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Articolo su “il manifesto” per la rubrica “Divano” l’08.11.2024.

Non accadeva, anche nel recente passato, che le guerre nel loro infierire quotidiano fossero puntualmente documentate così come avviene oggi. Non sono paragonabili le campagne fotografiche e le riprese cinematografiche che furono girate negli anni Quaranta del Novecento sui fronti militari della Seconda guerra mondiale con quanto mostrano i servizi giornalistici e i filmati che vengono oggi trasmessi dai telegiornali. Senza sosta, le immagini degli eccidi e delle devastazioni sono diffuse giorno per giorno, trasmesse quasi nel momento medesimo in cui la violenza omicida è all’opera.

I teatri di guerra si estendono. Mentre continuava il conflitto armato che dal 24 febbraio 2022 oppone gli eserciti della Federazione Russa e dell’Ucraina, a far data dal 7 ottobre del 2023, è divampata la guerra in Medio Oriente. E così, da tre anni, ogni giorno, scorrono davanti ai nostri occhi immagini di morte.

Di una efferatezza ulteriore, se possibile, abbiamo avuto nell’ultimo anno sconvolgente testimonianza dall’andamento dei fatti bellici ferocemente in corso del Medio Oriente. Vecchi contenziosi, crescente inimicizia, vendette generatrici di odii implacabili oppongono israeliani e palestinesi e da più di cent’anni reiterati scontri, dai minimi e personali ai generali e condivisi, insanguinano le regioni dell’Antico Testamento. In modo che non consente dubbi, da dodici tragici mesi i due contendenti perseguono una strategia improntata ai principi dell’Endlösung, ovvero del finale sterminio e annichilamento dell’avversario. Strategia che impone di condurre operazioni tattiche mirate al mero massacro del nemico. E il nemico non è riconosciuto per tale perché possiede un territorio o esercita leggi giudicate ingiuste o reca offesa e va dunque combattuto fino a vincerlo e costringerlo alle nostre ragioni. No, la vittoria sta nell’annientarlo il nemico. Va cancellato dal mondo. Il nemico è un popolo intero.

Uccidere allora, insieme agli armati, gli inermi. Trucidare i bambini, le donne, i vecchi perseguiti casa per casa a decine e decine di migliaia. Abbattere fabbriche, ospedali, scuole. Devastare campi, strade, porti, acquedotti, ferrovie. Radere al suolo villaggi e città e bruciarne gli abitanti come in una radicale disinfestazione.

Questa scena apocalittica si svolge sotto i nostri occhi. La mattina, con la tazzina di caffè; la sera, con la tazza di camomilla.

A noi è dato prender contezza della nostra morte solo assumendola nella morte degli altri, insegnano i filosofi. Toccherà a ciascuno di noi morire, certo. Ed è sicuro che in tanti modi si muore. Ora, ogni giorno vediamo uomini essere uccisi mentre svolgono le loro quotidiane pacifiche attività, come, ogni giorno, le svolgiamo noi. Chiedo: è dunque questo essere uccisi, questo morire sotto le macerie della nostra casa bombardata che è riservato anche a noi? Una domanda questa (che al buon senso parrebbe tassativa) che non sembra sorgere spontanea tra quanti, da tre anni in qua, ascoltano i bollettini giornalieri delle guerre e ne constatano gli orrendi scempi. Non dovremmo rassicurarci col dire, insensatamente, che i bombardamenti sono lontani dai nostri palazzi, dagli ospedali nostri e dalle scuole delle nostre città. Non è forse a tutti noi noto che una rete fitta di dispositivi militari avvolge l’intero pianeta e i mezzi di distruzione possono essere innescati in ogni momento e colpire ogni angolo dei cinque continenti?

Le bombe atomiche sganciate nell’agosto del 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki hanno segnato irreversibilmente le modalità della guerra contemporanea che si sono sul registro atomico perfezionate nell’ultimo ottantennio. E allora?

Il mio pensiero va alla celebre poesia di John Donne (1572- 1631) che invito il lettore a rileggere con me. «Nessun uomo è un’isola,/intero in sé./Ognuno è un pezzo del continente,/una parte del tutto./Se una zolla viene spazzata via dal mare,/l’Europa è meno./Come se lo fosse un promontorio./Come se un maniero tuo/o di un tuo amico fosse./La morte di ogni uomo mi diminuisce,/perché sono coinvolto nell’umanità./Perciò, non mandare a sapere/per chi suona la campana,/suona per te».

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