Mentre l’Unione europea si è spostata a destra sia in Parlamento sia nella composizione della Commissione1 e si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania e altri paesi cosiddetti “frugali”) che esclude solo le spese per le armi dal computo nel calcolo del deficit2, da mesi gli alti funzionari dell’Ue fanno dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro”, ha affermato qualche settimana fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica” e a sostenere che “dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”, spendendo 500 miliardi di euro nel prossimo decennio, lavorare per costruire un esercito europeo e avere come priorità principale “prosperità e competitività”.
Non a caso, circa un anno fa, von der Leyen aveva affidato a due dei maggiori esponenti della tecnocrazia europea, campioni della visione del mondo neoliberista, Mario Draghi e Enrico Letta, la redazione/supervisione di due rapporti complementari che avrebbero dovuto delineare, da un lato, una strategia per il futuro della competitività europea (vedi qui e qui) e, dall’altro, una strategia per il futuro del mercato unico europeo (vedi qui). Il Rapporto Draghi incorpora le analisi e raccomandazioni del Rapporto Letta, per cui nell’analisi che segue ci concentriamo sulla strategia messa a punto da Draghi e presentata ufficialmente il 9 settembre scorso.
Al centro della lunga narrazione di Draghi (in inglese sono quasi 400 pagine) c’è la logica di mercato e, al tempo stesso, la costruzione di un’economia di guerra nell’Unione europea, basata su strategie tese a promuovere la formazione di un “complesso militare-industriale” europeo3. È assai probabile che il rapporto Draghi darà una forma significativa al programma di lavoro per i prossimi cinque anni della Commissione europea guidata da von der Leyen.
Più in generale, il Rapporto Draghi è un documento che esprime con chiarezza il modello di analisi e di ragionamento (le “mappe concettuali” e la “struttura cognitiva”), il punto di vista e lo stato d’animo allarmato e angosciato sul futuro dell’Unione europea della parte più consapevole della tecnocrazia centrista europea al potere, quella che dal 7 febbraio 1992 – dalla firma del trattato di Maastricht – ha guidato il processo che ha portato alla formazione del mercato unico. Un obiettivo quest’ultimo che, questa élite dirigente aveva solennemente promesso e assicurato, avrebbe fatto materializzare una nuova ondata di prosperità economica che avrebbe arricchito imprese, consumatori e cittadini, nonché sostenuto il “modello sociale europeo” (quello di stampo keynesiano e socialdemocratico incentrato sul welfare state). L’ideologia neoliberista di questa élite ha messo tutto in mano al mercato e agli «animal spirits» degli imprenditori, trasformando l’Unione europea nel “cane da guardia” degli Stati nazionali, privati di autonomia monetaria e sottoposti a severi vincoli e controlli austeritari per quanto riguarda budget e politiche industriali4. Per cui, le politiche fiscali sono state realizzate all’insegna dell’austerità, hanno impedito l’espansione della domanda, hanno costretto le economie europee a contenere la spesa pubblica e bloccato la crescita dei salari. L’investimento pubblico si è contratto in quasi tutti i Paesi, e conseguentemente il capitale pubblico (che vuol dire strade, ferrovie, ospedali, scuole, servizi) si è notevolmente deteriorato.
Dopo 32 anni, quindi, sappiamo bene, sulla nostra pelle, come è andata. La prosperità tanto promessa non si è materializzata. In buona parte dei paesi europei, salari e stipendi sono rimasti al palo, se non sono regrediti in termini reali. Sono aumentate le disuguaglianze tra i ricchi e il resto della cittadinanza, come tra “paesi/regioni centrali” e “regioni periferiche” (come il nostro Mezzogiorno o i Länder dell’ex Germania dell’Est), ormai pressoché abbandonate a sé stesse. I mercati del lavoro sono stati destrutturati sul piano sia normativo sia del loro concreto funzionamento, con il risultato di far emergere milioni di lavoratori poveri e di persone in povertà assoluta e relativa. Infine, il tanto richiamato e decantato “modello sociale europeo” è in rovina: pensioni insufficienti per decine di milioni di anziani, sistemi sanitari inadeguati e sull’orlo del fallimento, sistemi di istruzione e di edilizia economica popolare con budget sempre più ridotti o inesistenti, servizi sociali frammentati e sottofinanziati che non tengono il passo con i bisogni di massa emergenti. Il programma neoliberista si è concretizzato in un insieme di misure volte a ridurre il potere reale degli Stati nazionali, le tasse ai ricchi e alle imprese, i salari, le tutele, i diritti sociali e la spesa sociale, privatizzando imprese, servizi e beni pubblici, deregolamentando i mercati, a cominciare da quello finanziario e da quello del lavoro, creando un sistema profondamente instabile soggetto a grandi crisi (prima la crisi finanziaria del 2008, poi quella dell’euro del 2011, quindi la pandemia, la crisi energetica e l’inflazione) e che ha fatto emergere working poor e nuove povertà5. Anche la “presidente dell’Europa” (come l’ha definita il Financial Times) von der Leyen ha simbolicamente preso atto dell’agonia del “modello sociale europeo”, eliminando il commissario agli Affari sociali e per contro nominando il nuovo commissario alla Difesa e allo Spazio.
Ora, non contenta del disastro che ha combinato negli ultimi tre decenni, questa stessa élite – i Draghi, Letta & Co. – pretende di dirci come se ne dovrebbe uscire, facendo nuove promesse di prosperità futura, senza sostanzialmente modificare il paradigma neoliberista in base al quale ha governato. Che di situazione disastrosa si tratta è ammesso – almeno per quanto riguarda variabili e condizioni economiche – dallo stesso Mario Draghi, il quale dipinge un quadro assai fosco dello stato dell’economia europea. Ci si chiede cosa abbiano fatto questi tecnocrati negli ultimi trent’anni: certo non si sono occupati dei processi dell’economia reale dell’Unione europea (della crescita, degli investimenti e dell’occupazione), preferendo occuparsi del controllo della finanza pubblica degli Stati europei e delle politiche monetarie e finanziarie che hanno favorito l’espansione della finanza e le sue logiche speculative.Draghi ci parla di “una sfida esistenziale” con un richiamo ai “valori fondamentali dell’Europa” e con un sotteso messaggio “suprematista bianco” euro-occidentale (essere “leader”, “faro” e “attore indipendente sulla scena globale”) rispetto agli Stati Uniti, ma soprattutto a Cina e ad altri popoli del Sud del mondo (Asia e Africa, in particolare) rei di non voler più sottostare allo “scambio ineguale” estrattivista neocoloniale basato sulla cessione di materie prime a basso costo in cambio di nostri prodotti industriali e servizi. Un suprematismo “rispettabile” quello di Draghi, almeno se confrontato con quello sguaiatamente razzista delle forze politiche europee dell’ultra destra apertamente neofascista e neonazista. Tutto costruito ed articolato in una narrazione fatta di variabili economiche – crescita economica, produttività, ”innovazioni tecnologiche rivoluzionarie”, digitalizzazione, e Intelligenza Artificiale (IA), decarbonizzazione, “capitale umano” dotato di “competenze” e produzione di armi – interconnesse attraverso una ferrea logica di interdipendenze in modo da dare al lettore il déjà vu della sensazione “che non c’è alternativa” al disegno proposto (inclusa la necessità di creare una vera e propria economia di guerra, in netto contrasto con i “valori fondamentali europei” di libertà, democrazia e pace6). Si tratta di uno schema logico che inquadra le politiche industriali, le variabili economiche prese in considerazione (solo alcune di quelle possibili) e i soggetti economici e istituzionali (imprese, banche, Stati nazionali, università) unicamente come strumenti che devono essere messi al servizio dell’obiettivo di mantenere la posizione egemonica dell’Europa sul resto del mondo7. E Draghi avverte, in modo apertamente ricattatorio, che se questo obiettivo non venisse raggiunto “non saremmo in grado di finanziare il nostro modello sociale”, dato che “siamo arrivati al punto in cui, se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà” (pag. 5). È lo stesso Draghi che ci spiega in modo esplicito che questo è l’obiettivo fondamentale del suo rapporto: “Se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare, contemporaneamente, un leader nelle nuove tecnologie, un faro di responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni. Questa è una sfida esistenziale. I valori fondamentali dell’Europa sono prosperità, equità, libertà, pace e democrazia in un ambiente sostenibile. L’Ue esiste per garantire che gli europei possano sempre beneficiare di questi diritti fondamentali. Se l’Europa non può più fornirli alla sua gente, o deve barattare l’uno con l’altro, avrà perso la sua ragione d’essere. L’unico modo per affrontare questa sfida è crescere e diventare più produttivi, preservando i nostri valori di equità e inclusione sociale. E l’unico modo per diventare più produttivi è che l’Europa cambi radicalmente” (pag. 1)8.
Come deve cambiare l’Unione europea per Draghi?
Come sempre al centro di tutto il ragionamento c’è il mercato, ossia l’impresa privata, soprattutto la grande impresa privata, l’unico vero attore che i neoliberisti considerano legittimato a operare nell’economia, mentre le imprese pubbliche sono del tutto assenti dal loro quadro analitico, pur essendo ancora attori economici rilevanti in tutti i paesi europei. Il problema, secondo Draghi, è che anche l’attore privato, come gli Stati nazionali, ha dimostrato di essere uno strumento inadeguato a perseguire l’obiettivo egemonico globale che lui assegna all’Europa. Lasciato ad agire in libertà, il settore privato non ha preso le decisioni “giuste” su che cosa produrre, con quali tecnologie e quale impiego di lavoro, a che prezzo, per quali mercati. Soprattutto, non ha fatto gli investimenti necessari per le trasformazioni innovative, digitali ed ecologiche, e questo ha determinato il lungo ristagno dell’economia europea. Ha continuato con le produzioni del passato – ad esempio, non sviluppando le capacità produttive nelle auto elettriche in Europa –, competendo sul prezzo e senza considerare la qualità sociale e ambientale di quanto si produce e si consuma. Ha cercato i facili profitti che si possono ottenere dalle energie fossili o dalle armi o spostando i capitali sui mercati azionari, monetari e finanziari. Senza contare che alle imprese private sono state comunque date rilevanti risorse pubbliche. Buona parte delle politiche tecnologiche e industriali di questi decenni sono state realizzate con incentivi e sussidi alle imprese, che non hanno risposto con innovazioni e sviluppi produttivi adeguati9.Pertanto, data questa manifesta inadeguatezza (una miopia che ha portato ad un “fallimento del mercato”), seguendo una logica ordoliberista, l’Unione europea, seppure non sia uno Stato, deve entrare in campo direttamente ed intervenire con un rinnovato attivismo: deve costruire nuove regole, nuovi strumenti, favorire processi schumpeteriani di innovazione tecnologica in campo industriale ed ambientale, promuovere processi di aggregazione e centralizzazione dei capitali (industriali e finanziari), nonché finanziare direttamente – con 750-800 miliardi di euro all’anno per almeno 6 anni (2025-2030) – l’adeguamento complessivo del capitalismo europeo, compreso il sistema industriale militare, in modo che il posizionamento egemonico globale dell’Europa possa essere preservato, garantendo la “missione civilizzatrice” dell’élite europea. Il paradosso è che Draghi ammette che “dobbiamo garantire che le nostre istituzioni elette democraticamente siano al centro di questi dibattiti. Le riforme possono essere veramente ambiziose e sostenibili solo se godono del sostegno democratico”, ma detto questo procede a prescrivere nuovi compiti e poteri unilaterali per l’Unione europea, una istituzione sovranazionale top-down, verticistica e tecnocratica che si sovrappone agli Stati nazionali democratici, è del tutto priva di una vera legittimità democratica (senza neanche la classica divisione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario enunciata da Montesquieu che è la caratteristica basilare delle democrazie liberali) e opera con procedimenti decisionali in larga parte resi opachi dalle dinamiche intergovernative.
Cerchiamo di capire come Draghi costruisce il quadro logico analitico per poi passare a ragionare sulle raccomandazioni/misure di intervento (almeno 170) che identifica in relazione a quelli che lui considera essere i 10 settori strategici per il futuro della competitività dell’economia europea: energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate (includendo reti superveloci/banda larga ad alta capacità, computing e IA, semiconduttori), industrie energivore (prodotti chimici, metalli di base, minerali non metallici e carta), tecnologie pulite (turbine eoliche, fotovoltaico, elettrolizzatori, pompe di calore e combustibili a basse emissioni di carbonio), automobili elettriche e a guida autonoma, difesa, spazio, farmaceutica e trasporto. La seconda parte del rapporto è soprattutto dedicata allo stato della competitività europea e agli interventi necessari per ravvivarla in ciascuno di questi 10 settori. Allo stesso tempo, vengono trattate quelle che sono definite le “politiche orizzontali” finalizzate a stabilire le condizioni quadro per gli investimenti: accelerazione dell’innovazione, chiudere il gap delle competenze (del lavoro), sostenere l’investimento, riavvivare la concorrenza10 e rafforzare la governance dell’Unione europea (rifocalizzare e accelerare il lavoro della Ue e semplificare le regole/normative). Draghi offre una visione onnicomprensiva dei problemi e delle possibili soluzioni. Fornisce raccomandazioni molto dettagliate su come implementare nuove politiche settoriali e orizzontali, sulla riduzione delle normative e sul miglioramento del processo decisionale. Il suo leitmotiv è “un processo decisionale congiunto” per raggiungere un grado maggiore di pianificazione comune che dovrebbe essere articolato a tutti i livelli del processo decisionale, fino ad arrivare a superare il requisito dell’unanimità nel Consiglio europeo che spesso paralizza l’Ue dando ai paesi veti efficaci. Similmente a Letta, Draghi suggerisce il ricorso a un “28° regime” che consentirebbe alle aziende di uscire dai quadri normativi nazionali e seguire le regole valide ovunque nell’Ue.
Il quadro interpretativo di Draghi, suffragato da una vasta messe di dati, parte dalla constatazione che negli ultimi due decenni c’è stato un rallentamento della crescita economica europea rispetto a quelli che Draghi identifica come i due principali concorrenti, Cina e Stati Uniti. La sua diagnosi è che questo rallentamento sia essenzialmente stato causato da un rallentamento della crescita della produttività per addetto nel settore industriale. Quest’ultimo è il focus esclusivo di tutta l’analisi, anche se secondo Eurostat nell’Unione europea dà lavoro solo al 19% (circa 32 milioni di lavoratori) della forza lavoro totale, producendo il 24% del valore aggiunto complessivo, e nonostante che lo stesso Draghi affermi che “buona parte della crescita futura nel commercio intra-Ue sarà nei servizi” (pag. 17)11. Per quanto riguarda le prospettive future, Draghi sostiene che la geopolitica sia passata da stabile a instabile12, che la fase della crescita del commercio mondiale sia finita e che (quindi) “le imprese europee debbono fronteggiare una maggiore concorrenza all’estero e un minore accesso ai mercati esteri”. L’Unione europea ha perduto anche il principale fornitore di energia a basso costo, la Russia, dalla quale l’Ue importava il 45% del gas consumato nel 2021. Inoltre, siamo in presenza di un’accelerazione del cambiamento tecnologico, con Draghi che ammette che “l’Europa ha perso in gran parte la rivoluzione digitale guidata da Internet e i guadagni di produttività che ha portato: in effetti, il divario di produttività tra Ue e USA è ampiamente spiegato dal settore tecnologico. L’Ue è debole nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura. Solo quattro delle prime 50 aziende tecnologiche del mondo sono europee” (pag. 1). A questo quadro deprimente di “permacrisi”, Draghi aggiunge la nota dolente della questione demografica: nel 2040 ci saranno 2 milioni di lavoratori in meno all’anno, e vista la mancanza di una politica comune integrata sulle migrazioni, questo è un fattore che rafforza il suo argomento che l’unico motore della crescita economica dell’Europa è la produttività del lavoro.
Se questo è il quadro interpretativo generale su cui Draghi organizza tutta la sua narrazione, tre sono le aree di azione strategiche che identifica per riavvivare quella che lui definisce “una crescita sostenibile” e su cui l’Unione Europea in quanto soggetto istituzionale deve prioritariamente intervenire in prima persona:
Il messaggio costante di Draghi è che l’Unione europea deve agire come una vera comunità, facendo gioco di squadra e smettendo di comportarsi come un’accozzaglia di paesi diversi, debolmente connessi tra di loro. Questo richiede di superare tre ostacoli:
Secondo Draghi, per superare questi tre ostacoli l’Ue deve adottare la nuova strategia industriale delineata nel suo rapporto, con le sue 170 proposte di intervento per il breve, medio e lungo termine. L’approccio è pragmatico: le proposte sono progettate per essere implementate rapidamente e per fare una differenza tangibile nelle prospettive dell’Ue. “In molti settori, l’Ue può ottenere molto adottando un gran numero di piccoli passi, ma in modo coordinato, che allinei tutte le politiche dietro l’obiettivo comune. In altri settori, sono necessari un piccolo numero di grandi passi, delegando al livello dell’Ue compiti che possono essere eseguiti solo lì. In altri settori ancora, l’Ue dovrebbe fare un passo indietro, applicando il principio di sussidiarietà in modo più rigoroso e riducendo l’onere normativo che impone alle aziende dell’Ue” (pag. 4).La regia della trasformazione dell’economia europea prospettata da Draghi non sarà affidata alla mano pubblica ma resterà saldamente in capo alle banche e ai fondi privati da far crescere, che avranno il compito di “drenare” il risparmio privato dei cittadini europei, stimato in 33 mila miliardi di euro. Come ha sottolineato Mario Pianta, economista alla Scuola Normale Superiore di Firenze, uno dei principali limiti del piano Draghi è la sua esclusiva focalizzazione sul settore privato. “Nel piano mancano soggetti pubblici capaci di guidare la politica industriale verso l’interesse pubblico anziché le convenienze private. Si può pensare ad agenzie pubbliche europee, a nuove imprese statali, a partecipazioni pubblico-privato, soggetti che siano in grado di intervenire per riempire i vuoti delle nostre capacità produttive. Pensiamo alle energie rinnovabili, dal fotovoltaico all’eolico, dove molti protagonisti sono già imprese a partecipazione pubblica. Pensiamo alle infrastrutture urbane e territoriali necessarie per la transizione ecologica. Pensiamo al vuoto europeo nel campo delle piattaforme digitali. I fondi europei dovrebbero essere vincolati a scelte produttive precise, e un ruolo chiave può essere svolto dalla domanda pubblica, nazionale ed europea”.Un’osservazione critica condivisa anche da Roberto Romano. “In realtà, il bilancio pubblico delineato da Draghi manca clamorosamente di uno dei grandi obbiettivi di finanza pubblica, cioè quello di individuare la migliore allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico. Draghi non immagina nessuna public utility strategica europea al netto delle Agenzie esistenti. Non solo la dizione public utility non è mai utilizzata, ma nel rapporto non si delinea nemmeno un percorso teso a creare public utility di interesse generale. Indiscutibilmente la pubblica amministrazione europea non ha la dotazione tecnica per occuparsi di utility, ma senza creare i presupposti di una loro creazione svuota il bilancio pubblico europeo di uno degli strumenti essenziali per implementare una buona politica economica, e industriale in particolare. Senza società pubbliche europee, sostanzialmente, il 4% del PIL europeo di nuovi investimenti rischia di diventare un bancomat a favore del sistema privato senza che vi sia un concorrente pubblico capace di condizionare e guidare le necessarie trasformazioni economiche e sociali. Il mercato sussidiato diventerebbe, pur indirizzato nei settori innovativi, l’alfa e l’omega della politica economica europea”.
Il finanziamento del piano Draghi e la governance europea
Una domanda chiave che si pone è come l’Ue dovrebbe finanziare le massicce esigenze di investimenti aggiuntivi che la trasformazione dell’economia delineata dal rapporto Draghi comporterebbe. Il rapporto potrebbe rappresentare un altro momento “whatever it takes” per l’Europa per evitare “un lento e angosciante declino” e raggiungere invece gli obiettivi stabiliti. Per fare questo, secondo Draghi, è necessario un investimento aggiuntivo annuo minimo di 750-800 miliardi di euro, corrispondente al 4,4-4,7% del PIL dell’UE nel 2023. Una cifra enorme. A titolo di confronto, gli investimenti nell’ambito del Piano Marshall tra il 1948 e il 1951 erano equivalenti all’1-2% del PIL dell’Ue. Per realizzare questo aumento, la quota di investimenti dell’UE dovrebbe aumentare da circa il 22% del PIL attuale a circa il 27%, invertendo un declino pluridecennale nella maggior parte delle grandi economie dell’Ue. Di questi 750-800 miliardi, 450 sarebbero destinati ad investimenti per la transizione energetica (300 per il passaggio alle energie pulite e 150 per i trasporti, inclusa l’infrastruttura elettrica per la ricarica), 150 per le tecnologie digitali, 50 per il settore militare, e 100/150 per l’aumento di produttività. Da notare che a fronte dell’indicazioni di queste cifre economiche manca un’analisi di impatto in termini di occupazione, valore aggiunto, crescita e altri indicatori socio-economici. In questo modo, tutte le iniziative delineate diventano semplicemente dei buoni propositi. Dobbiamo quindi prendere atto che Draghi ha sostanzialmente delineato una “visione”, piena di buone intenzioni, che necessita di ulteriori studi conoscitivi di fattibilità e statistica.
Nonostante l’Europa possa progredire con la sua Unione dei mercati dei capitali (delineata nel Rapporto Letta), Draghi è il primo a riconoscere che “il settore privato non sarà in grado di sostenere la parte del leone del finanziamento degli investimenti senza il sostegno del settore pubblico” (pag. 5). Dovranno essere emessi dei titoli di debito pubblico europeo comuni (“common safe assets”), com’era già avvenuto con il Next Generation Eu, per finanziare quelli che Draghi definisce come “investimenti in beni pubblici europei chiave”, come l’innovazione rivoluzionaria, gli appalti della difesa o le reti transfrontaliere, che altrimenti rimarranno sottofinanziati senza un’azione comune. Tutta questa montagna di denaro verrebbe direttamente o indirettamente messa a disposizione delle imprese private, senza che Draghi preveda che vengano richieste contropartite rispetto al “modello sociale europeo” (aumento di salari, welfare, sanità, diritti dei lavoratori, etc.).Su tutto questo argomento, le indicazioni di Draghi rimangono vaghe, non definite, prendendo atto che tutto dipenderà da condizioni politiche e istituzionali favorevoli (o meno). Pochi si aspettano che i leader dell’Ue concordino sull’ambiziosa agenda di Draghi. In Francia, Macron è indebolito dopo che le elezioni anticipate hanno creato una prolungata situazione di stallo politico e il governo non ha una maggioranza in Parlamento. Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, presiede una litigiosa coalizione a tre che è preoccupata per la politica interna dopo le vittorie senza precedenti dell’estrema destra nelle elezioni regionali in Turingia e Sassonia e la forte crescita in Brandeburgo. Tutti i poteri sono nelle mani del Consiglio europeo – che riunisce i governi – e della Commissione, dove le posizioni spesso sono molto più arretrate delle proposte di Draghi. In particolare, molti non vogliono sentir parlare di debito comune europeo. Il ministro delle finanze tedesco, il liberale Christian Lindner, ha subito affermato che i prestiti congiunti dell’UE non risolveranno i problemi strutturali e che il problema principale non è la mancanza di sussidi, ma la burocrazia e l’economia pianificata. Secondo molti analisti, è difficile che il piano Draghi faccia molta strada e in tanti lo hanno rapidamente classificato come un libro dei sogni, destinato al cassetto o allo scaffale. Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze durante la crisi finanziaria della Grecia, ha scritto che il rapporto di Draghi “sarà onorato nella violazione, non nell’osservanza. A parole, la Commissione riutilizzerà parte del fondo per la ripresa non speso. In realtà, seppellirà la principale raccomandazione del rapporto. Draghi non lo sa? Sospetto di sì. Il suo rapporto si legge come un canto del cigno e una rinuncia alla colpa personale per la degenerazione dell’Europa in un museo di industrie passate e di eccellenti relazioni che sono state elogiate fino alle stelle prima di essere accantonate”.Quello su cui Draghi (come Letta) realmente punta è la nascita di un vero mercato unico nel settore finanziario che consentirebbe la mobilitazione dell’enorme ricchezza detenuta dalle famiglie e dalle imprese europee e la sua allocazione alle transizioni verde e digitale, oltre che al settore delle armi. Per Draghi, il completamento dell’unione dei mercati dei capitali dell’Ue è cruciale, poiché le banche non sono adatte a finanziare questo tipo di investimento, che è, per così dire, lungo nelle idee e corto nelle garanzie. Dunque, l’Ue ha bisogno dell’unione dei mercati dei capitali e dello sviluppo dei mercati di private equity e venture capital per sostenere una produzione innovativa e sostenibile, ma con il rischio di alimentare distorsioni del mercato (la speculazione tipica del mercato finanziario degli Stati Uniti).Allo stesso tempo, le raccomandazioni di Draghi equivalgono a una combinazione di un bilancio Ue riformato ed ampliato che stabilisca una capacità fiscale centrale con una nuova politica industriale europea. Questa combinazione legittimerebbe l’affermazione ricorrente, fatta nel suo rapporto, secondo cui le transizioni verdi e innovative dovrebbero essere rese compatibili e dovrebbero persino rafforzare il modello sociale europeo. Rimarrebbe il paradosso che la scelta espansiva a livello di Unione europea si accompagnerebbe a una politica di austerità legata all’implementazione del Patto di Stabilità che ha chiuso la stagione delle politiche fiscali espansive post-pandemiche e che probabilmente costringerà a tagliare la spesa pubblica nazionale. Sarà estremamente difficile fare le transizioni produttive auspicate da Draghi con economie nazionali, redditi e consumi in recessione.
Ugualmente vaghe sono le proposte avanzate dal rapporto sulla riforma dei processi decisionali e della governance europea. Consapevole che il contesto politico non consente di ipotizzare revisioni dei Trattati, Draghi si è limitato a riproporre soluzioni non particolarmente innovative: un alleggerimento della regolamentazione, più ricorso al principio di sussidiarietà, una assunzione del principio di competitività in quasi tutte le politiche comuni della Ue, il ricorso alle clausole cosiddette “passerella” per aumentare il numero delle decisioni da adottare a maggioranza qualificata (un passaggio difficile da realizzare visto che richiederebbe un accordo preliminare, soggetto all’unanimità a livello del Consiglio europeo, tanto è vero che questa clausola non è mai stata utilizzata finora).Come ha notato un attento osservatore come Sergio Fabbrini (Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2024), la “sfida esistenziale” evocata da Draghi richiederebbe un cambiamento di paradigma relativamente al governo dell’Ue. “Avendo costruito istituzioni a pezzi e bocconi, i funzionalisti hanno portato l’Ue in un vicolo cieco sul piano della governance, consentendo ai governi nazionali di perseguire i loro interessi ritenendo che essi coincidano con l’interesse europeo. Le 393 pagine del Rapporto Draghi finiranno in un cassetto, in assenza di attori sovranazionali, legittimati democraticamente, che abbiano un interesse a perseguire un interesse (una policy) a sua volta sovranazionale”.
La Strategia europea per l’industria della difesa e il Rapporto Draghi
Il 5 marzo scorso la Commissione europea ha presentato una Strategia europea per l’industria della difesa (EDIS) che invita gli Stati membri a investire “di più, meglio, insieme ed in modo europeo” nell’acquisizione di capacità militari. L’idea di fondo su cui si basa la Strategia è che unire le forze per procurarsi collettivamente e localmente i sistemi militari dovrebbe aumentare drasticamente l’efficienza degli investimenti e stimolare il consolidamento della base industriale e tecnologica di difesa europea (EDTIB). Oggi, la domanda nel mercato industriale e di difesa europeo è, con poche eccezioni, frammentata lungo i confini nazionali, soprattutto al di fuori del settore aeronautico e missilistico: gli Stati membri tendono ad acquisire, a livello nazionale quando possibile, capacità militari su misura che rispondono a decisioni di investimento radicate nei processi di pianificazione della difesa nazionale16. Di conseguenza, anche i produttori di livello superiore della catena di fornitura dell’industria della difesa – i principali fornitori dell’Europa – sono frammentati lungo la stessa linea. Operano in mercati nazionali ristretti, le cui dimensioni non giustificano i grandi investimenti per aumentare la capacità produttiva richiesti dall’odierno contesto di sicurezza globale. Come riconosce l’EDIS, la mancanza di prevedibilità del volume della domanda impedisce ai fornitori europei di realizzare economie di scala e li costringe a fare affidamento sulle esportazioni per rimanere redditizi. Di conseguenza, non sono stati in grado di soddisfare l’improvviso aumento della domanda sia di materiali di consumo che di nuovi sistemi d’arma derivante dal sostegno degli Stati membri all’Ucraina. Questi ultimi sono stati così costretti a guardare altrove: secondo l’EDIS, “il 78% dei 240 miliardi di euro di acquisizioni per la difesa effettuate dagli Stati membri tra febbraio 2022 e giugno 2023 sono stati effettuati al di fuori dell’Ue”, con il 60% che provenivano dagli Stati Uniti. La maggior parte di queste acquisizioni (63%) consisteva in prodotti standardizzati provenienti da scorte industriali esistenti (Strategia, pagg. 3-4). Cioè, il denaro che avrebbe potuto finanziare l’aumento della capacità dell’EDTIB non è arrivato, perché attualmente questa base produttiva non è in grado di fornire grandi volumi di armi in tempo (e la promessa di consegnare un milione di proiettili da 155 mm. all’Ucraina entro un anno, non è stata mantenuta mentre il prezzo di un proiettile è aumentato da 2.100 dollari al pezzo a 8.400 dollari dall’inizio della guerra nel febbraio 2022)17.
L’EDIS è una proposta politica con implicazioni politiche di vasta portata: se dovesse riuscire a raggiungere l’obiettivo di stabilire “gli appalti comuni [di prodotti per la difesa] come norma”18, la Commissione compirà il passo più importante finora per affermarsi come un policy maker nel campo della difesa-industriale. Svolgere tale ruolo è ciò che la Commissione ha cercato di fare sin dall’istituzione del Fondo europeo per la difesa (FES) nel 2021, a cui hanno fatto seguito altre iniziative dell’UE che hanno visto la Commissione tentare di espandere la propria portata nella politica industriale-difensiva. Sfruttando lo slancio politico conferitole dalla guerra in Ucraina, Bruxelles cerca ora di accelerare questo processo attraverso l’EDIS, con l’obiettivo di superare la frammentazione nazionale del mercato (frutto degli incentivi e sussidi offerti dagli Stati membri, desiderosi di preservare la propria sovranità individuale e le rispettive industrie), rendere più efficiente (“razionalizzare”, minimizzando moltiplicazioni e sprechi) il sistema di difesa europeo e di far diventare l’UE un attore potente geo-politico-militare sulla scena internazionale. Verrebbe istituito un Gruppo europeo di alto livello dell’industria della difesa per aiutare a coordinare gli appalti e la programmazione. Il Gruppo avrebbe il compito di identificare progetti di interesse comune su cui concentrare gli sforzi e i programmi di finanziamento dell’Ue (per cui il Gruppo è destinato a diventare un “campo di battaglia” delle lobby); l’obiettivo è che il blocco crei una rete di capacità di difesa informatica, nonché sistemi europei integrati di difesa aerea e missilistica.
Ogni paese ha la propria storia per quanto riguarda la base e le ambizioni dell’industria della difesa. L’industria europea della difesa è stata tradizionalmente una questione nazionale e interna, con assetti di governance diversi e indipendenti in ciascun paese, il che a volte ha impedito una più profonda integrazione europea dell’industria e della politica a livello dell’Unione europea. Per cui si tratterà di vedere se gli Stati membri saranno disponibili – e questo non è per nulla garantito – a sacrificare la sovranità nazionale in misura maggiore di quanto siano stati disposti a fare finora per far diventare l’Unione l’attore principale negli appalti per l’industria della difesa19. La quasi assenza di un dibattito su una maggiore cooperazione tra gli Stati membri dell’Ue sembra indicare che a breve termine non ci sia molta voglia da parte dei governi di dare all’Ue un ruolo più ampio sia nella difesa (nonostante la guerra della Russia in Ucraina abbia portato gli interessi della sicurezza in primo piano nelle menti dei politici) che nella politica generale.
In ogni caso, la comunicazione sull’EDIS definisce una serie di iniziative politiche che l’Unione intende perseguire per realizzarla, anche se il quadro delle risorse finanziarie necessarie è ancora tutto da inventare20. Tra le più importanti ricordiamo l’istituzione di:
Tutte queste iniziative e politiche, però, avranno l’effetto di deviare maggiori risorse finanziarie dalla ricerca, dall’innovazione e dalle esigenze industriali delle economie europee, per favorire attività che mirano alla potenza militare anziché allo sviluppo economico e alla transizione energetica. Tali politiche avvicinano l’Europa al modello statunitense di “complesso militare-industriale”.
D’altra parte, è proprio al modello statunitense che punta il Rapporto Draghi per rafforzare la NATO, seguire la formula del “keynesismo di guerra” di Washington, far consolidare gli oligopoli multinazionali europei (modificando/allentando le norme antitrust per consentire economie di scala superando la frammentazione tra Stati membri) e prepararsi alle eventuali minacce e sfide future russe e cinesi. La visione su cui si basa il Rapporto Draghi è quella della “autonomia strategica” europea. Il concetto era stato introdotto in modo prominente attraverso la Strategia globale dell’Ue nel 2016, in cui l’Ue ha delineato la sua ambizione di diventare un attore bellicoso e assertivo nel campo della sicurezza e della difesa21. Un elemento chiave della “autonomia strategica” è lo sviluppo di una base industriale integrata di difesa europea in grado di produrre i principali sistemi d’arma in Europa. Secondo questo concetto, la base industriale e tecnologica di difesa europea dovrebbe essere in grado di fornire alle forze armate europee tutte le armi di cui hanno bisogno senza dover fare affidamento sugli Stati Uniti o su altri paesi terzi. In breve, i paesi dell’UE dovrebbero acquistare attrezzature europee dai produttori europei. I sostenitori della “autonomia strategica” vedono una base industriale e tecnologica di difesa europea autosufficiente come vitale per rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Europa e quindi aumentare il suo peso geopolitico nella competizione imperialistica sistemica.
Tuttavia, questa non è affatto una visione indiscussa nei paesi dell’Ue. Alcuni governi, compresi quelli che fanno parte del nucleo centrale, desiderano consentire a paesi terzi come Regno Unito, Giappone, Australia, Canada e Stati Uniti di partecipare ai programmi finanziati dall’Ue22. Altri vogliono limitare l’accesso ai fondi Ue al continente europeo e ai paesi dell’Ue. In secondo luogo, molti paesi periferici ed emergenti all’interno dell’Ue non considerano la “autonomia strategica” europea una priorità, principalmente perché non ne vedono i benefici. Al contrario, sospettano che i paesi chiave con industrie all’avanguardia dal punto di vista tecnologico stiano perseguendo i propri interessi sotto la maschera di una visione apparentemente imparziale. Si dà il caso che i più forti sostenitori del concetto di “autonomia strategica” europea siano i paesi meglio posizionati per beneficiare economicamente dei progetti di sviluppo europei. Infine, gli atteggiamenti riguardo al futuro dell’integrazione europea differiscono grandemente all’interno dell’Europa. Paesi come Polonia, Ungheria e Regno Unito desiderano difendere la propria autonomia nazionale, il che ha implicazioni anche per il settore della difesa. Di conseguenza, non esiste una visione o un’idea comune coerente di come dovrebbe essere la base industriale e tecnologica di difesa europea in termini di distribuzione regionale, portafoglio di produzione, regole per le esportazioni o partner di cooperazione23. Né c’è consenso su quanto l’Europa dovrebbe importare o quale grado di autonomia dovrebbe mirare a raggiungere.Ciò non significa, tuttavia, che non esista un terreno comune. L’Ue ha creato una serie di strumenti per facilitare lo sviluppo congiunto di armi che sono ampiamente considerati efficaci, in particolare il FES. Sebbene questi strumenti manchino di chiarezza, coerenza e compatibilità con i processi della NATO, la maggior parte dei governi concorda sul fatto che tali politiche dell’Ue saranno cruciali per il futuro sviluppo della base industriale e tecnologica di difesa europea.
L’analisi fin qui presentata suggerisce che in assenza di importanti iniziative politiche condivise, non ci saranno sostanziali cambiamenti al disegno e al coordinamento della crescita e di un possibile consolidamento della base industriale e tecnologica della difesa europea nei prossimi anni, anche in presenza di un aumento dei budget. Le cose andranno avanti come al solito, con la spesa della UE che si somma a quella dei singoli Stati e non la sostituisce. Il nucleo centrale europeo continuerà cioè a produrre sistemi d’arma all’avanguardia che garantiscono un certo grado di autonomia politica e operativa dagli Stati Uniti. La periferia cercherà di ridurre la propria dipendenza, anche dai suoi alleati europei, mantenendo un atteggiamento ambivalente nei confronti della cooperazione europea e della “autonomia strategica” europea. Sebbene saranno possibili fusioni, la struttura industriale frammentata complessiva rimarrà probabilmente invariata nel prossimo futuro.Solo se i paesi europei riusciranno a concordare ampi programmi multilaterali (delle vere e proprie coerenti “politiche industriali”) con finanziamenti sufficienti per generare importanti progressi tecnologici, potrebbero emergere nuovi “campioni” e aziende paneuropee, che trasformerebbero il panorama industriale.
Lottare contro il “capitalismo di guerra”
È all’interno di questo quadro complesso e problematico che, come sostiene Giulio Marcon nel suo saggio nell’ebook Economia a mano armata 2024. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia realizzato da Greenpeace e Sbilanciamoci, quello che per tutti noi, cittadini e attivisti, deve essere chiaro è che siamo chiamati a fare una scelta “politica” tra una politica della guerra e una politica della pace, per cui dobbiamo essere pienamente consapevoli di quali siano le diverse conseguenze della nostra scelta. “La politica della guerra si basa sul riarmo, sul nazionalismo, sul dominio degli interessi economici e delle materie prime, sulla politica di potenza, sull’ideologia della geopolitica, sulle aree di influenza, su un’economia liberista e delle diseguaglianze. La politica della pace si basa sul disarmo, sulla prevenzione dei conflitti, sulla cooperazione internazionale, sulla democrazia internazionale ed il ruolo degli organismi sovranazionali, su un’economia di giustizia e l’eguaglianza. Non c’è un realismo dei governi (la politica, che presuppone anche la guerra) cui si contrappone un idealismo della pace (che rifiuta le armi): si tratta invece di politiche diverse, di strategie contrapposte, di visioni tra loro irriducibili” (pag. 5). Il bilancio della difesa devia fondi da altre forme di spesa pubblica che sono o più vantaggiose per l’economia o socialmente preferibili rispetto alla spesa militare. Razionalizzare la spesa militare è quindi una strategia desiderabile ed essa può essere possibile se cambiano le istituzioni che governano i sistemi di difesa. In questo senso, il disegno di una difesa comune europea può anche apparire come desiderabile, ma rimane per ora assai difficile da realizzare. Soprattutto, non dovrebbe essere l’unico focus delle politiche perché ci sono altri mezzi non militari per raggiungere la “sicurezza” e su cui investire il capitale politico europeo: l’integrazione politica regionale (ad esempio, nell’area mediterranea), la cooperazione economica internazionale, la diplomazia e il rafforzamento della fiducia, i trattati sul disarmo, la tutela dei diritti umani e gli aiuti allo sviluppo.
Mentre le élite che governano la Ue lavorano alacremente per fomentare un clima di ansia e paura, per creare un complesso militare-industriale in grado di svuotare la democrazia24, per militarizzare le relazioni internazionali e per trasformare il blocco in una potenza militare geopolitica, nonostante l’assenza di una vera forza politica di sinistra, si intravede uno spiraglio di speranza. In tutto il continente, l’attivismo contro la guerra e l’oppressione è stato risvegliato dal genocidio di Gaza che ha ripoliticizzato milioni di persone. Ora, si tratta di capire dove e come si può esercitare la stessa pressione su un’istituzione antidemocratica come l’Unione europea. Dobbiamo modificare la traiettoria bellicista voluta dai governanti prima che sia troppo tardi per evitare la transizione verso un “capitalismo di guerra”25 e una spirale dell’uso della forza militare che potrebbe portare allo scontro militare imperialista (anche atomico) tra l’Occidente e il resto del mondo. La sopravvivenza dell’umanità è in pericolo a causa dell’incapacità dell’Occidente (e quindi dei governanti dell’Unione europea) di venire a patti con il proprio lento declino politico, economico, sociale e morale come blocco dominante nel mondo e di accettare l’emergere di un mondo multipolare e policentrico.
È sempre bene ribadire che la nostra Costituzione del 1948 afferma che “L’Italia ripudia la guerra”, una dichiarazione politica carica di intelligenza e civiltà da difendere con tutte le forze dall’aggressiva irresponsabilità delle élite mainstream e di destra che attualmente governano il nostro paese e l’Unione Europea.
Note
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.