protagonista dei propri tempi: ma ricordare come si discuteva, come anche si ricercava il dibattito, il confronto e soprattutto come si sentiva il dovere di accompagnare la critica sempre con una proposta, è utile.
Poi ognuno lo faceva (e lo fa ancora) con gli strumenti a lui più consoni e per il sindacato confederale rimane prioritaria la capacità vertenziale, contrattuale, ma anche di proposta politica nel senso proprio del termine.
Soprattutto ricordare certi testi, certe elaborazioni (e tante altre sono nel nostro bagaglio culturale) per i più giovani è utile anche per far capire perché la CGIL oggi è ancora in campo, perché ancora fa dell’inclusione, della democrazia, della partecipazione e – attraverso l’azione collettiva – della ricomposizione in chiave solidale delle varie condizioni lavorative e sociali, la propria ragione d’essere.
Perché cambiare, mettersi in discussione, ripensare modelli organizzativi e pratiche è nel nostro DNA e nella nostra vocazione a essere sempre in sintonia con il mondo che cambia, adattandoci noi al lavoro che evolve (o purtroppo involve) facendo i conti con la realtà per come è. Proprio per cambiarla fino in fondo.
Perché alla fine i nostri peggiori limiti si continuano a chiamare paura di cambiare, paura di rimettersi in gioco tutti i giorni, paura di sperimentare forme e strumenti nuovi per essere un sindacato generale.
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