L’omicidio di Satnam Singh nelle campagne di Latina ha fatto riemergere nella cronaca e nel discorso politico il caporalato. Riemergere perché il caporalato in agricoltura, in edilizia e anche nelle nuove forme dell’economia delle piatteforme, non era scomparso. Solo in agricoltura, secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto, sono più di 450.000 i lavoratori e le lavoratrici sotto caporale. Per averne conferma basta seguire in questi giorni le regolarizzazioni di lavoratori di origine indiana in provincia di Latina. Latina, dove la comunità indiana è insediata da moltissimi anni, ma continua a essere sostanzialmente invisibile.
Nel 2016 fu approvata la legge 199, dedicata a Paola Clemente, lavoratrice morta mentre lavorava sotto caporale nei campi. Anche allora, l’ondata di emozione e la lunga e tenace iniziativa delle organizzazioni sindacali favorirono l’approvazione della legge che era ostacolata e rallentata da molti, in primis dalle organizzazioni agricole. È una buona legge, che darebbe molte risposte, se solo venisse davvero applicata. Dobbiamo riconoscere che sono spesso le forze dell’ordine ad agire e intervenire; anche se, per esempio, abbiamo saputo che l’inchiesta per caporalato sull’azienda di Latina è giaciuta “immobile” per 5 anni.
La legge però non è solo norme di diritto penale, ma impone di affrontare il tema casa, trasporti, le condizioni di lavoro e una rete agricola del lavoro di qualità. Tutta questa parte, con lodevoli e rarissime eccezioni, non viene applicata. E allora la domanda obbligata è: perché?
La prima risposta che bisogna dare è che con la vigente legge Bossi-Fini, il caporalato dorme sonni tranquilli e si espande. Ed è proprio la diffusa “irregolarità” che favorisce la ricattabilità dei lavoratori e nutre i caporali e il lavoro sommerso. E ancora, è la legge Bossi-Fini che pur prevedendo la possibilità di “protezione” per le vittime di tratte e sfruttamento, non le protegge davvero e depotenzia la possibilità per i lavoratori di denunciare.
Non basta il, pur essenziale, permesso di soggiorno che non sempre scatta in contemporanea alla denuncia; il lavoro e un tetto sotto il quale dormire sono componenti essenziali perché si possa avere giustizia. Serve ed è essenziale che si sappia che denunciare non corrisponde a perdere tutto. Ci sono lavoratori che sono in Italia da oltre 10 o 20 anni ormai, e continuare a considerarli irregolari serve solo a impedire loro la possibilità di avere un lavoro dignitoso e regolare. Come si traduce tutto questo se non in una esplicita collusione con il sistema del caporalato?
Se la Bossi-Fini resta il primo ostacolo, il secondo – alibi molto utilizzato dalle imprese – è: ma come facciamo a trovare i lavoratori? Alibi alimentato dal totale fallimento del decreto flussi. Non sarà mai vero che una impresa assume persone non conosciute; e allora senza intermediazione legale, emerge e regna quella illegale.
Aver cancellato l’intermediazione illecita di manodopera ha prodotto l’espandersi di numerose tipologie e false cooperative dedicate in realtà solo a intermediare manodopera, sistema di cui i caporali fanno ovviamente parte. Bisognerebbe tornare a parlare di questa allarmante dinamica al fine di normare le regole di collocamento in sinergia con la formazione (linguistica, professionale, di sicurezza sul lavoro). È falso che le agenzie di somministrazione siano di per sé una risposta sufficiente. Se casa e trasporti, a cui sono dedicate anche risorse del PNRR a partire dal superamento delle “tendopoli”, devono trovare risposte dalle amministrazioni locali e regionali, le norme sul lavoro necessarie richiedono di ripristinare norme che sono state cancellate. Ancora una volta si dimostra che l’accanimento contro norme di tutela dei lavoratori (collocamento art. 18), rendono i lavoratori e le lavoratrici unicamente più ricattabili e costituiscono un impedimento alla difesa dei diritti universali del lavoro.
La stessa assenza di norme che abbiano effetto dirimente, si traduce in un severo indebolimento dei diritti individuali e collettivi. Se denunciare non corrisponde alla possibilità di trovare un altro lavoro o di essere reintegrati; se non vi è un luogo dove cercare lavoro che sia individuabile; se non è illecita la prima intermediazione di manodopera; allora continuerà a esserci chi guadagnerà, e molto, sulle spalle di chi cerca ed ha bisogno di lavoro.
Le risposte non sono in verità difficili: dai centri per l’impiego agli enti bilaterali, le strutture possono essere rese agibili, ma serve un cambio di mentalità vero, che incentivi e premi i comportamenti rispettosi delle regole e delle norme (che dovrebbero essere “normali” e dovuti), fino a costruire strumenti efficaci per attuare una seria deterrenza, oltre che la sanzione.
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