Un mare di rosso – bandiere, cartelli, magliette, distintivi – nella enorme sala affollata del modernissimo centro congressi di Bruxelles. Persone provenienti da tutta Europa, da Malta all’Islanda, dalla Grecia alla Norvegia, dalla Spagna alla Lituania, che ascoltavano e applaudivano con un entusiasmo e anche un’emozione che tradiva l’eccezionalità dell’evento. In sé niente di eccezionale in questa convention del Partito socialista europeo, eccetto per due fattori. Uno personale: il presidente del partito da otto anni, Poul Nyrup Rasmussen ha annunciato che intende dimettersi, soprattutto per gravi motivi di salute. A lui, già primo ministro socialdemocratico di Danimarca, il pubblico à tributato una lunga standing ovation, riconoscendogli il merito di avere rinnovato e fatto progredire da una precedente condizione di irrelevanza questo strano partito transnazionale basato a Bruxelles, che in precedenza non ha mai scaldato il cuore di nessuno e che dai vari partiti della sinistra nei diversi paesi è stato visto più come una idea astratta, riflesso del fatto che nel Parlamento europeo esiste un gruppo unico dei socialisti (e democratici, da quando ne fa parte il Partito democratico italiano) che come un vero partito capace di incidere realmente sui problemi del continente. Contro gli scettici Rasmussen è invece riuscito negli anni a costruire, in opposizione all’idea burocratica di Europa — l’Europa dei tecnocrati – un partito che riflettesse un’altra idea di Europa — l’Europa dei lavoratori, che in tutti i paesi sono uniti dagli stessi ideali di giustizia sociale, e di uguaglianza dei diritti, e dalla stessa voglia di contrastare lo strapotere dei padroni contrapponendogli i bisogni e i diritti delle classi lavoratrici. Se il linguaggio vi sembra datato, è però quello che senza alcun imbarazzo è stato usato qui, in questa sala all’estremo nord del continente, dove domina il colore rosso e dove si usa ancora la parola “compagno”, dove si dà per scontato che i sindacati sostengano i partiti socialisti o socialdemocratici quando sono all’opposizione così come quando sono al governo, dove il senso di una missione radicalmente alternativa della sinistra, in contrapposizione alla destra, non viene bollato come ideologismo di vecchio stampo, ma considerato una ovvietà della vita politica. Cui certo occorre dare concretezza con proposte specifiche, ma che costituisce già uno spartiacque: da una parte “loro”, da questa parte “noi”, con valori, obbiettivi, classi sociali di riferimento e interessi da difendere diversi. Il secondo motivo che giustifica l’eccezionalità di questa convention, rispetto ad altre in tono decisamente minore che l’hanno preceduta, è dato dal momento storico: la crisi che sta spazzando l’Europa, che fa cadere governi e ne fa nascere altri, che toglie posti di lavoro, che comprime i salari e i diritti dei lavoratori e che minaccia quel poco o tanto di welfare che c’è nei diversi paesi. Una crisi che pretende anche di dettare le regole per uscirne, che le impone come se fossero leggi scolpite nella pietra: per salvarsi è necessario il rigore fiscale, la riduzione di tutto, del deficit, del debito, dei consumi, dell’occupazione, delle tutele, dei servizi. Bisogna riconoscere che nei primi tre anni della crisi, che doveva essere breve e invece non si capisce ancora quando finirà, la sinistra europea è stata sotto scacco, come tramortita di fronte alla vulgata dominante ispirata al falso buon senso: non puoi spendere ciò che non hai; falso e anche ipocritica perché nel mentre che predicava rigore da una parte elargiva bonus milionari dall’altra, nel mentre che obbligava a ridurre i servizi sociali regalava profitti agli speculatori. Ma negli ultimi mesi un moto di ripulsa ha incominciato a diffondersi in quella stessa sinistra europea fino a poco tempo fa acquiescente a tutto, non tanto o solo per le ingiustizie che i lavoratori e in genere le classi popolari sono costretti a subire, quanto per l’attacco alla identità stessa di sinistra, per la pretesa di imporre una cultura unica dominante, oggettiva e assoluta, rispetto alla quale chi la persa diversamente o è un illuso o è un demagogo. Per questo Poul Rasmussen ha scaldato i cuori dei suoi giovani e meno giovani ascoltatori: sapere che non si è soli nel pensare che le ricette della destra di fronte alla crisi sono sbagliate; e che sono sbagliate non solo perché hanno fallito e continuano a fallire, ma soprattutto perché non sono accettabili, perché contrastano con quell’elementare senso di giustizia sociale che è alla base, in tutti i tempi e luoghi, dell’idea di sinistra. C’ è ancora da dire che questa “convention” non si è ridotta a pochi interventi delle personalità di maggiore spicco del socialismo europeo, segretari di partito e leader sindacali, a richiami all’identità storica e ad appelli all’unità delle forze progressiste. Ci sono stati momenti di questo tipo, ma anche molto di più: a fianco delle riunioni plenarie decine di tavole rotonde e gruppi di lavoro dedicati ai temi concreti che è necessario approfondire per trasformare l’ideale strategico in proposta politica; momenti anche di confronto e di contrasto tra le diverse linee di azione perseguite dai singoli partiti e organizzazioni dei lavoratori. Così si è parlato di globalizzazione, di compatibilità economiche e finanziarie, di tassazione delle transazioni finanziarie, di riforma (ma non di riduzione) del welfare; ma anche di democrazia, di movimenti, degli “indignati”, d’Europa e d’America, di come rivolgersi alle nuove generazioni (senza tuttavia perdere la propria identità storica), di ruolo delle donne, di immigrazione, di tutela delle minoranze, di ambiente: tutti temi cruciali in questo momento storico sui quali la sinistra nei singoli paesi e tra i paesi si è divisa negli anni passati e ancora in parte lo è. Bastava mettere a fianco le proposte della ministra ombra per il welfare del Regno Unito sulla tassazione delle transazioni finanziarie con quelle della segretaria del partito socialista svedese per vedere quanta strada ancora c’è da fare per arrivare ad una visione unitaria e, conseguentemente, ad una azione comune. Un lavoro tuttavia che, per quanto difficile, dovrà essere fatto in tempi ravvicinati, dal momento che nei prossimi due-tre anni ci saranno elezioni generali in alcuni tra i maggiori paesi europei (Francia, Germania, Italia), oltre che per il Parlamento europeo. Si apre la concreta prospettiva che si inverta la situazione politica attuale in cui la destra governa in tutta Europa, a parte da pochi mesi la Danimarca. Ma a questo appuntamento la sinistra europea dovrà arrivare con chiarezza di proposte e con una visione convincentemente alternativa a quella della destra: troppe volte l’elettorato è stato deluso dai governi socialdemocratici o di centrosinistra, vuoi a causa delle insanabili fratture programmatiche che si aprivano al loro interno, vuoi perché finivano per replicare, seppure in forma meno cruda, le ricette della destra. Vincere le prossime elezioni non sarà facile, ma molto più difficile sarà governare, dopo. Dalla sfida che presto si porrà, quella di togliere alla destra l’egemonia del governo in Europa, nasce la necessità di elaborare programmi comuni, o almeno compatibili, tra i diversi partiti che si riconoscono nel socialismo europeo, un compito di analisi e poi di sintesi che il PES si propone di svolgere di qui al suo congresso previsto per il settembre del 2012; nella consapevolezza che contro un avversario – il capitalismo finanziario e la destra politica che lo rappresenta – che agisce con una visione del mondo comune e a livello planetario, c’è bisogno di una risposta altrettanto coesa e in grado di esercitare un contrasto altrettanto globale. Per questo motivo – ha concluso Rasmussen — la strada verso il partito del socialismo europeo non è più una opzione e tantomeno un’idea astratta, ma è diventata una necessità.
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