Articolo pubblicato su “The Conversation” il 10.11.2022. Traduzione in italiano a cura di Alessandro Montebugnoli.
Herman Daly si compiaceva di affermare l’ovvio. In presenza di un’economia che crea più costi che benefici, parlava di una ‘crescita diseconomica’. Ma di questa idea non c’è traccia nei manuali di economia. Il fatto stesso di suggerire che la crescita economica può costare più di quanto vale appare come un’eresia.
L’economista ribelle, conosciuto come il padre dell’economia ecologica […], è morto lo scorso 28 ottobre, all’età di 84 anni. Ha dedicato la sua carriera a mettere in questione una teoria priva di una base ambientale e una bussola morale. In un’età di caos climatico e crisi economica, le sue idee, che hanno ispirato un orientamento a vivere nel rispetto dei mezzi che abbiamo, sono sempre più essenziali.
La formazione di un economista ecologico
Herman Daly è cresciuto a Baumont, Texas, proprio all’inizio del boom petrolifero del Ventesimo secolo, essendo quindi testimone della crescita e della prosperità senza precedenti dell’‘età dei pozzi’, in contrasto con la povertà e le privazioni che ancora persistevano dopo la Grande Depressione.
Per Daly, come per tanti giovani di allora, la crescita economica era la soluzione dei problemi mondiali, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, Studiare economia all’università ed esportare il modello del nord verso il sud globale sembrava la strada giusta.
Ma Daly era un lettore vorace, anche come effetto collaterale di una poliomielite contratta da giovane e dell’astensione dalla texana mania per il football. Al di fuori dei libri di testo prescritti, trovò una storia del pensiero economico pregna di ricchi dibattiti filosofici sulla funzione e lo scopo dell’economia.
Diversamente dalla precisione dell’equilibrio di mercato disegnato sulle lavagne delle aule universitarie, l’economia del mondo reale era confusa e intrisa di politica, progettata dai detentori del potere per selezionare vincitori e perdenti. Egli credeva che gli economisti, come minimo, dovessero chiedere: Crescita per chi, a quale scopo e quanto a lungo?
La vera presa di coscienza arrivò nel 1962 grazie alla lettura del libro Silent Spring [Primavera Silenziosa] della biologa marina Rachel Carson e al suo appello a “fare i conti con la natura … per provare la nostra maturità e la nostra padronanza, non della natura ma di noi stessi”. All’epoca, Daly lavorava a un dottorato sullo sviluppo in America latina presso la Vanderbilt University ed era già piuttosto scettico circa l’iperindividualismo sfornato dai modelli economici. Nell’opera di Carson, il conflitto tra un’economia in crescita e un ambiente fragile era straordinariamente chiaro.
Dopo un fatidico corso con Nicholas Georgescu-Roegen, la conversione fu completa. Georgescu-Roegen, un economista di origine rumena, mise da parte la storia confortante di un mercato che funziona avanti e indietro come un pendolo, cercando senza sosta uno stato di equilibrio naturale. Nella sua argomentazione, l’economia somigliava di più a una clessidra, un processo a senso unico nel quale risorse che hanno un valore sono convertite in rifiuti inutili. Daly si convinse che la teoria economica non dovrebbe più accordare priorità all’efficienza di questo processo a senso unico, bensì concentrarsi sulla scala ‘ottimale’ di un’economia che la Terra possa sostenere. Nel 1968, appena prima del suo trentesimo compleanno, mentre stava lavorando come visiting professor nella poverissima regione di Ceará nel nord-est del Brasile, pubblicò On Economics as a Life Science [L’economia come scienza della vita].
Le sue tavole e i suoi disegni di un’economia come un processo metabolico, interamente dipendente dalla biosfera come fonte di sostentamento e deposito dei rifiuti, fu la road map di una rivoluzione nella teoria economica.
L’economia di un mondo pieno
Daly passò il resto della sua carriera tracciando scatole all’interno di circoli. In quella che egli chiamava “la visione pre-analitica”, l’economia, la scatola, era vista come una componente interamente sussidiaria dell’ambiente, il circolo.
Quando l’economia è piccola rispetto all’ambiente che la contiene, un’attenzione privilegiata sull’efficienza di un sistema in crescita è giustificata. Ma Daly argomentò che in un ‘mondo pieno’, con un’economia che eccede l’ambiente dal quale è sostenuta, il sistema è a rischio di collasso.
Negli anni Settanta, mentre era professore alla Louisiana State University, e il movimento ambientalista degli Stati Uniti era al culmine, Daly portò lo schema della scatola in un cerchio alla sua logica conclusione in Steady-State Economics [L’economia dello stato stazionario]. Nel suo ragionamento, la crescita e lo sfruttamento possono avere priorità nello stato competitivo e pionieristico di un ecosistema giovane, ma con l’età giunge il momento di un nuovo centro dell’attenzione sulla capacità di durata e la cooperazione. Il suo modello di stato stazionario spostò l’obiettivo da una cieca espansione dell’economia a un miglioramento intenzionale della condizione umana.
La comunità internazionale dello sviluppo prese atto. Nel 1987, a seguito della pubblicazione da parte delle Nazioni Unite di Our Common Future, che inquadrava gli obiettivi di uno sviluppo ‘sostenibile’, Daly vide una finestra per una riforma della politica dello sviluppo. Così, lasciò la sicurezza dell’incarico all’Università della Louisiana per unirsi a un gruppo ribelle di scienziati dell’ambiente presso la Banca Mondiale, che per sei anni lavorarono al fine mettere da parte la logica economica imperante che trattava “la terra come se fosse un’impresa in liquidazione”. Daly spesso sbatté la testa contro la leadership degli anziani, e soprattutto, com’è, noto contro Larry Summers, che all’epoca era capo economista dell’istituzione e che pubblicamente spazzò via la questione se le proporzioni di un’economia in crescita rispetto a un ecosistema fisso sia di qualche importanza. La risposta del futuro segretario al Tesoro degli Stati Uniti fu breve e tranciante: “Non è il modo giusto di considerare la cosa”.
Ma entro la fine dell’incarico, Daly e colleghi avevano incorporato con successo nuovi standard di impatto ambientale in tutti i finanziamenti e i progetti per lo sviluppo. E l’agenda internazionale della sostenibilità alla quale essi avevano aiutato a dar forma è oggi incorporata negli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, “un piano d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità”.
Nel 1994, Daly tornò all’impegno accademico presso l’Università del Maryland e negli anni successivi il suo lungo lavoro fu riconosciuto in tutto il mondo, compresi lo Sweden’s Right Livelihood Award, il Netherlands’ Heineken Prize for Environmental Science, il Norway’s Sophie Prize, la Medaglia della Presidenza italiana, il Japan’s Blue Planet Prize e perfino il riconoscimento come persona dell’anno da parte della rivista Adbuster.
Oggi, l’impronta della sua carriera può essere trovata ovunque, compresa la misurazione di un’economia per mezzo del Genuine Progress Indicator, la nuova Economia della ciambella, che prevede uno zoccolo di acquisizioni sociali all’interno di un soffitto ecologico, corsi di laurea in economia ecologica diffusi in tutto il mondo e un vivace movimento della decrescita incentrato su una giusta transizione a un’economia delle giuste dimensioni.
Ho conosciuto Herman Daly per vent’anni come co-autore, guida e insegnante. Aveva sempre tempo per me e per i suoi studenti, da ultimo scrivendo la prefazione del mio prossimo libro The Progress Illusion: Reclaiming Our Future from the Fairytale of Economics. Gli sarò sempre grato per l’incoraggiamento, come diceva, a “fare le domande ingenue, oneste” e a non essere soddisfatti “fino a quando non si ottiene una risposta”.
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