All’indomani dei loro interventi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, due performance da Oscar del delirio di onnipotenza l’una, della volontà di sterminio l’altra, Donald Trump e Benjamin Netanyahu hanno partorito un cosiddetto piano di pace per Gaza e dintorni che non è un piano di pace. A prenderlo a ridere è uno show messo su per i giurati (supposti imbecilli) del Nobel per la pace a cui Trump notoriamente aspira (per invidia verso Obama). A prenderlo seriamente è un ricatto bello e buono, una pistola puntata non solo su Hamas ma su tutti palestinesi perché capiscano che o ingoiano quella minestra o “sarà l’inferno”, per dirla con le parole vellutate di Trump, e l’esercito israeliano “finirà il lavoro”, per dirla con quelle altrettanto vellutate di Netanyahu. E ovviamente lo finirà addossando tutte le responsabilità a Hamas e ai palestinesi: se la sono cercata. Come del resto se la sta cercando la Flotilla che “vuole l’escalation”, parola della presidente del Consiglio italiana Meloni e del ministro della Difesa Crosetto. Abbiamo ai posti di comando del mondo un manipolo di guerrafondai irresponsabili ma non c’è alcun dubbio, sono le vittime che se la cercano e sono i pacifisti che lavorano per l’escalation. Abbiamo nei ruoli di governo schiere di odiatori di professione che vivono per spargere veleno, ma non c’è alcun dubbio, è la sinistra che semina l’odio ed è Giorgia Meloni la più odiata dell’Italia e del mondo – altro delirio, di vittimismo, pronunciato dal podio del Palazzo di vetro. Nel mondo rovesciato, si sa che a rovesciarsi per prima nel suo contrario è la verità.
Ma tornando al cosiddetto piano di pace. Fior di analisti si stanno esercitando a valutare i suoi margini di successo, le intenzioni e le divisioni di Hamas, gli interessi e gli opportunismi dei paesi arabi, la volontà dell’estrema destra israeliana di boicottarlo per completare il genocidio dei palestinesi e perseverare nel progetto della “grande Israele”. Si vedranno presto le mosse di ciascuna pedina, e non c’è da puntare molte fiches sulla possibilità che tutte le palle vadano in buca. Intanto però il punto è un altro, anzi i punti sono altri due.
Il primo, patente, è il fondale colonialista della proposta, una sorta di agreement fra tre uomini politici bianchi e occidentali (Trump, Netanyahu e un Tony Blair resuscitato dalla soffitta della storia e dalle macerie dell’Iraq), siglato sopra la testa di un popolo che non viene consultato e il cui destino rimane sospeso nell’aria: nessun abitante di Gaza verrebbe obbligato a lasciare la Striscia, assicura bontà sua il piano, ma non si capisce sotto quali condizioni di vita salvo la vaga promessa di massicce dosi di aiuti umanitari distribuite non è chiaro da chi. Mentre della Cisgiordania e del progetto israeliano di annettersela non si fa menzione – il che significa che non lo si autorizza ma non lo si esclude – e la costruzione dello Stato palestinese, liquidata come “pura follia” da Netanyahu all’Assemblea dell’ONU, svanisce dall’orizzonte.
Gaza diventa in compenso – secondo e più inquietante punto – il terreno di sperimentazione di una inedita forma di governance, che consiste nell’installazione dall’alto di una Autorità “apolitica” – la “Gaza International Transitional Authority” – composta da una squadra di tecnocrati palestinesi (magari con curriculum Ivy League?), supervisionata da un ulteriore organismo presieduto da Trump, istituito dagli Stati Uniti sotto l’egida dell’ONU e previa consultazione dei partner arabi e europei, e collocato in Egitto ad Al-Arish, nel nord della penisola del Sinai. Commentando questa invenzione partorita dal genio congiunto di Trump, Blair e Jared Kushner, qualcuno parla di un ritorno a una forma squisitamente coloniale di protettorato. Ma si sa che nel mondo post-moderno ogni apparente salto all’indietro nasconde in realtà un salto in avanti. Dove? In un futuro in cui la governance tecnocratica si sostituisce compiutamente alle forme politiche del governo, della rappresentanza e della cittadinanza.
Non è chiaro di quale statuto saranno titolari i gazawi che dovessero decidere di restare nella striscia. Cittadini palestinesi, in mancanza di uno Stato cioè dell’ente da cui la cittadinanza dipende? Cittadini israeliani di serie A, B, C? Abitanti ghettizzati di un regime di apartheid? Forza lavoro a basso costo per la ricostruzione della “riviera” stile Trump-Kushner? Sorvegliati speciali grazie alle tecnologie AI già ampiamente sperimentate durante il massacro della Striscia? Quanto alla rappresentanza politica, il profilo della “squadra di tecnocrati” semplicemente ne prescinde: se ne riparlerà, forse, quando l’ANP si sarà data una ripulita. Cruciale rimane, da questo punto di vista, il modo in cui viene risolto, si fa per dire, il “problema” Hamas, creatura notoriamente bifronte, con un’ala militare e una politica, un’ideologia fondamentalista e un radicamento sociale, una pratica terrorista e una funzione di governo guadagnata con le elezioni del 2006: una ambivalenza che il “piano di pace” scioglie, significativamente, con la decapitazione politica e il condono penale (salvacondotto per i leader, scarcerazione dei prigionieri) dell’organizzazione.
Mesi fa avevo scritto su queste stesse pagine che Gaza si stava configurando come il laboratorio politico del nostro futuro, per via della già menzionata sperimentazione su vasta scala delle tecnologie di sorveglianza che le democrazie occidentali importano da Israele, finora soprattutto per controllare confini e migranti ma domani chissà, e che già sono oggi ampiamente adoperate negli Stati Uniti di Trump per la repressione del dissenso interno. Tanto più diventa un laboratorio del nostro futuro con questo “piano di pace”. Al netto della complessità della vicenda storica, la condizione palestinese è da sempre l’indicatore di una crepa interna alla forma dello Stato-nazione, da sempre sospesa in quel lembo di terra fra un non ancora e un mai più. Con l’Authority progettata per Gaza questa sospensione finisce, e la tecnocrazia si installa nel luogo sovrano che fu dello Stato moderno con la sua relativa costellazione concettuale. Il lapsus di Trump, come tutti i lapsus, dice la verità: non della pace perpetua kantiana si tratta, bensì della pace eterna dei cimiteri, il cimitero delle forme politiche della modernità.
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