Interventi

Articolo uscito su “la fionda” il 15.05.2020

La struttura di classe della società italiana che la quarantena ha oggi evidenziato in tutta la sua virulenza e drammaticità, non nasce, ovviamente, con la quarantena stessa, perché essa era già squadernata, e pienamente visibile, sin dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, se non da ancora molto prima. Così come, d’altronde, erano squadernati, e pienamente visibili, alcuni mutamenti radicali (dei veri e propri rovesciamenti) avvenuti, all’interno di essa, nei riferimenti sociali di destra e sinistra. Lo segnalava già Franco De Felice nella sua ultima, grande, opera, pubblicata nel 1996 per la Storia d’Italia Einaudi, nella quale, ragionando in maniera lucida e spregiudicata sulla nuova composizione sociale italiana, aveva sostenuto che nel blocco più protetto del nuovo quadro della competizione internazionale, c’è molto più la sinistra che la destra, la quale tende, invece, a rappresentare i settori più colpiti1. Si tratta di una situazione, questa, particolarmente anomala, perché è una situazione che capovolge i tradizionali riferimenti sociali di destra e sinistra (all’interno della quale, come diceva molto bene Mario Tronti, troppo spesso «vediamo una destra di popolo che avanza in Europa e in Occidente»), assegnando, ormai quasi stabilmente, i salotti alla sinistra e le periferie alla destra. Ma fino a quando, si chiedeva ancora Tronti, potrà durare una situazione come questa?2. E questa domanda, posta da Tronti, che individuava con precisione il rovesciamento avvenuto intorno ai rapporti tra classi sociali e ideologie politiche, risuona ancora di più oggi, come un pericolo, in tutta la sua virulenza e drammaticità, perché come ha scritto di recente Dider Eriban, un importante sociologo francese, «la quarantena evidenzia la struttura di classe della società», non solo nel mondo del lavoro, come è evidente, ma soprattutto fuori di esso, dove ci sono quelli che hanno perso tutto, e che «non hanno più niente». Ci sono, infatti, continua Eriban, centinaia di migliaia di persona che semplicemente non hanno da mangiare: «come è possibile accettare una situazione simile?»3. Per quanto tempo ancora potrà essere accettata questa situazione inaccettabile? Perché lo spettacolo che abbiamo oggi sotto gli occhi è quello di una vera e propria divisione di classe, una divisione tra chi vive nella comunità propria della secessione delle èlites (Lasch), e può stare al riparo all’interno di essa, e chi vive, invece, in quella che Nancy incautamente aveva chiamato, in maniera liquidatoria, comunità fascista, che è quella propria di chi è costretto a vivere nello spazio, in uno spazio sempre più degradato, e sempre meno abitabile, dentro il quale nessuno è più al riparo di niente4. E si capisce perché è esattamente intorno allo spazio che si è messo in movimento tutto l’arsenale della destra radicale, perché di questo alla fine si tratta, e non di populismo, come con eccessiva disinvoltura e approssimazione, si continua ancora adesso stancamente a ripetere5. A chi altri possono rivolgersi coloro che vivono nella paura, e nella disperazione? Non è, forse, la comunità del sangue e del suolo, come ho scritto in diverse occasioni, quella più vicina a questa urgenza, se non, forse, questa stessa urgenza? E alla formazione di tutto questo non collaborano in maniera fattiva tutti coloro che, come diceva Bauman, «saltano sugli alberi», lasciando inchiodati al suolo tutti gli altri?6. “Tempo e classe”, diceva efficacemente ancora Bauman7, e questo rappresenta oggi il nostro problema principale, perché questa immane, gigantesca, divisione di classe che abbiamo tutti sotto gli occhi, può da un momento all’altro esplodere, e noi dobbiamo sin da ora decidere da che parte stare, e poi, soprattutto, starci fino in fondo, non con gli astratti proclami, ma con la vita stessa, col corpo, perché solo ponendo il corpo alle radici del nostro pensiero politico è possibile tagliare, illuminare, il mondo sempre più oscuro che ci circonda, ma è possibile soprattutto dare inizio a criticità e trasformazione, nel loro nesso indissolubile8. Perché senza corpo non vi è scienza (soprattutto scienza della crisi, come avrebbe detto Max Weber, che è quella che interessa a noi particolarmente, o scienza delle epoche critiche, come diceva Germani, sulla scia di Weber9), e senza questo nesso tra corpo e scienza si spezza anche ogni relazione tra scienza e presente, tra scienza e politica, e dunque anche ogni rapporto con quello stato di eccezione, dentro il quale siamo oggi tutti immersi, inibendosi così ogni movimento critico all’interno di esso. Sulla centralità dei corpi nella scienza, e soprattutto nell’insegnamento, si era soffermato in passato, con pagine illuminanti, Jacques Derrida, e non è un caso che oggi, proprio riguardo alla discussione sulla scuola, il problema ritorna, perché è esattamente il corpo (docente) che è stato messo sotto attacco, e si sta dileguando, fino a quasi sparire del tutto10. «Cecí n’est pas una école», si dice spesso in varie parti del mondo11, e questo è il primo fronte di combattimento che abbiamo subito difronte quando torneremo ad uscire per strada, perché c’è un coacervo di forze che mira ad abolire, in maniera definitiva, il corpo dalla scuola e dalle Università, e quindi a spezzare ogni relazione tra scienza della crisi e stato di eccezione, collaborando di fatto alla formazione di una nuova teologia politica ordinativa, e reazionaria, con la quale questo stato di eccezione lo si intende chiudere, tra Carl Schmitt e Donoso Cortés, lungo la linea tracciata dallo stesso Schmitt in Teologia politica12. Corpo, scienza, stato di eccezione e marxismo d’azione, come scriveva Tronti nel suo lungo e serrato confronto con Carl Schmitt, intorno al problema del politico, e della teologia politica13, questi sono i passaggi essenziali di una piattaforma politica alternativa. Anche se occorre fare subito una precisazione, essenzialissima, che porta fuori dal nostro modo normale di pensare la politica a sinistra: dobbiamo fare tutto questo molto in fretta, perché stiamo affogando. E stiamo affogando, perché la forbice che si è aperta tra i difensori della vita e il partito del corpo vivente, come Drieu La Rochelle, in più occasioni aveva definito il fascismo14, tra la difesa della vita come assoluto15, come ha scritto efficacemente Carlo Galli e la necessità comunque di vivere, o di voler vivere, tra chi vive, e può vivere, al riparo, e chi, invece, per vivere, deve rischiare di ammalarsi, perché stando al riparo non può semplicemente vivere, ci può stritolare, e ci può vincere, definitivamente, una volta per tutte. Non si può, infatti, «in nome della difesa dal virus», ammazzare «quella vita che si vuole difendere»16, e calpestare finanche la dignità della vita, soprattutto la vita degli altri, di quelli non protetti, e che dal virus da soli non si possono assolutamente difendere. Anche perché, in ogni caso, e al final, la morte prima o poi, per una cosa, o per l’altra, arriva per tutti, e non la si può mai esorcizzare e sconfiggere una volta per tutte.

Il punto è, per ritornare al filo principale del nostro ragionamento, che, inventata o reale che essa sia, l’epidemia ha già prodotto effetti molto importanti, e un vero e proprio stato di eccezione, con il quale dobbiamo al più presto fare i conti, ed entrare in relazione, per evitare, o, quanto meno, ostruire, un approdo reazionario dello stesso17. Da questo punto di vista, occorre dire che, a prescindere da alcuni scivoloni iniziali, per la verità in seguito mai fino in fondo corretti18, Agamben, seppure reiterando tesi già sostenute in precedenza, ha delineato un quadro analitico di qualche interesse, con il quale occorre alla fine confrontarsi. L’epidemia ha diffuso, egli ha scritto, la paura del contagio e imposto il distanziamento sociale, ovvero una degenerazione atomistica dei rapporti tra gli uomini19, i quali, pur di non rischiare la perdita della propria esistenza biologica, hanno sacrificato praticamente tutto, compreso la stessa democrazia, come se davvero fosse possibile scindere la unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra20. Ma, si chiede Agamben, che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?21 E sulla paura di perdere la vita, sul distanziamento sociale, sull’obbligo di evitare ogni rischio, su una massa «compatta e passiva» che, sono parole che Agamben riprende da Canetti, «attende un capo, che dovrà esserle mostrato»22, che cosa si può fondare se non un moderno Leviatano?23, o un “nuovo totalitarismo”, come dirà in una intervista concessa al quotidiano La Verità?24 E qui, proprio sul punto cruciale della massa, il discorso di Agamben torna a farsi generico e approssimativo, come nella definizione iniziale della epidemia, perché non si possono mettere insieme il concetto di “massa compatta e passiva” con il fascismo, o con il moderno totalitarismo, i quali rappresentano, invece, esattamente la attivazione permanente di tale massa, né è ragionevole considerare questioni storiche e interpretative di tale portata come particolari di una filologia irrilevante25. Anche perché, molto probabilmente, la vera forbice che si aprirà per delineare i caratteri del nostro futuro, si formerà proprio all’interno, e a ridosso, di questa massa. Il conflitto che si va delineando mi sembra essere, infatti, quello tra sopravvivenza e vita, ed è probabile che contro la sopravvivenza si attivi proprio quella stessa massa, una attivizzazione vitalistica di questa stessa massa, che si rivolta contro l’idea di vita come sopravvivenza, e che ritrova, in questa rivolta, quel rapporto simbolico e culturale del fascismo con la morte, che ha rappresentato uno dei tratti salienti del fascismo stesso26. E da qui anche una nuova linea di divisione tra biologico e spirituale, tra la sopravvivenza e il partito del corpo vivente, di cui parlava La Rochelle, e dunque, tra borghesi e ribelli, come ripeteranno fino alla nausea centinaia di intellettuali e militanti fascisti di tutta Europa nel periodo tra le due guerre27. Il problema vero, una vera e propria tragedia, è che sarà la stessa composizione sociale e di classe del dopo-Coronavirus a spingere la società esattamente in questa direzione, in quel fondo oscuro e ignoto che a partire da esso si squadernerà a breve sotto i nostri occhi, e che rappresenta una vera e propria prospettiva catastrofica.

Si tratta per noi di una vera e propria trappola, dalla quale, come diceva (in un altro contesto) Althusser, non possiamo fuggire installandoci «nel suo semplice di fuori, quale che ne sia l’esteriorità e la profondità»28, perché dentro questa trappola, che ci stritola, e ci soffoca, abita anche questa massa, e noi dobbiamo stare fino in fondo, sin da ora, con essa, e aggrappati ad essa, se vogliamo davvero ostruire, e battere, quella rinnovata tentazione fascista (che, occorre sempre tenerlo a mente, non proviene mai dalla destra, ma dalla crisi, e dal cuore, della società29), che è tornata di nuovo, prepotentemente, al centro della scena. Ma per far questo, o semplicemente per incominciare a pensarlo, occorre riclassificare integralmente l’intera tradizione normale della sinistra per rapporto allo stato di eccezione che, nel bel mezzo di quel corpo vivente, si contrappone, oggi, alla coalizione della sopravvivenza, al fine di trasportare quello stesso corpo in un altro luogo, lontano da qui30. Perché, come scriveva Carl Schmitt, in uno dei passaggi più densi delle Categorie del politico, «una vita che non abbia di fronte a sé nient’altro che la morte, non è più vita, ma impotenza ed abulia», perché colui «che non conosce più nessun altro nemico che la morte, è più vicino alla morte che alla vita», e il suo atteggiamento, il suo essere nel mondo, «non significa altro che una rinuncia alla lotta, ed ha solo il valore di un lamento romantico»31. Infatti, è ancora Schmitt, il mondo non riuscirà mai a sopprimere il politico, ma solo quel raggruppamento che non ha più la forza e la volontà di mantenersi nella sfera del politico stesso e, dunque, un raggruppamento debole, un raggruppamento che teme la fatica e il rischio della esistenza politica, lasciando così ad un altro raggruppamento il compito di assumersi tali fatiche, e tale rischio, e dunque la gestione del dominio politico32. E tutto questo ha valore anche oggi, soprattutto oggi, anche se bisogna sempre tenere a mente quello che dallo stesso Schmitt non si ricava mai, e non si può ricavare, e cioè che l’uomo-Dio di tutta la nostra cultura, da Hegel a Marx a Schmitt stesso, è definitivamente morto33, e occorre non solo elaborare un’altra idea di uomo, e prospettare un progetto politico che difenda la nuda vita di tutti, ma soprattutto, a ridosso di questo progetto, ricominciare daccapo a pensare, in maniera antiperfettista, il socialismo, inaugurando nuove, e inedite, direzioni di ricerca intorno ai rapporti tra filosofia e marxismo34. Questo è secondo me il lavoro che andrebbe oggi avviato, la strada che bisognerebbe percorrere. Andrebbe avviata una formidabile autocritica del marxismo immanentistico per rapporto alla teologia politica e alla filosofia della trascendenza, perché senza questa doppia autocritica il marxismo non sarà mai più in grado di afferrare il presente, e di prospettare agli uomini un diverso avvenire. Autocritica rispetto alla teologia politica perché la teologia politica, come ha scritto Methol Ferrè, va intesa «come dimensione base dell’umano», e il marxismo si è dimostrato incapace di comprendere questa base e, di conseguenza, anche i movimenti nazionali e popolari che dentro di essa si innervano, e autocritica rispetto alla trascendenza, perché, al contrario di quello che il marxismo ha sempre pensato, la storia non è tutto, e «non si comprende senza la presenza del male», e del mistero, e la rivoluzione marxista si è dimostrata incapace di sostituire la rivoluzione del cristianesimo, proprio perché non ha mai riconosciuto questo dato ontologico dell’esistenza umana35. Ecco l’attualità della prospettiva che qui presento, perché è esattamente attraverso quella doppia autocritica, di cui abbiamo parlato, che il marxismo può ancora una volta saldarsi con il movimento popolare, per portare quest’ultimo oltre di sé.

1 F. De Felice, Nazione e crisi: le linee di frattura, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 1, Torino, Einaudi, 1996, pp. 95-96.

2 M. Tronti, Laboratorio di cultura politica a sinistra (2007), in Id. , Non si può accettare (a cura di P. Serra), Roma, Ediesse, 2009, p. 86.

3 D. Eribon, L’illusione dell’uguaglianza, in S. Monteforti, Conversazione con D. Eriban ed E. Louis, in La Lettura, 3 maggio 2020, pp. 2-3.

4 I riferimenti sono a C. Lasch, La ribellione delle élite (1994), Milano, Feltrinelli, 2001, e J.L. Nancy, La comunità inoperosa (1986), Napoli, Cronopio, 1992, pp. 7-8. Mi ero soffermato a lungo su questa problematica in P. Serra, Tra le due comunità, in M.P. Paternò, L’idea e la differenza. Modelli di inclusione nel dibattito contemporaneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. 169-186.

5 Su questa tematica, crucialissima, sono intervenuto in diverse occasioni, e da ultimo in P. Serra, Populismo, democrazia e limiti del politico, in Questione Giustizia, 2019, n. 1, pp. 55-66.

6 Z. Bauman, Modernità liquida (1999), Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 135-136.

7 Z. Bauman, Tempo e classe, in Id. , Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (1988), Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 9-31.

8 Su questi temi rimando in particolare a P. Serra, La funzione dello Stato. Scienza giuridica europea e rapporto tra ordinamenti, Roma, Aracne, 2010.

9 Cfr. M. Weber, Saggi sulla dottrina della scienza (a cura e con Introduzione di A. Roversi), Bari, De Donato, 1980, pp. 6-7; G. Germani, La sociologia cientifica (1956), Mexico, UNAM, 1962, p. 136.

10 J. Derrida, Dove comincia e come finisce un corpo insegnante (1976), in AA. VV., Il corpo insegnante e la filosofia (a cura di G. Dalmasso), Milano, Jaca Book, 1980, pp. 9-38.

11 Su questo tema si veda l’interessante articolo di A. Asor Rosa, Scuola, elogio della classe, in Repubblica, 8 maggio 2020, p. 28.

12 C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id. , Le categorie del “politico” (a cura di G. Miglio e P. Schiera), Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 27-86.

13 Cfr. M. Tronti, Teologia politica (a cura di P. Serra e M. Cuesta), Buenos Aires, Prometeo, di prossima pubblicazione.

14 P. Drieu La Rochelle, Chronique politique 1934-1942, Paris, Gallimard, 1943, p. 48.

15 C. Galli, Epidemia tra norma e eccezione, in Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 9 maggio 2020. Di Galli cfr. anche l’importante articolo Il virus dà scacco al neoliberismo?, in la fionda, 31 marzo 2020.

16 B. de Giovanni, Il motto del Nuovo Manifesto «A Conte obbedir tacendo», in Il Riformista, 5 maggio 2020, p. 6.

17 G. Agamben, L’invenzione di un’epidemia, apparso sul blog di Quodlibet il 26 febbraio 2020.

18 Almeno fino al suo ultimo intervento che ho potuto vedere, Sul vero e sul falso, apparso sul blog di Quodlibet il 20 aprile 2020.

19 G. Agamben, Contagio, apparso sul blog di Quodlibet l’11 marzo 2020.

20 G. Agamben, Una domanda, apparso sul blog di Quodlibet il 14 aprile 2020.

21 G. Agamben, Chiarimenti, apparso sul blog di Quodlibet il 17 marzo 2020.

22 G. Agamben, Distanziamento sociale, apparso sul blog di Quodlibet il 6 aprile 2020.

23 G. Agamben, Riflessioni sulla peste, apparso sul blog di Quodlibet il 27 marzo 2020.

24 G. Agamben, Nuove riflessioni, apparso sul blog di Quodlibet il 22 aprile 2020.

25 Su tutta questa complessa problematica della teoria generale dell’autoritarismo contemporaneo rimando a P. Serra, Il problema dell’autoritarismo moderno nel pensiero politico di Gino Germani, in Rivista di Politica, 2016, n. 3, pp. 29-64.

26 Pagine interessanti su questo tema in G. Accame, La morte dei fascisti, Prefazione di G. Galli, Milano, Mursia, 2011.

27 Su tutta questa tematica rimane fondamentale il volume di Z. Sternhell, Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia (1983), Napoli, Akropolis, 1984.

28 L. Althusser, Dal «Capitale» alla Filosofia di Marx, in L. Althusser-E. Balibar, Leggere il Capitale (1965), Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 55-56.

29 Pasquale Serra, Destra e fascismo. Impostazione del problema, in Democrazia e diritto, 1994, n.1, pp. 3-31.

30 Spunti interessanti, in questa direzione, in H. Gonzalez, Il nostro Gramsci (con Introduzione di P. Serra), Roma, Castelvecchi, 2019.

31 C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (1929), In Id. , Le Categorie del “politico”, cit. , pp. 182-183.

32 Cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico” (1927), in Id. , Le Categorie del “politico”, cit. , pp. 134-137.

33 Per questa lettura di Schmitt rimando a P. Serra, Schmitt oltre Schmitt, in Teoria del diritto e dello Stato. Rivista di cultura e scienza giuridica, 2011, n. 1-2, pp. 189-200. Per una analisi più dettagliata e più sistematica di questo modello di ragionamento, rimando, da ultimo, a P. Serra, Una conoscenza nell’azione. Horacio Gonzalez e la recezione argentina di Gramsci, Introduzione a H. Gonzalez, Il nostro Gramsci, cit. , pp. 5-80, in particolare le pp. 51-61.

34 Su questi temi rimando a P. Serra, L’incontro con Del Noce in una ricerca marxista. Marxismo, teologia politica, filosofia della trascendenza, in Rivista di Politica, 2015, n. 3, pp. 117-141.

35 A. Methol Ferrè, L’America Latina del XXI secolo, (a cura di A. Metalli), Marietti, Genova-Milano, 2006, p. 92.

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Un commento a “L’attualità del socialismo. Un problema storico-teorico”

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