“La centralità della vittima nel discorso pubblico testimonia l’attuale egemonia del linguaggio e della logica del penale”, scrive Tamar Pitch nel suo Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva (Edizioni Gruppo Abele, 2022). Quella egemonia che non a caso, dopo tante chiacchiere, vede esordire il nuovo governo della destra italiana proprio con un decreto-manifesto ideologico-politico in materia penale.
Naturalmente la riscoperta della vittima nel processo penale ha avuto buone ragioni, laddove una concezione forse garantista, ma senz’altro statolatrica, l’aveva accantonata nei ruoli marginali della parte civile o all’ombra del potere accusatorio della procura. Ma la centralità della vittima di cui parla Pitch evoca altro, dapprima nascosto tra quelle questioni procedurali, poi sempre più evidente. “Siamo tutti vittime?”, si chiede Pitch. Sì, se vogliamo stare al gioco della penalizzazione della politica, dove la voice, la capacità di rivendicazione di diritti passa attraverso il riconoscimento dello status di vittima innocente, unico meritevole di elementi di giustizia distributiva nel paradigma neoliberale dell’affermazione di se stessi: sei performativamente capace, bene; sei incapace, peggio per te, salvo che tu sia vittima di qualcuno certamente più immeritevole di te di sedere alla tavola dei buoni e delle buone cittadine. È questo il refrain della cittadinanza neoliberale, magistralmente rappresentato da quel “la società non esiste, esistono solo gli individui” con cui una trionfante Margaret Thatcher nel 1987 liquidò l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico. È dalla prima metà degli Ottanta del secolo scorso che la conflittualità sociale viene progressivamente occultata e nel linguaggio pubblico le vittime prendono il posto degli “oppressi”: “il termine ‘oppressi’ – scrive Pitch (p. 32) – richiama una situazione complessa, che coinvolge l’intera biografia dell’individuo e lo accomuna ad altri individui nella stessa situazione, diciamo così, strutturale. ‘Vittima’, viceversa, evoca un’azione singola da parte di singoli, sulla base della quale ci si può associare ad altri individui che hanno subito, o potrebbero subire, la stessa azione”. Non a caso “vittima” è termine del linguaggio penale, dove si processano singole persone responsabili di fatti individuati, non certo un sistema sociale e le sue storture. È questo l’effetto dell’occultamento della società e della sopravvivenza degli individui come monadi, ciascuno e ciascuna in lotta per l’affermazione di sé, ciascuno e ciascuna responsabile dei suoi successi e dei suoi insuccessi, dei suoi meriti e dei suoi demeriti, e, naturalmente, delle sue azioni penalmente rilevanti. Il paradigma liberale della scuola penale classica torna quindi utile, per affermare la responsabilità individuale dell’autore di reato e disobbligare la “struttura’ della società” (p. 31), cui si era arrivati ad attribuire non solo le cause della devianza, secondo la tradizione struttural-funzionalista, ma anche le scelte discrezionali di criminalizzazione primaria e secondaria, di questi e non di quelli, a seconda dei rapporti di forza tra le classi e i gruppi sociali, come ha sempre sostenuto la criminologia critica. Ma se “la società non esiste” ed “esistono solo gli individui”, il bene e il male appartiene a loro e solo a loro, a ciascuno e ciascuna di loro individualmente, e chi non corrisponde alle attese meritocratiche può solo rifugiarsi nello status di vittima per far valere la propria voice.
È proprio questa la strada scelta da gruppi e movimenti collettivi che, sempre più spesso, costruiscono mobilitazione identitaria attraverso la rivendicazione di norme penali a tutela di vittime reali o potenziali, rappresentative del soggetto collettivo di cui si chiede riconoscimento. Così è stato, nel tempo, per il movimento ambientalista, per l’antimafia sociale, per la galassia dei movimenti LGBTQ+. Così è stato anche per (parte de) il movimento femminista, che – dice Pitch – sin dall’agognata quanto controversa legge del 1998 sulla violenza sessuale in Italia si è sporto sul versante dell’uso politico del diritto penale, fino a farne più recentemente una bandiera, nei casi della gestazione per altri e della regolamentazione del mercato sessuale, a cui l’autrice dedica il cuore del volume (cap. IV, L’uso politico del potenziale simbolico del penale, pp. 52-83). È qui che la “lettura femminista della cultura punitiva” proposta da Pitch affronta magistralmente il “femminismo punitivo”, che ha fatto della introduzione di nuovi reati e di maggiori pene il centro della propria iniziativa politica (p. 53). I casi sono noti: il divieto e la qualificazione di “reato universale” per la gestazione per altri e il modello nordico neo-proibizionista della prostituzione, che ama definirsi abolizionista sull’ingenuo presupposto che la proibizione in via penale di un comportamento conduca alla sua abolizione dalla vita reale di uomini e donne. Chi vorrà potrà leggerne la limpida critica proposta da Pitch. A me interessa, di quelle pagine, sottolineare due cose: quello che a me pare il knock-down argument contro qualsiasi forma di femminismo punitivo e le conseguenze ultime dell’uso politico del potenziale simbolico del penale, e cioè la “penalizzazione” e l’immiserimento della politica.
Decisivo mi pare l’argomento che Pitch richiama nella distinzione del femminismo punitivo contemporaneo dalle vecchie rivendicazioni di riconoscimento della soggettività femminile da parte del diritto penale: “Ciò che chiamo femminismo punitivo […] non solo utilizza indiscriminatamente la parola violenza [riducendo ogni conflitto a un abuso, in cui c’è un autore di reato tanto esecrabile quanto capace, e una vittima innocente, ma incapace di farsi valere, e non due soggetti autonomi e contrapposti, ndr], ma si appella direttamente alla giustizia penale, con un’aggravante, rispetto a trent’anni fa, che la ‘nostra’ soggettività politica si costruisce attraverso la definizione delle ‘altre’ come vittime, con la conseguenza che ‘noi’, parliamo e le ‘altre’, le ‘vittime’, sono da ‘noi’ parlate, e dunque ridotte al silenzio” (p. 57). Ma è proprio questo che una pratica politica femminista, fondata sulla capacità relazionale non può permettersi: parlare in nome delle altre, togliergli voce, non riconoscerne autenticità, anche se quella voce (quella, per esempio, di chi rivendica la propria gestazione per altri, o l’offerta ad altri di servizi sessuali) non corrisponde alle proprie convinzioni. Io, maschio, bianco, ultracinquantenne, ci arrivo per la mia condivisione dei principi fondamentali del liberalismo, secondo cui ciascuno e ciascuna è, fino a scientifica prova contraria, consapevole delle proprie affermazioni che, in quanto tale, sono degne di fede; ma dalle mie maestre, amiche, compagne, e ormai anche da mia figlia, ho imparato che non c’è libertà e non c’è politica senza relazione e senza affidamento nella parola dell’altra o dell’altro che sia. Come è possibile che essa sia cancellata nella discussione su cose che proprio quella donna, nei casi di specie, vive? In base a quale autorità c’è chi decide quale sia la parola affidabile e quale non degna di fede?
Anche l’“uso politico del potenziale simbolico del penale” di cui scrive Pitch ha subìto nuovi svolgimenti nel tempo della liquefazione delle forme politiche e della destrutturazione dei regimi politici democratici novecenteschi. Il penale è diventato lingua della politica, attraverso l’affermazione dei cd. movimenti populisti, ma anche attraverso il (vano) tentativo dei partiti e movimenti tradizionali di competere con quelli nell’agone populista. La lettura che Pitch propone dell’uso politico contemporaneo del penale mi induce a rovesciare l’oggetto di alcuni miei studi recenti (Anastasìa 2019), sull’uso populista del diritto e della giustizia penale, per propormi di approfondire (non qui naturalmente, ma in futuro) la riflessione su quella che potremmo chiamare la “penalizzazione della politica”, di una politica che ha ormai introiettato a livello di massa la lingua e la cultura della giustizia penale e i suoi parametri della colpa e della pena (Pavarini 1997). La “penalizzazione della politica”, in effetti, si riflette ormai in ogni sua manifestazione, nella forma della criminalizzazione reale o simbolica dell’avversario politico, del ceto politico di governo e – in caso di sconfitta – di quello della propria stessa parte politica. Salvo i più duraturi guasti sul terreno del diritto e delle garanzie nel sistema penale (in questo libro se ne parla a proposito di “criminalizzazione del dissenso sociale e politico”, pp. 84-101), la penalizzazione della politica ha due conseguenze ulteriori: da una parte l’occultamento delle differenze politiche nel principio di colpevolezza (se l’avversario politico è contestato in ragione delle sue discutibili azioni “devianti”, la contesa non è più sul merito, ma sul metodo dell’azione politica e le alternative politiche diventano una mera alternativa di gruppi dirigenti, non di politiche e, tanto meno, di visioni del mondo); dall’altra la retrospezione, tipica della lingua e della procedura penale, verso la individuazione della responsabilità nel fatto di reato, e dunque l’orientamento della politica verso il passato (di chi è la colpa?) piuttosto che verso il futuro (che fare?).
Qui, ancora una volta, si intrecciano le strade del garantismo penale e di una politica orientata a valori di giustizia sociale. Come scrive ancora Pitch, “la tematizzazione come reati della gravidanza per altri e dell’acquisto di servizi sessuali semplifica ambedue le questioni, riconducendole sotto l’ombrello della violenza di genere, di fatto impedendone così una lettura che interroghi il contesto sociale, economico, culturale, relazionale e affettivo in cui essi avvengono” (p. 64). C’è, dunque, una ragione politica ed epistemologica insieme per cui il diritto penale non può che essere minimo: altrimenti ci è impedita la conoscenza delle pratiche sociali che sottostanno alla generale qualificazione come reati di fatti riconducibili a tensioni e mutamenti presenti nella società. Il garantismo penale, nell’opera di minimizzazione del diritto penale tende alla minimizzazione della distorsione conoscitiva indotta dal potenziale simbolico-penale. E così, d’altra parte, la minimizzazione del diritto penale, delle sue responsabilità, dei suoi ambiti di azione e della diffusione della sua cultura, è condizione essenziale per liberare la politica dalla sua “penalizzazione”, dalla sua vocazione rancorosamente retrospettiva, e riportarla a guardare avanti, al futuro verso cui dovrebbe rivolgersi.
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