La parola “merito” è vittima dei propri meriti. Che sono tanti in un paese dominato da corporazioni, rendite e oligarchie senza merito. Nel suo significato è implicita una lotta contro tutto ciò che blocca la società italiana impedendone l’innovazione, il ricambio generazionale e la mobilità sociale. Nel sostenere una semantica di carattere polemico la parola si è però molto affaticata. Anche le parole si stancano, dice il Qoéhlet. Si è portati a prendere partito in questa lotta “giusta” e ad approvare indiscutibilmente la parola che ne costituisce il vessillo. L’uso mediatico appiattisce ancora di più il significato, privandolo di senso critico. La mancanza di limiti va a discapito della precisione linguistica. “Sostenere il merito” è come dire “volere bene alla mamma”, senza precisare se la mamma è soddisfatta e senza poter distinguere il figlio amoroso da quello ingrato. Al cattivo uso delle parole seguono spesso politiche sbagliate. Di recente, ad esempio, la Gelmini ha voluto tributare onore al merito intitolandogli addirittura una Fondazione. Si è creato un nuovo carrozzone pubblico, proprio mentre vengono eliminate istituzioni culturali, che dovrebbe assegnare borse di studio esclusivamente in base al merito, senza alcun riguardo per le condizioni di reddito. Il meritevole figlio di papà otterrà un sussidio statale di cui non ha certo bisogno, mentre già oggi non ci sono soldi per dare la borsa ai figli altrettanto meritevoli delle famiglie povere o del ceto medio in difficoltà. Con la retorica del merito si toglie a chi ha bisogno per dare ai ricchi. Il carattere polemico della semantica è ancor più evidente nella tendenza della parola a prendere il potere, trasformandosi in “meritocrazia”. Nell’interpretazione in buona fede si tratta di un potere spirituale inteso come primato morale del merito nell’organizzazione sociale. Ma l’alleanza con il potere non è mai innocua e il significato ne risulta radicalmente deformato. Che cosa significa dare il potere al merito? Nell’accezione più benevola è il demos che tramite elezioni affida le decisioni alle persone migliori. In questo caso “meritocrazia” indica il buon funzionamento della rappresentanza, ma diventa anche un inutile sinonimo di democrazia. Nell’interpretazione più radicale, invece, i meritevoli scalzano il demos instaurando una tecnocrazia. E qui la fortuna della parola incrocia un mito dei nostri tempi condividendone i trionfi e le sconfitte. Solo dieci anni fa Alan Greenspan, capo della Federal Reserve, era il “migliore” al comando dell’economia mondiale e c’è voluta la crisi per rivelare i suoi tragici errori. L’irresponsabilità democratica di questa meritocrazia può essere molto dannosa. Infine, nell’accezione più ambigua, chi detiene il comando si autodefinisce anche meritevole. La gestione del potere è sempre in cerca di giustificazioni. Nell’Italia di oggi molte sedicenti iniziative di eccellenza servono solo a coprire le vecchie speculazioni. Una mistificazione di lungo corso, sfruttata anche dal potere in fabbrica, come ricordava Bruno Trentin nel suo ultimo articolo per l’Unità (13-7-2006). Inutile, dannoso e mistificante – come si vede il “merito” ha solo da perdere nell’alleanza col kratos. In un libro sulla Meritocrazia di grande successo mediatico – già un indizio di scarso merito – Roger Abravanel annuncia che “la performance di un bambino di sette anni in lettura/scrittura offre un’ottima previsione del suo reddito a trentasette anni”. Si dovrebbero quindi selezionare questi bambini con appositi quiz , per aiutarli a diventare ricchi senza preoccuparsi degli altri. È l’esito orwelliano previsto da Michael Young, il quale ha inventato la parola nel suo The Rise of Meritocracy 1870-2033 proprio per denunciare il potere che si impossessa del merito per conservare se stesso. Era “a satire meant to be a warning”, come disse in polemica con Tony Blair poco prima di morire. Abravanel ne fa il proprio testo fondamentale senza averne compreso neppure l’ironia critica. D’altronde, per quale motivo il merito dovrebbe allearsi col potere? È già abbastanza potente, e ha solo bisogno di riconoscimento. Svolgere con competenza un’attività è un’azione meritoria in quanto si offre alla considerazione degli altri. E non riguarda solo le opere di ingegno, né solo quelle utilitaristiche. C’è molto merito nella carezza dell’infermiere verso un paziente, nel ricordo indelebile che la brava maestra lascia nella vita di un persona, nel contadino che pianta gli alberi creando un paesaggio. In tal senso alla “meritocrazia” Stefano Zamagni contrappone la “meritorietà”, che ha l’unico difetto di essere una parola legnosa. Però dice l’essenziale: il merito è un bene relazionale, sempre proteso al riconoscimento. E tende ad assicurarselo con l’avere, il potere e il valere. Nell’ancien regime l’eredità era un merito. La modernità ha risposto inventando il potere del merito. Ma la vera essenza del merito è il valere, la stima di sé che si offre alla grazia del riconoscimento altrui. È una relazione di qualità tra le persone che rifugge sia il possesso sia il dominio. Per questo motivo la parola deve avere un alto rango nel lessico della sinistra. Libera dalla retorica degli incauti ideologi dei nostri tempi.
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