Alle 3:30 di venerdì mattina, poche ore prima dell’annuncio dei risultati nelle elezioni suppletive, il deputato laburista Jim McMahon ammetteva di considerare già perso il collegio settentrionale di Hartlepool. Secondo McMahon, ci vorranno anni per ricostruire il partito dopo l’esperienza corbynista e siccome quei collegi elettorali ex-industriali che eleggono deputati conservatori “ricevono più investimenti dal governo centrale, come già si vede nei seggi circostanti” chi vota Tory “non corre troppi rischi”. L’ha detto esplicitamente: sono loro a offrire qualcosa di materiale, noi laburisti… non tanto.
Senz’altro il ministro ombra per i trasporti McMahon si è espresso male — sembra che volesse criticare la politica “pork-barrel” (le marchette elettorali) dei Tory. I volantini utilizzati per un’altra elezione amministrativa svoltasi giovedì scorso hanno citato il deputato conservatore David Amess affermando che si dovrebbe votare Tory “perché difficilmente i ministri si sforzano per aiutare i comuni gestiti dai partiti d’opposizione”. Ma investimenti concreti ci sono stati, e il governo di Johnson si presenta efficacemente come capace di rigenerare le stesse regioni che hanno sofferto di più l’austerity del governo Tory/Lib-Dem dei primi anni 2010.
Il partito conservatore di Johnson non è solo più destrorso di quello di David Cameron, ma anche in qualche aspetto più democristiano e paternalista. Questo fatto presenta problemi inediti per il Partito laburista di Starmer, che sembra non solo privo di qualsiasi progetto chiaro, ma anche incapace di imitare l’esempio di Joe Biden, essendo troppo ossessionato dal bisogno di prendere le distanze dalla sinistra del partito per dimostrare di essere “serio” e “affidabile”. Questa visione managerialista è diventata un dogma ideologico fuori controllo: pur avendo più volte affermato che si sarebbe assunto la responsabilità per i risultati di questa tornata elettorale, Starmer ha già cominciato a licenziare i ministri ombra legati all’esperienza Corbyn.
Dalle tute blu alle regioni blu
La crisi del partito ha senz’altro radici profonde. È un luogo comune nell’analisi di queste elezioni constatare lo scarto sempre più visibile tra il Partito laburista e la classe lavoratrice (o almeno quella spesso chiamata “tradizionale”). Così nella sua versione Blue Labour (secondo cui il partito è troppo woke e quindi sempre più limitato a un elettorato urbano di laureati) ma anche quella opposta del giornalista Paul Mason (secondo cui, venendo meno il mondo operaio, bisogna creare una nuova coalizione progressista) è implicita l’idea secondo cui il partito va riarticolato sulla base di valori più culturali che economici.
Ovviamente l’elettorato inglese (e dico apposta “inglese”) non è quello del secondo dopoguerra. Ma ogni giudizio sulla svolta Tory della classe lavoratrice va compreso in termini relativi: anche in piena era “fordista” quel partito aveva una base operaia importante (dell’ordine del 25 per cento) e l’egemonia rossa, anche in famose roccaforti laburiste (ad esempio Liverpool), risale solo agli anni ‘60 o ‘70. Il risultato della crisi pluridecennale del movimento operaio è non solo uno spostamento a destra, ma anche una volatilità generale: si parla sempre degli ex-laburisti che votano Tory, ma cosa dire del fatto che nel 2017 il 52.5 per cento dei residenti di Hartlepool hanno votato il Labour del terribile ultra-sinistroide Corbyn (+ 17 percento, se paragonato alle elezioni del 2015) anche inglobando una fetta consistente del voto pro-brexit di UKIP?
Anche nelle elezioni di giovedì scorso, ci sono stati esempi di resilienza o anche di aumento forte del voto laburista, dove i leader locali hanno mantenuto un’opposizione più ferma al governo e proposto un’alternativa concreta. Indicativi sono i casi del Galles, dove il partito ha preso 30 seggi su 60 nel parlamento autonomo (il primo ministro Mark Drakeford è un laburista che ha difeso le politiche socialiste di Corbyn) e di Manchester, dove il sindaco Andy Burnham ha preso quasi il 70 per cento (la maggioranza più importante mai avuta, in numeri assoluti di voti, per qualsiasi candidato inglese in un singolo collegio elettorale). Ministro nel governo di Gordon Brown, Burnham non è legato alla sinistra del partito, ma si è dimostrato capace di difendere la sua città in modo combattivo, soprattutto sulla questione delle risorse per sostenere i lavoratori licenziati durante il secondo lockdown.
A livello nazionale, sarebbe difficile enfatizzare troppo quanto poco ha offerto il partito laburista all’elettorato giovedì scorso al di là delle affermazioni secondo cui “noi siamo i competenti” e “non più corbynisti”. In generale il partito promuove la visione antipolitica di Sir Keir Starmer, che vuole contrapporre il suo aspetto ‘professionista’ allo sleaze (i vari aspetti berlusconiani) del premier Johnson. Si pensi che un manifesto elettorale in cui campeggiava una foto di Starmer proclamava, in stile dadaista, “Giovedì 6 maggio si svolgono quattro elezioni”. Ma assieme al linguaggio della competenza c’è anche lo sforzo, assai rozzo, di sbandierare una identity politics dell’inglese medio. Proprio a Hartlepool, Starmer si è fatto fotografare mangiando i fish ‘n chips (nonostante il suo rivendicato vegetarismo), in un tentativo molto goffo di esibire i suoi gusti popolari. L’effetto è paragonabile a un servizio in cui Enrico Letta mangiasse la polenta a Pontida per affermare la sua volontà di ritornare ai territori.
Soprattutto il partito laburista ex- e anti-corbynista soffre dell’incapacità di capire quale base dovrebbe mobilitare; il tentativo di creare un pigliatutto lascia solo un vuoto, né pesce né carne. Se davvero la classe lavoratrice non esiste più, perché un partito “laburista”? Oppure bisogna solo adeguarsi all’opinione media della ex-classe lavoratrice? Effettivamente, il dibattito pubblico inglese soffre della tendenza costante a considerare la “classe” in termini culturali, anzi, di consumi e atteggiamenti (ed è quasi scontato che le minoranze etniche e le popolazioni cittadine, soprattutto quella di Londra, sono delle “urban elites“). Per questo motivo, quasi ogni critica di destra al partito laburista (anti-immigrazione, no-vax ecc.) viene presentata dai tabloid come la voce autentica degli onesti operai, amplificata dalla destra interna del partito laburista.
Sondaggisti e politologi ci martellano con le classificazioni socioprofessionali ABC1 (“classi medie-superiori”) e C2DE (“classe lavoratrice”) per convincerci che solo i figli di papà votano Labour. Eppure sembra strano uno schema secondo cui un infermiere sarebbe benestante (ABC1) e chi dipende dalla pensione statale apparterrebbe alla categoria più svantaggiata (E). Alle elezioni del 2017 non solo i giovani studenti ma gli under-50 in generale hanno votato maggioritariamente per il partito laburista di Corbyn. E guardando le categorie socioprofessionali più specifiche vediamo che il Labour rimane massivamente il partito degli “addetti alla produzione (e ai servizi pubblici)” e degli “operatori socio-culturali”.
Decisivo in queste elezioni, sebbene mai discusso dai media o dagli strateghi-opinionisti dominanti, è il problema dell’affluenza elettorale tra queste fasce della popolazione. In queste elezioni suppletive, il partito laburista ha preso solo il 29% a Hartlepool, i Tory il 52%. Ma il numero assoluto dei votanti Tory (15.000) non si attesta su livelli storicamente alti: la partecipazione è stata del 42%, e il Labour ha mobilitato solo un terzo dei cittadini di Hartlepool che hanno votato laburista appena quattro anni fa. Se la partecipazione bassa è un dato tipico delle elezioni suppletive, il paragone con la vittoria imponente del 2017 sembra complicare ogni analisi secondo cui il declino strutturale pluridecennale del voto “di classe” offre la spiegazione onnicomprensiva di questa sconfitta.
Allo stesso tempo, non vanno sottovalutate le conseguenze del crollo laburista. Questo risultato ha portato il partito al 29% al livello nazionale, e rappresenta una sconfitta dolorosa anche se paragonato ai risultati del 2016 (l’ultima volta che si sono svolte queste elezioni amministrative). È ormai consolidato e probabilmente irreversibile il crollo nel partito in Scozia, dove è sceso al di sotto del 20% ed è diventato il terzo partito, nonostante avesse 41 dei 59 deputati scozzesi fino al 2015. Anche lì, il referendum sulla questione della nazionalità (e il fatto che su quel tema il partito sia schierato insieme ai Tory) ha diviso la base e alimentato l’ascesa dell’altro partito socialdemocratico, lo Scottish National Party; nelle elezioni di giovedì, il partito di Nicola Sturgeon ha preso 64 su 129 dei deputati nel parlamento autonomo di Edimburgo, e i Verdi indipendentisti altri 8 seggi.
Per spiegare il declino del Labour, bisogna guardare al di là dello schema rigido del venir meno della classe lavoratrice, e capire anche i fattori più contingenti e le occasioni perse. Senz’altro anche il referendum Brexit ha lasciato delle tracce sulla vita politica britannica: il problema sta nel fatto che, dopo la campagna per un secondo referendum tra il 2017 e il 2019, la scissione nella base laburista su questa questione è più profonda adesso di quanto non lo fosse quattro anni fa. Allo stesso tempo, l’esempio scozzese dimostra come una sconfitta inaspettata e contingente può diventare duratura e strutturale. E, come nel caso di Theresa May dopo le elezioni anticipate del 2017, è difficile immaginare che Starmer possa riconquistare la sua aura di “competenza”.
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