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Non sapevamo nulla del cardinale Prevost quando si è affacciato alla loggia di San Pietro in qualità di Papa Leone XIV. Due minuti dopo, grazie a internet, a Wikipedia e alla sala stampa del Vaticano, sapevamo tutto della sua biografia, della sua formazione agostiniana e della sua passione per il tennis e per il pollo fritto, ma sempre troppo poco per dedurne che tipo di papato sarà il suo, malgrado le deduzioni proprie e improprie cominciassero a fioccare da tutti i media del mondo mentre le sue prime parole sulla “pace disarmata e disarmante” ci confortavano sulla tenuta di una parte almeno, la più impellente, dell’eredità di Francesco.

Quello che sappiamo e che abbiamo realizzato subito, perché ci è stato mandato a dire con inequivocabile chiarezza, è che la Chiesa, l’istituzione-Chiesa, ancora una volta ha reagito ai segni dei tempi con una mossa veloce e magistrale. Passano in secondo piano, a occhi profani, le mediazioni e le alleanze interne al conclave che hanno costruito le convergenze su un candidato sottostimato – e che tanto stanno a cuore ad alcuni liberal-conservatori di casa nostra, preoccupati solo di vedere ricucite le smagliature e i dissidi di una gerarchia traumatizzata e disorientata dalla rinuncia di Ratzinger e dal “peronismo argentino” (sic) di Bergoglio (Massimo Franco sul Corriere della sera).

Quello che balza in primo piano è piuttosto il fatto che di fronte al disordine mondiale in cui siamo immersi, e di cui sono magna pars la frattura interna all’Occidente fra Stati uniti ed Europa e la crisi verticale in cui versa sotto ogni profilo la democrazia statunitense (non che quelle europee stiano molto meglio), la Chiesa globalizzata riunita e rappresentata nel Conclave più multiculturale della sua storia abbia reagito non evitando il campo minato, come avrebbe potuto fare eleggendo un papa asiatico o africano (ipotesi ben più coerente con i tempi di quanto non sarebbe stata quella di un “ritorno all’Europa”, o all’Italia), ma decidendo di attraversarlo e di sfidarlo con tutto il peso della propria autorità, incarnata da un papa che da quel campo viene e che lo conosce a fondo.

Come dire “vedo” in una partita di poker geopolitico, nella quale il giocatore principale, Donald Trump, bluffa in continuazione, annuncia e smentisce contratti di pace, mette e toglie dazi, gode nel deportare migranti e nell’arrestare dissenzienti, e – non bastasse – osa travestirsi lui stesso da papa. O per fare un paragone meno irriverente, come se oggi la Chiesa percepisse lo stesso smottamento dell’ordine mondiale che con largo anticipo sulla politica secolare percepì nel 1978, quando allo smottamento dell’impero sovietico rispose con la mossa preventiva, e decisiva nel seguito della vicenda storica, dell’elezione di Karol Wojtyla.

Prevost, leggiamo da giorni, sembra avere tutte le carte in regola per giocare al meglio sia la partita geopolitica sia quella interna alla Chiesa. Nato e cresciuto da genitori europei a Chicago (cuore delle contraddizioni dell’America profonda, ma anche “città santuario” dei migranti), missionario in Perù, è il primo papa statunitense ma con una formazione anche europea e sudamericana, quasi a condensare quell’apertura universalistica che negli Stati Uniti e nell’Europa sovraniste di oggi vacilla – e infatti è stato sostenuto in conclave dai cardinali del sud del mondo, a conferma che dalla Chiesa globale di Francesco non si poteva tornare indietro, ed è visto come il fumo negli occhi dai trumpiani, che lo hanno già bollato come la nuova “marionetta marxista in Vaticano”. Capo del dicastero dei vescovi per volontà di Francesco, conosce la macchina della Chiesa e può mediarne le tensioni interne.

L’autonomia e l’autorità della Chiesa ne escono riconfermate, a onta degli “anti-papa” che usano la religione come protesi impropria del loro potere autocratico. E però, si sa che questa autonomia e autorità si avvalgono di una sostanza dottrinaria più ampia di questi riflessi politici e geopolitici. E sul piano dottrinario si vedrà che cosa ci riserva l’agostiniano Prevost. Conforta quell’appello iniziale a una pace “disarmata e disarmante” scagliato contro l’escalation bellicista dei potenti della Terra. Confortano i tweet contro l’ordo amoris gerarchizzato e blasfemo di J.D. Vance. Ma hanno già suscitato perplessità forti due “passaggi stonati” (Vito Mancuso) sull’ateismo nella prima omelia del nuovo Papa. E allarmano le sue chiusure del passato sulla posizione delle donne nella Chiesa e sulle istanze LGBTQ+. Decisiva sembra comunque la motivazione che Prevost stesso ha dato della sua scelta di chiamarsi Leone XIV, la necessità di sporgersi oggi sulle trasformazioni indotte dall’intelligenza artificiale come Leone XIII si sporse ai suoi tempi con la Rerum novarum sulle trasformazioni del mondo del lavoro. Sulla rivoluzione antropologica in corso Leone XIV promette di mettere i piedi nel piatto e di dire la sua.

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Un commento a “Le “cose nuove” di Leone XIV”

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