Una pietra miliare nel rapporto tra legalità internazionale e Israele. La decisione della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) dell’Aja, che il 26 gennaio 2024 ha imposto a Israele di prendere tutte le misure necessarie per “prevenire” un genocidio a Gaza, è considerata una svolta epocale non solo nella regione araba, ma in tutta quella (maggioritaria) parte del mondo che in modo semplicistico viene definita come il “Sud globale”. Nessun dubbio emerge, dunque, sul fatto che il dispositivo approvato a grandissima maggioranza dai giudici della ICJ sia l’inizio di un nuovo capitolo. Lo è perché il Sudafrica ha rotto gli indugi e ha deciso di mettersi alla testa di un movimento (più di opinione pubblica che di Stati) che chiede, in fretta, il cessate il fuoco e la fine di una guerra su Gaza che ormai ha il triste primato della più sanguinosa dal XXI secolo. Lo è anche perché la decisione dello ICJ ha rigettato le richieste della difesa di Israele, riconoscendo il rischio di intento genocidiario nei confronti del popolo palestinese di Gaza.
Il sentimento prevalente nella regione araba è, in sostanza, quello espresso dal rappresentante dell’Algeria alle Nazioni Unite nel suo intervento di inizio febbraio al Consiglio di Sicurezza convocato, per l’ennesima volta, sulla guerra su Gaza. “La storica decisione presa dalla ICJ conferma che la stagione dell’impunità è finita per sempre”, ha detto l’ambasciatore Ammar Bendjama. È proprio questo l’elemento di compattezza per le opinioni pubbliche arabe e, almeno formalmente, i paesi della regione: la decisione dell’ICJ equivale alla fine dell’impunità di Israele di fronte alle violazioni delle risoluzioni dell’ONU e dei diritti della popolazione palestinese sotto occupazione dal 1967.
I distinguo nell’interpretazione della decisione della ICJ cominciano, però, proprio da questo punto nodale. Se l’impunità è finita nella più importante sede giurisdizionale a livello internazionale, quella che dirime questioni tra gli Stati, altrettanto non si può dire della sua applicazione. Per molti opinionisti arabi e non solo arabi la decisione della ICJ non va oltre, come molti d’altronde si attendevano: non impone, cioè, un immediato cessate il fuoco per evitare, prevenire, impedire l’intento genocidiario. Per altri, invece, la lettera del dispositivo va ben oltre il solo cessate il fuoco, perché impone che vengano messe in campo tutte le azioni per prevenire il genocidio, e genocidio non vuol dire solamente bombardare, ma anche usare altri strumenti di offesa come affamare e assetare, impedire le cure sanitarie e le nascite all’interno del gruppo identificato come potenziale vittima di genocidio.
La discussione in corso sulla storica seduta della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio va, comunque, oltre la guerra su Gaza. Ed è, questo, un elemento perfino più interessante a medio e lungo termine. Anzitutto, rimette – dopo un lungo periodo di stanchezza – la più complessiva questione israeliano-palestinese sul piano della legalità internazionale, e non è un risultato scontato. La Corte Internazionale di Giustizia è già stata chiamata, poco più di vent’anni fa, a pronunciarsi su un altro capitolo della questione, vale a dire la costruzione del Muro di Separazione (definito da Israele “barriera difensiva”) che Tel Aviv cominciò a costruire nel 2003 lungo settecento chilometri che si incuneano nel profondo della Cisgiordania, del Territorio Palestinese Occupato. La sua decisione, non vincolante, fu decisamente a sfavore di Israele, ma la Corte suprema israeliana – allora presieduta dallo stesso Aharon Barak, che è stato designato giudice ad hoc sull’audizione Sud Africa contro Israele – si rifiutò di recepirla.
Ora, nel giro di pochi mesi, la stessa ICJ è chiamata a occuparsi della questione israeliano-palestinese nella totale assenza, almeno ventennale, di una seria politica internazionale. Ancora una volta e stavolta nella dimensione globale, la giustizia incarna, attraverso la ICJ, una funzione di supplenza rispetto alla politica. Tra 2023 e 2024, infatti, la Corte Internazionale non si è solo occupata della prevenzione di un intento genocidiario da parte di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza. Deve anche, dal 19 febbraio in poi, cominciare le audizioni sulla natura dell’occupazione dal 1967 da parte di Israele del territorio palestinese, e cioè di Cisgiordania, Gerusalemme est e della stessa Gaza. Le audizioni sono l’ennesimo capitolo di un procedimento che ha avuto inizio alla fine del 2022, dopo l’approvazione della risoluzione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite (la 77/247), con la quale si chiedeva alla ICJ di fornire un’opinione non vincolante – in sostanza come quella del 2003 sul Muro di Separazione in Cisgiordania – sui doveri e sulle violazioni di Israele in quanto potenza occupante. La richiesta della ICJ ai membri delle Nazioni Unite, di depositare le loro richieste scritte entro il 25 luglio 2023, ha messo insieme una folta schiera di Stati, ben sessanta, che ora devono essere auditi.
Dispositivi, audizioni, e sedute nei vari consessi internazionali possono, a prima vista, apparire dei dettagli nel farsi della questione israeliano palestinese. Dei piccoli contrappunti in una storia fatta, soprattutto adesso, in questo ultimo tragico capitolo, di distruzione, lutti, deumanizzazione. In parte lo sono. In parte, ed è un elemento forse non esaminato con attenzione, indicano uno slittamento della stessa politica internazionale su altre piattaforme, finora inconsuete. La Corte Internazionale dell’Aja viene chiamata a esprimersi perché non si riesce a superare l’impasse creata principali decisori internazionali, soprattutto gli Stati Uniti e quei paesi occidentali troppo schiacciati sulla posizione israeliana, che hanno sinora bloccato, congelato il Consiglio di sicurezza dell’ONU sulla questione del cessate il fuoco. La stessa Assemblea generale dell’ONU sta forzando la costruzione ormai vetusta, postbellica delle Nazioni Unite, assumendosi un ruolo di assemblea globale che si pone in contrapposizione all’inazione del Consiglio di Sicurezza.
Da ultimo, emerge una domanda, al di sopra delle tante. C’è chi, più di altri, crede ancora nella giustizia internazionale? È paradossalmente il “Sud globale” che ha spesso contestato alla giustizia e alla legalità internazionale di essere il prodotto di un diritto di derivazione coloniale e occidentale. Una prima ragione è da rintracciare nel fatto che la legalità internazionale è, ancora, uno dei pochi strumenti pacifici a disposizione di chi pensa che la risoluzione dei conflitti non debba passare attraverso lo strumento (irreversibile, per molti aspetti) della guerra. È, in questo caso, uno strumento pacifico che viene utilizzato in maniera talmente diversa da essere percepito – da tutti, da chi lo usa e da chi ne osserva i risultati – come una torsione del diritto di impianto tradizionalmente, appunto, coloniale e occidentale. Lo ha dimostrato, appunto, il Sudafrica chiedendo alla ICJ di chiamare Israele a rispondere dei suoi atti nella guerra su Gaza. Un tuffo carpiato nelle acque della legalità internazionale, tale da rappresentare un punto di non ritorno. Un auspicabile punto di non ritorno, in attesa di una riforma delle regole globali – di rappresentanza, di concertazione e di legalità – sin troppo attese.
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