Nell’opera di Goldoni, rimodellata da Strehler sulla figura di Arlecchino, troviamo un personaggio che finisce per prestare servizio all’indirizzo di due diversi signori. Se si guarda oggi alla carta elettorale della Francia dopo l’esito del voto per le legislative, è legittimo pensare a una situazione simile. Sia perché la multipolarità della contesa e dei suoi esiti, insieme alla sua distribuzione territoriale particolarmente eterogenea, restituisce una mappa variopinta come l’abito della maschera bergamasca. Sia perché il parlamento che emerge dalle urne, appeso come non mai nella Quinta repubblica, pare oscillare tra la funzione di rappresentanza delle istanze dei cittadini, mai così frantumate, e quella di eventuale legittimazione di un esecutivo a venire.
Cuore della sovranità popolare, motore principale, almeno in teoria, del potere legislativo, la Camera bassa del sistema francese, ossia l’Assemblea nazionale, si è trovata negli ultimi decenni a essere poco più che la cinghia di trasmissione della volontà politica dei monarchi repubblicani, con le significative ma circoscritte eccezioni delle coabitazioni del ’93-’95 e del ’97-2002. Si è limitata, insomma, a servire (al)la realizzazione dei programmi presidenziali. E questo è avvenuto in maniera sempre più diretta nel nuovo secolo, con la coincidenza tra i mandati dei presidenti e quelli dell’Assemblea nazionale.
Stavolta lo scenario post-elettorale ci pone di fronte a un recupero di centralità per il parlamento. Il confronto elettorale ha visto la partecipazione di quattro blocchi: oltre ai macronisti in cerca di spoglie da consegnare al sovrano, quel che resta della destra postgollista dei Républicains, la destra nazionalpopulista lepeniana sotto le nuove insegne del Rassemblement National, il Nupes ovvero la riedizione della gauche plurièlle a trazione mélenchoniana. Mélenchon, come era verosimile e prevedibile, non è riuscito a diventare primo ministro, e Macron non ha la sua autonoma maggioranza. Nessuno ha la maggioranza, come è accaduto già con l’hung parliament nel Regno unito nel 2010 e nel 2017.
La situazione transalpina è perfettamente fisiologica, tanto per una democrazia parlamentare, sebbene maggioritaria, come quella britannica, quanto per un sistema definito convenzionalmente nei termini di semipresidenzialismo, tornando a parlare di Francia. Eppure, nonostante la sua naturalità, questa contingenza fa stracciare le vesti a molti cultori della politica spettacolo e del sindaco d’Italia, morbosamente legati al feticcio dei “vincitori la sera delle elezioni”.
In qualche modo, con l’esito delle legislative francesi, il parlamento torna a servire l’elettorato, a rappresentarne le sue istanze, con tutto quanto ne consegue dal punto di vista delle mediazioni, necessarie in ogni democrazia sana, che come insegnava già Kelsen, si fonda sul compromesso tra le varie parti della società. Società che, in quanto tale, non essendo comunità organica, ha componenti plurali che vanno ricondotte a unità senza negarne la molteplicità. Più che servire l’Eliseo, questo parlamento che a molti dei feticisti di cui sopra può apparire disfunzionale, sembra servire la Francia come paese, come società, come nazione e come democrazia.
L’effetto di trascinamento che in passato aveva consegnato a Chirac, a Sarkozy, a Hollande e allo stesso Macron una maggioranza chiavi in mano, si è interrotto. Oggi il parlamento Arlecchino non è in grado di conferire una maggioranza di governo alla coalizione di sinistra guidata da Mélenchon, che con i suoi circa 155 seggi (compresi vari e indipendenti di sinistra) è ben lontana dal minimo di 289. Oltre ad Arlecchino, però, c’è Pulcinella: non è infatti un segreto che Macron abbia governato per cinque anni attraverso primi ministri dei Républicains. Una configurazione che oggi corrisponde a circa 320 seggi, sufficienti per votare il programma di un nuovo inquilino di Matignon. Per Macron, insomma, non tutto è perduto, anzi.
Le notizie, le sorprese e i dati interessanti che porta in dote questa elezione sono altri. Intanto, l’astensione al secondo turno resta alta (53,8%) ma è in calo rispetto al secondo turno delle legislative del 2017, quando aveva superato il 57%. Poi, il Rassemblement national di Marine Le Pen ottiene un risultato di enormi proporzioni, raccogliendo un bottino senza alcun precedente e aldilà di ogni previsione: primato storico in termini di voti assoluti (oltre 4 milioni), in percentuale sui voti espressi (18,7%) e soprattutto 89 eletti. Il primato precedente, 35 eletti, era stato ottenuto nella parentesi proporzionale voluta da Mitterrand. Ma nel 2017, con la legge maggioritaria a doppio turno, l’allora Front national aveva raccolto 8 seggi. Il bottino è stato quindi decuplicato. Inoltre, aspetto altrettanto importante, le destre classiche, neogollista e liberale (o bonapartista e orleanista, per usare il lessico di Rémond) sono state surclassate, come se l’opa simbolica lanciata da Marine Le Pen sull’elettorato di destra e sull’eredità gollista fosse stata in qualche modo vittoriosa, portando il partito tricolore a essere egemone nel campo della destra tout-court, che quindi conosce una radicalizzazione. È paradossale che ciò avvenga proprio mentre la leader del RN annuncia che non correrà più alle presidenziali. Nota a margine, ma non troppo: il 37% degli eletti lepenisti sono donne, in linea con la media nazionale di tutti i partiti.
A questo risultato ha senz’altro concorso l’indisponibilità dei macroniani esclusi dal secondo turno a condurre una politica di cordone sanitario contro il Rassemblement national nei collegi in cui i lepenisti concorrevano contro la sinistra Nupes. Questo fa riflettere sull’esercizio asimmetrico delle politiche di fronte repubblicano da parte delle forze centriste e liberali, che hanno invece alle presidenziali avevano beneficiato dell’invito di Mélenchon a non dare “neanche un voto a Madame Le Pen”. In questo senso la valutazione implicita delle forze di governo sembra assegnare una natura parimenti “antisistema”, come avrebbe detto Giovanni Sartori, alla sinistra trascinata dalla France Insoumise e alla destra nazionalpopulista.
Il giudizio e la condotta dei macroniani, certamente spiegabili con l’esigenza di provvedere alla conservazione della propria centralità nel sistema, non tiene conto della presenza di una vocazione e di una cultura politica apparentabili alla tradizione socialista ed ecologista che ha governato in un passato la Francia e che sono stati, sì, ridimensionati dalla pasokizzazione del Parti socialiste nato a Épinay, ma inevitabilmente non cancellati dalla leadership di Mélenchon, che ha saputo invece a suo modo valorizzare quella eredità, adattandola alle esigenze del presente.
Una ulteriore, se non ultima annotazione, è quella che riguarda la proporzionalizzazione, oltre che parlamentarizzazione, del voto. Si suol dire, infatti, che il sistema elettorale maggioritario a doppio turno tenda a distorcere il voto, sovrarappresentando le forze con più potere e consenso e sottorappresentando gli outsider, dunque realizzando un ampio scarto tra la percentuale dei voti (al primo turno, quando l’offerta elettorale è completa) e quella dei seggi. È sempre stata questa la tendenza, come testimoniano, ad esempio, le legislative del 2012, quando lo schieramento di sinistra guidato dal Partito socialista del neoeletto Hollande ottenne il 57% dei seggi con il 39% dei voti, o quelle del 2007, quando con il 46% dei voti la maggioranza pro Sarkozy raccolse il 60% dei seggi. Il moltiplicatore del doppio turno, che amplifica i grandi e taglia i piccoli, stavolta non ha funzionato per Macron, che con il 27% dei voti si è fermato al 43% dei seggi. Ma soprattutto non ha tagliato gli sconfitti delle presidenziali e i “piccoli”. I lepenisti hanno preso il 15% dei seggi con il 18% dei voti, la Nupes il 27% dei eletti con il 33% dei consensi, la destra postgollista circa il 13% di seggi con il 15% dei voti.
Anche in questo senso, emancipandosi dalla tutela esclusiva del capo dello Stato e rispecchiando maggiormente il volere degli elettori, il parlamento, sebbene quasi per eterogenesi dei fini, sembra tornato a dover rispondere più direttamente, se non addirittura a servire, anche la società francese, che pur in un contesto di bassa rappresentazione ha riguadagnato rappresentatività nella vicenda istituzionale, di cui, in qualche modo, vuole tornare a essere padrona.
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