Lo spettacolo fornito dalla Camera nella seduta finale che ha dato il via alla seconda legge di bilancio del Governo Meloni è stato assolutamente sconfortante, soprattutto per chi lo vedeva con gli occhi dell’opposizione. È andato in onda – termine appropriato vista la diretta televisiva delle dichiarazioni di voto – il cosiddetto “patto del cotechino”, maliziosa ma più che giustificata definizione giornalistica, con cui è strato descritto l’accordo precedentemente preso nella conferenza dei capigruppo. Ovvero il Governo rinunciava ad apporre la questione di fiducia e le opposizioni riducevano a 90 la miriade di emendamenti in precedenza sbandierati, rinunciando a ogni forma di ostruzionismo. Accontentandosi della certezza che le dichiarazioni di voto sarebbero andate in diretta televisiva tra le 18 e le 19. Non solo il cotechino, ma, come vuole la tradizione, anche il piatto di lenticchie. Della diretta televisiva peraltro ha approfittato soprattutto il capogruppo di Fratelli d’Italia per rilanciare, davanti a un pubblico ben più largo, le deliranti parole della chiusa del manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti, tanto per chiarire che la cultura fascista, compresa quella d’antan, è stata ormai pienamente sdoganata in tutte le sue varianti. Il Governo poi si sarebbe mostrato disponibile verso gli ordini del giorno, come si sa privi di qualunque valore vincolante, accogliendoli in toto o come raccomandazione. Eppure non ci voleva molto a portare l’Esecutivo all’esercizio provvisorio. Seppellendo così tutte le dichiarazioni sulla maggiore efficienza del Governo in carica spese a piene mani dalla Presidente del Consiglio. Il senso dello Stato del PD non ne avrebbe sofferto più di tanto, visto che il ricorso all’esercizio provvisorio non poteva menare scandalo, in quanto sbocco più che logico di una manovra presentata come blindata dallo stesso Governo, vero responsabile dello stritolamento delle regole che sovraintendono la discussione della legge fondamentale dello Stato.
Proprio questo comportamento finale delle opposizioni parlamentari – rispetto al quale singoli deputati hanno rilasciato dichiarazioni o contrarie o pentite, ma ex post – alimenta la sensazione che, al di là dei toni di voce, questa manovra da 28 miliardi finanziata in deficit per 15,7 miliardi, è stata presa sottogamba. Forse non si tratta solo di una incosciente sottovalutazione, ma del fatto che in fondo essa stabilisce una continuità con la politica economica perseguita da Mario Draghi e dal suo Governo – che potrebbe essere definito di “unità nazionale” – seppure con l’indigeribile condimento di una particolare cattiveria sociale. Essa, infatti, si colloca entro l’alveo di una manovra prociclica, persino restaurando la teoria della neutralità delle manovre di bilancio rispetto all’andamento dei mercati, rimanendo costretta nel letto di Procuste delle scelte economiche e finanziarie della UE e della BCE, peraltro sostenute con entusiasmo dalla Meloni nel suo continuo girovagare per il vecchio continente. A questa sottomissione si è cercato di apporre la foglia di fico del diniego parlamentare alla cosiddetta riforma del MES. Il massimo dell’ipocrisia fino alla sfacciataggine. Il Parlamento, o quello che resta dopo il taglio dei parlamentari, prima viene travolto da una valanga record di decreti-legge e di voti di fiducia, poi viene resuscitato quando serve ad evitare strappi letali nella maggioranza di governo, le cui opinioni sul MES non sono come è noto concordanti.
Persino su questa questione non si è levata una voce che riprendesse la critica da sinistra al MES, visto che anche Sinistra Italiana – per non incrinare il suo rapporto con i Verdi – si è rifugiata nell’astensione. Eppure la vicenda del MES più che importante in sé, lo è soprattutto per i suoi nessi con i cambiamenti previsti nel Patto di stabilità e crescita, presentati come un nobile compromesso dal ministro Giorgetti, ma che tutti giudicano peggiorativi della stessa proposta precedentemente avanzata dalla Commissione europea.
L’accusa di antieuropeismo lanciata dalla stampa mainstream nei confronti di chiunque osi opporsi al MES appare grottesca anche dal punto di vista formale. Va ricordato che il MES non è una istituzione europea – con buona pace di Carlo Cottarelli che così la giudica “di fatto” –, ma un organismo istituito il 2 febbraio del 2012 in base a un accordo tra i governi dell’eurozona. È un parto della logica intergovernativa che ha dominato con sempre maggiore insistenza nei vertici europei. Il suo compito è l’assistenza finanziaria a uno Stato membro che la richiede, ma che per ottenerla deve passare le forche caudine della valutazione di sostenibilità del debito. Nella versione “riformata” tale valutazione compete, oltre che alla Commissione europea, alla BCE e, se necessario, al FMI, anche agli organi del MES e al suo direttore generale. In sostanza il MES diventa una figura ibrida, una po’ una banca e un po’ un’ agenzia di rating. Soprattutto perché il monitoraggio sulla sostenibilità avverrebbe anche nei confronti dei paesi che non hanno ancora richiesto un intervento del MES, con la giustificazione di rendere l’organismo sempre pronto a ogni bisogna.
Se si considerano assieme questo ruolo del MES e la “riforma” del Patto di stabilità e crescita, che il Governo italiano ha invece sottoscritto, si ravvisa una evidente duplicazione delle competenze già in capo alla Commissione europea, la quale dovrebbe valutare proprio le condizioni finanziarie in cui si trova ogni singolo paese, in via preliminare alla accettazione del piano di rientro dal debito proposto dal rispettivo governo. Essendo il MES un organo indipendente rispetto alle istituzioni europee, la sua interferenza potrebbe portare a valutazioni divergenti da quelle della Commissione, con la conseguenza di complicare il processo decisionale o addirittura di rivedere il piano. In ogni caso il messaggio lanciato ai famigerati mercati non sarebbe dei più confortanti. Il “compromesso” – tale lo ha definito Giorgetti – sul Patto di stabilità contiene, per alcuni aspetti, elementi addirittura peggiorativi rispetto alla stessa formulazione della Commissione. L’aggiunta delle nuove funzioni del MES renderebbe ancora più evidente non solo la ristrettezza dei margini economici per manovre espansive – se non per spese belliche – ma una forma di commissariamento dei governi nazionali, che potrebbe stringersi ulteriormente in una gabbia a seconda del quadro economico interno e internazionale. C’è chi pensa di riaprire la questione dopo le elezioni europee, altri che già progettano un MES a 19 paesi, con l’Italia fuori. Ma non è certo questo MES, e il nuovo Patto di stabilità che potrebbero spingere verso un’Europa solidale.
Se si scorrono le varie norme che compongono la manovra di bilancio, la cattiveria sociale, cui Meloni ha fatto ampio ricorso, forte di un consenso tutt’altro che intaccato – più per i demeriti di chi dovrebbe contrastarla che per le sue virtù – emerge con chiarezza. La sbandierata conferma del taglio del cuneo fiscale vale solo per il 2024. Il rischio per i lavoratori di una terribile sorpresa a fine anno c’è tutto. A nulla è valso persino il monito elevato da Bankitalia, in sede di audizione sulla Nadef: “A fronte di nuovi oneri di natura permanente (come quelli connessi con la riduzione del numero delle aliquote dell’Irpef) o di difficile rimozione (come, presumibilmente quelli risultanti dal taglio dei contributi sociali) è sempre opportuno individuare coperture certe, di entità adeguata e con natura altrettanto permanente”.
D’altro canto la riduzione delle aliquote Irpef viene attuata non solo sotto la spada di Damocle della mancanza di fondi per confermarla a fine 2024, ma come tappa verso la distruzione del principio costituzionale di progressività nel prelievo fiscale con l’introduzione della famigerata flat tax. Al peggio non c’è fine. Così se ne vanno il reddito di cittadinanza, seppure nella forma spuria con il quale era stato introdotto, per non parlare delle promesse di smantellare la legge Fornero, al contrario irrobustita dalle maggiori difficoltà introdotte sul pensionamento anticipato. Il personale sanitario, gratificato di eroismo durante l’incedere della pandemia, viene ora punito con misure penalizzanti per le sue pensioni, appena un poco ammorbidite nell’ultima versione della legge. L’Iva sui prodotti per l’igiene intima femminile e per l’infanzia sale dal 5% al suo doppio. L’emergenza abitativa rimane tale e senza risposta, se non quella offensiva di destinare 50 milioni di euro, la metà di quanto ha previsto recentemente il comune di Roma. E si potrebbe continuare in un lungo doloroso elenco. Non si può però dimenticare che per il giocattolo di Salvini, il ponte sullo Stretto, si prevede che a pagarlo saranno le Regioni più in difficoltà, visto che le risorse necessarie vengono stornate dal Fondo di sviluppo e coesione.
Eppure il 2024 si presenta come un anno duro da tutti i punti di vista. Le due principali guerre in corso, in Ucraina e in Palestina – ma ce ne sono una sessantina sparse per il globo – non accennano a finire per dichiarazione esplicita dei loro protagonisti. L’Italia è quindi perfettamente allineata – e a questo serve una manovra di questo tipo – entro un’economia di guerra. Le cui spese sarebbero salvate dalla riforma del Patto di stabilità. I tassi di interesse hanno smesso di crescere, ma sia sul versante USA che su quello UE, non hanno ancora intenzione di scendere. I più ottimisti tra gli economisti prevedono che se un taglio ci sarà entro il 2024 sarà nella seconda parte dell’anno e modesto.
Infine, uno sguardo al mercato del lavoro di casa nostra stoppa gli ottimismi della propaganda governativa. I recenti dati ufficiali di fonte Istat parlano sì di un massimo storico di occupati a novembre ’23, ma delle 520mila persone in più al lavoro, 477mila hanno più di 55 anni, ovvero il 92% dell’incremento occupazionale. Il che conferma che si tratta degli effetti della legge Fornero che costringe al lavoro chi altrimenti se ne sarebbe già andato e non di un boom occupazionale, con la conseguenza che il nostro mercato del lavoro è soggetto a un continuo invecchiamento. Il tasso di inattività raggiunge il 33,1%, ovvero un terzo della popolazione potenzialmente attiva non ha e non cerca lavoro. Ed è difficile affermare che ciò sia attribuibile alla liberazione dal lavoro soggettivamente perseguita e susseguente alla fase pandemica, come si va sostenendo con troppa leggerezza. La media del tasso di inattività nella UE è del 25,5%, in Germania siamo al 20%, in Francia e Spagna al 26%. Percentuali che confermano la debolezza strutturale del nostro mercato del lavoro, per il quale necessiterebbe una politica specifica finanziata, questa sì, anche in deficit, alla faccia della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio la cui assurdità è ormai storicamente dimostrata anche dalle ultime fasi che l’economia sta attraversando. Ma certamente una politica economica alternativa non si fa con i “patti del cotechino”.
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