Articolo pubblicato su “Internazionale” il 01.12.2020
Intervistato su varie testate, il nuovo commissario alla sanità calabrese Guido Longo dice che ha accettato l’incarico per amore di una regione che già conosce “nella sua complessità”, che la materia sanitaria non gli è familiare ma si appresta a studiarla a fondo, che la cosa più importante da fare è garantire assistenza medica a tutti i calabresi e che nel suo nuovo ruolo continuerà a confrontarsi con le esigenze della cittadinanza e del territorio come già ha fatto in passato. Lo prendiamo in parola, confidando – lo dico sinceramente e senza ironia – che riuscirà a ribaltare nella cosa e nel come il messaggio simbolico che il governo ha inviato alla Calabria con la sua nomina e con il suo metodo. Che invece sono entrambi, il messaggio e il metodo, disperanti.
Avevamo capito che in Calabria c’è un problema, molto serio, di riorganizzazione di un servizio sanitario devastato, nell’ordine, da sprechi, bilanci fasulli, tagli dissennati, commissariamenti inefficienti, politiche incompetenti, favori alla sanità privata, turnover bloccati nel pubblico, desertificazione dei presidi territoriali, turismo sanitario funzionale alle eccellenze private delle regioni del Nord, infiltrazioni ‘ndranghetiste e massoniche. Non era vero, evidentemente. Individuata nella persona di un poliziotto antimafia, dopo la farsesca sequenza di quattro commissari licenziati (Cotticelli), dimissionati dall’alto (Zuccatelli), annunciati a vuoto (Gaudio, Miozzo), la nomina del nuovo commissario manda a dire all’opinione pubblica, calabrese e nazionale, che in Calabria c’è solo un problema di mafia, sicurezza e ordine pubblico, da risolvere con l’invio di un funzionario di polizia. Briganti e prefetti, come ai tempi dell’unità d’Italia. Guardie e ladri, come al cinema.
Ancora una volta dunque alla legittima esigenza di normalità della Calabria si risponde rigettandola nella condizione di una irredimibile eccezione. Si trattava di rendere esigibile il diritto alla salute, che è un diritto fondamentale scritto in Costituzione. Si risponde criminalizzando, neanche tanto implicitamente, un’intera regione, all’ombra della pur necessaria lotta alla ‘ndrangheta e alla massoneria deviata. Con il plauso unanime delle forze politiche regionali, di governo e d’opposizione.
È troppo comodo, per le istituzioni nazionali e regionali, uscirne in questo modo. Chi conosce la Calabria sapeva fin dall’arrivo del coronavirus che la sua situazione sanitaria era la cartina di tornasole di tutto quello che nel sistema-Italia non funziona, dal titolo V della Costituzione ai diritti diseguali alla demolizione di un sistema sanitario un tempo cardine e vanto dello stato sociale. E sapeva che dunque sarebbe diventata l’hic Rhodus, hic salta della governance della pandemia – se così vogliamo chiamare, nobilitandolo, l’intreccio ingarbugliato di poteri statali, poteri regionali, poteri d’emergenza e competenze tecnico-scientifiche che in questi mesi ha di fatto cambiato la nostra forma di governo. Bisognava dunque seguirla, la Calabria, molto da vicino. E fare dell’emergenza-covid l’occasione per accelerare la ristrutturazione della sanità che aspettava da anni.
Non è stato fatto. Quello che è avvenuto, e quello che non è avvenuto, fra la prima e la seconda ondata dell’epidemia attende ancora di essere ricostruito nei dettagli, ma la sequenza dei Dpcm e Dpgr firmati da Conte e Santelli a marzo e mai attuati se non in minima parte, del piano covid firmato a sua insaputa dal commissario Cotticelli e mai implementato, delle 15 Usca istituite contro le 37 programmate, dei 50 nuovi posti di terapia intensiva allestiti contro i 156 dovuti, dell’incertezza e dei rimpalli sul “soggetto attuatore” (la Regione, il ministero, il commissario?) di quello che sulla carta andava fatto, tutto questo parla di una confusione e di una conflittualità istituzionale inconcepibili in uno stato di diritto. E qui, sia chiaro, non c’entrano niente le infiltrazioni criminali né il debito accumulato, e c’entra fino a un certo punto perfino la condizione di fragilità pregressa del sistema sanitario regionale, che pure ha dei punti di forza che avevano retto la prima ondata dell’epidemia. C’entrano solo ed esclusivamente l’approssimazione e l’irresponsabilità delle istituzioni coinvolte – regione, governo e commissario di governo – nella gestione dell’emergenza covid, unite al dissesto istituzionale cronico dovuto alla sciagurata riforma del titolo V della Costituzione. Quando e come il governo e la regione intendono risponderne?
Poi c’è stata la tragicommedia – politica e mediatica, anzi mediatica e politica – del defenestramento di Cotticelli che scopre in diretta di non sapere cos’è un piano covid, del dimissionamento di Zuccatelli che ha bruciato un indiscutibile curriculum (compresa la sua attività di commissario a Catanzaro) con il video sulle mascherine, di Gaudio che scarica sulla moglie il gran rifiuto, di altri candidati ventilati e bruciati. Senza che dal governo venisse un’informazione o un chiarimento sui criteri che orientavano la scelta: politici? Mediatici? Di competenza? Quante tensioni della maggioranza (e quante pretese su quel ruolo, alla vigilia delle elezioni regionali in Calabria) si sono scaricate su questa nomina? Quanto incide la reputazione mediatica sulla reputazione professionale di un candidato, se incide perché non la si controlla prima di nominarlo, e se non incide perché non lo si difende dopo averlo nominato? Se le competenze contano, perché si passa da un commissario-generale Cotticelli) a un commissario-manager sanitario (Zuccatelli) a un commissario-poliziotto (Longo) come fossero tre buste equivalenti? E perché nella scelta non sono state coinvolte le professionalità che operano efficacemente sul territorio – penso ad esempio alla rete delle “Comunità competenti”, che sui problemi e la riorganizzazione della sanità calabrese elabora da tempo soluzioni realistiche e appropriate, ben note peraltro al ministero della salute?
Torniamo al punto di partenza: perché quando c’è di mezzo la Calabria la logica coloniale del commissario prefettizio e quella securitaria della caccia al criminale si sovrappongono alla logica della cittadinanza attiva e dei diritti, e la comprimono. Il gioco non è riportare una regione del paese a una normalità vivibile, ma riaffermare l’alterità di un territorio per definizione fuori norma. Ed è un gioco in cui politica e media concorrono alla pari. Stavolta i media hanno avuto di sicuro il merito di mettere sotto la lente d’ingrandimento una situazione di cui la politica avrebbe volentieri taciuto. Ma neanche stavolta hanno resistito, fatte salve poche e meritevoli eccezioni, alla tentazione di raccontarla su un fondale etnico che ne oscura distinzioni e differenze: fra la sanità devastata e quella che soprattutto grazie ai medici funziona, fra corruzione e legalità, fra diritti violati e privilegi garantiti, fra chi il crimine lo agisce e chi lo combatte. Su questo fondale etnico è possibile dire e lasciar dire di tutto e infatti abbiamo ascoltato e letto di tutto, dalle nostalgie vintage del procuratore Gratteri di una Calabria contadina da dove si emigrava con la valigia di cartone alle affermazioni neanche tanto velatamente razziste di un autorevole opinionista progressista secondo il quale in Calabria ‘ndrangheta, società e politica coincidono. Mancano solo i cow boys e gli sceriffi e il western è servito.
Questa rappresentazione non fa bene né alla Calabria, perché la conferma nel suo isolamento, né all’Italia, perché non aiuta a capire i dispositivi che malgrado regionalismi e localismi esasperati la tengono insieme, nel bene nonché nel male. Mentre nella regione con il sistema sanitario più sofferente si consumava questa tragicommedia, in quella con il sistema sanitario più eccellente, la Lombardia, i numeri del contagio e delle morti da covid si impennavano come e peggio che durante la prima ondata. Un sistema sanitario basato sull’ospedalizzazione e l’eccellenza delle strutture private a spese della medicina di territorio non regge l’impatto di una pandemia, e questo ormai lo hanno capito anche le pietre. Quello che si continua a tacere è che quel sistema è stato nutrito nel corso degli anni anche con il depauperamento della sanità meridionale, calabrese in primis, e l’incentivazione del cosiddetto turismo sanitario, che a quel sistema sono funzionali e sono in primo luogo il frutto di scelte politiche, non di disgrazie casuali o di colpe locali. È solo il linguaggio dei diritti, antitetico a quello del profitto, che può riunificare il sistema sanitario e lo stato sociale italiani: ammesso che lo si voglia.
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