Mentre l’Unione europea si è spostata a destra sia in Parlamento sia nella composizione della Commissione1 e si prepara a inaugurare una nuova era di austerità con il ripristino del Patto di stabilità (voluto dalla Germania e altri paesi cosiddetti “frugali”) che esclude solo le spese per le armi dal computo nel calcolo del deficit2, da mesi gli alti funzionari dell’Ue fanno dichiarazioni bellicose sulla necessità di essere pronti alla guerra. “Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro”, ha affermato qualche settimana fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché presidente dell’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), citando l’antico motto latino dei guerrafondai: “Si vis pacem, para bellum” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”). “L’invasione della Russia è stata un campanello d’allarme per l’Europa”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, — il primo presidente a invocare esplicitamente l’alba di una “Commissione geopolitica” e a sostenere che “dobbiamo ripensare la nostra base di difesa industriale”, spendendo 500 miliardi di euro nel prossimo decennio, lavorare per costruire un esercito europeo e avere come priorità principale “prosperità e competitività”.

Non a caso, circa un anno fa, von der Leyen aveva affidato a due dei maggiori esponenti della tecnocrazia europea, campioni della visione del mondo neoliberista, Mario Draghi e Enrico Letta, la redazione/supervisione di due rapporti complementari che avrebbero dovuto delineare, da un lato, una strategia per il futuro della competitività europea (vedi qui e qui) e, dall’altro, una strategia per il futuro del mercato unico europeo (vedi qui). Il Rapporto Draghi incorpora le analisi e raccomandazioni del Rapporto Letta, per cui nell’analisi che segue ci concentriamo sulla strategia messa a punto da Draghi e presentata ufficialmente il 9 settembre scorso.

Al centro della lunga narrazione di Draghi (in inglese sono quasi 400 pagine) c’è la logica di mercato e, al tempo stesso, la costruzione di un’economia di guerra nell’Unione europea, basata su strategie tese a promuovere la formazione di un “complesso militare-industriale” europeo3. È assai probabile che il rapporto Draghi darà una forma significativa al programma di lavoro per i prossimi cinque anni della Commissione europea guidata da von der Leyen.

Più in generale, il Rapporto Draghi è un documento che esprime con chiarezza il modello di analisi e di ragionamento (le “mappe concettuali” e la “struttura cognitiva”), il punto di vista e lo stato d’animo allarmato e angosciato sul futuro dell’Unione europea della parte più consapevole della tecnocrazia centrista europea al potere, quella che dal 7 febbraio 1992 – dalla firma del trattato di Maastricht – ha guidato il processo che ha portato alla formazione del mercato unico. Un obiettivo quest’ultimo che, questa élite dirigente aveva solennemente promesso e assicurato, avrebbe fatto materializzare una nuova ondata di prosperità economica che avrebbe arricchito imprese, consumatori e cittadini, nonché sostenuto il “modello sociale europeo” (quello di stampo keynesiano e socialdemocratico incentrato sul welfare state). L’ideologia neoliberista di questa élite ha messo tutto in mano al mercato e agli «animal spirits» degli imprenditori, trasformando l’Unione europea nel “cane da guardia” degli Stati nazionali, privati di autonomia monetaria e sottoposti a severi vincoli e controlli austeritari per quanto riguarda budget e politiche industriali4. Per cui, le politiche fiscali sono state realizzate all’insegna dell’austerità, hanno impedito l’espansione della domanda, hanno costretto le economie europee a contenere la spesa pubblica e bloccato la crescita dei salari. L’investimento pubblico si è contratto in quasi tutti i Paesi, e conseguentemente il capitale pubblico (che vuol dire strade, ferrovie, ospedali, scuole, servizi) si è notevolmente deteriorato.

Dopo 32 anni, quindi, sappiamo bene, sulla nostra pelle, come è andata. La prosperità tanto promessa non si è materializzata. In buona parte dei paesi europei, salari e stipendi sono rimasti al palo, se non sono regrediti in termini reali. Sono aumentate le disuguaglianze tra i ricchi e il resto della cittadinanza, come tra “paesi/regioni centrali” e “regioni periferiche” (come il nostro Mezzogiorno o i Länder dell’ex Germania dell’Est), ormai pressoché abbandonate a sé stesse. I mercati del lavoro sono stati destrutturati sul piano sia normativo sia del loro concreto funzionamento, con il risultato di far emergere milioni di lavoratori poveri e di persone in povertà assoluta e relativa. Infine, il tanto richiamato e decantato “modello sociale europeo” è in rovina: pensioni insufficienti per decine di milioni di anziani, sistemi sanitari inadeguati e sull’orlo del fallimento, sistemi di istruzione e di edilizia economica popolare con budget sempre più ridotti o inesistenti, servizi sociali frammentati e sottofinanziati che non tengono il passo con i bisogni di massa emergenti. Il programma neoliberista si è concretizzato in un insieme di misure volte a ridurre il potere reale degli Stati nazionali, le tasse ai ricchi e alle imprese, i salari, le tutele, i diritti sociali e la spesa sociale, privatizzando imprese, servizi e beni pubblici, deregolamentando i mercati, a cominciare da quello finanziario e da quello del lavoro, creando un sistema profondamente instabile soggetto a grandi crisi (prima la crisi finanziaria del 2008, poi quella dell’euro del 2011, quindi la pandemia, la crisi energetica e l’inflazione) e che ha fatto emergere working poor e nuove povertà5. Anche la “presidente dell’Europa” (come l’ha definita il Financial Times) von der Leyen ha simbolicamente preso atto dell’agonia del “modello sociale europeo”, eliminando il commissario agli Affari sociali e per contro nominando il nuovo commissario alla Difesa e allo Spazio.

Ora, non contenta del disastro che ha combinato negli ultimi tre decenni, questa stessa élite – i Draghi, Letta & Co. – pretende di dirci come se ne dovrebbe uscire, facendo nuove promesse di prosperità futura, senza sostanzialmente modificare il paradigma neoliberista in base al quale ha governato. Che di situazione disastrosa si tratta è ammesso – almeno per quanto riguarda variabili e condizioni economiche – dallo stesso Mario Draghi, il quale dipinge un quadro assai fosco dello stato dell’economia europea. Ci si chiede cosa abbiano fatto questi tecnocrati negli ultimi trent’anni: certo non si sono occupati dei processi dell’economia reale dell’Unione europea (della crescita, degli investimenti e dell’occupazione), preferendo occuparsi del controllo della finanza pubblica degli Stati europei e delle politiche monetarie e finanziarie che hanno favorito l’espansione della finanza e le sue logiche speculative.
Draghi ci parla di “una sfida esistenziale” con un richiamo ai “valori fondamentali dell’Europa” e con un sotteso messaggio “suprematista bianco” euro-occidentale (essere “leader”, “faro” e “attore indipendente sulla scena globale”) rispetto agli Stati Uniti, ma soprattutto a Cina e ad altri popoli del Sud del mondo (Asia e Africa, in particolare) rei di non voler più sottostare allo “scambio ineguale” estrattivista neocoloniale basato sulla cessione di materie prime a basso costo in cambio di nostri prodotti industriali e servizi. Un suprematismo “rispettabile” quello di Draghi, almeno se confrontato con quello sguaiatamente razzista delle forze politiche europee dell’ultra destra apertamente neofascista e neonazista. Tutto costruito ed articolato in una narrazione fatta di variabili economiche – crescita economica, produttività, ”innovazioni tecnologiche rivoluzionarie”, digitalizzazione, e Intelligenza Artificiale (IA), decarbonizzazione, “capitale umano” dotato di “competenze” e produzione di armi – interconnesse attraverso una ferrea logica di interdipendenze in modo da dare al lettore il déjà vu della sensazione “che non c’è alternativa” al disegno proposto (inclusa la necessità di creare una vera e propria economia di guerra, in netto contrasto con i “valori fondamentali europei” di libertà, democrazia e pace6). Si tratta di uno schema logico che inquadra le politiche industriali, le variabili economiche prese in considerazione (solo alcune di quelle possibili) e i soggetti economici e istituzionali (imprese, banche, Stati nazionali, università) unicamente come strumenti che devono essere messi al servizio dell’obiettivo di mantenere la posizione egemonica dell’Europa sul resto del mondo7. E Draghi avverte, in modo apertamente ricattatorio, che se questo obiettivo non venisse raggiunto “non saremmo in grado di finanziare il nostro modello sociale”, dato che “siamo arrivati al punto in cui, se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà” (pag. 5). È lo stesso Draghi che ci spiega in modo esplicito che questo è l’obiettivo fondamentale del suo rapporto: “Se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare, contemporaneamente, un leader nelle nuove tecnologie, un faro di responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni. Questa è una sfida esistenziale. I valori fondamentali dell’Europa sono prosperità, equità, libertà, pace e democrazia in un ambiente sostenibile. L’Ue esiste per garantire che gli europei possano sempre beneficiare di questi diritti fondamentali. Se l’Europa non può più fornirli alla sua gente, o deve barattare l’uno con l’altro, avrà perso la sua ragione d’essere. L’unico modo per affrontare questa sfida è crescere e diventare più produttivi, preservando i nostri valori di equità e inclusione sociale. E l’unico modo per diventare più produttivi è che l’Europa cambi radicalmente” (pag. 1)8.

Come deve cambiare l’Unione europea per Draghi?

Come sempre al centro di tutto il ragionamento c’è il mercato, ossia l’impresa privata, soprattutto la grande impresa privata, l’unico vero attore che i neoliberisti considerano legittimato a operare nell’economia, mentre le imprese pubbliche sono del tutto assenti dal loro quadro analitico, pur essendo ancora attori economici rilevanti in tutti i paesi europei. Il problema, secondo Draghi, è che anche l’attore privato, come gli Stati nazionali, ha dimostrato di essere uno strumento inadeguato a perseguire l’obiettivo egemonico globale che lui assegna all’Europa. Lasciato ad agire in libertà, il settore privato non ha preso le decisioni “giuste” su che cosa produrre, con quali tecnologie e quale impiego di lavoro, a che prezzo, per quali mercati. Soprattutto, non ha fatto gli investimenti necessari per le trasformazioni innovative, digitali ed ecologiche, e questo ha determinato il lungo ristagno dell’economia europea. Ha continuato con le produzioni del passato – ad esempio, non sviluppando le capacità produttive nelle auto elettriche in Europa –, competendo sul prezzo e senza considerare la qualità sociale e ambientale di quanto si produce e si consuma. Ha cercato i facili profitti che si possono ottenere dalle energie fossili o dalle armi o spostando i capitali sui mercati azionari, monetari e finanziari. Senza contare che alle imprese private sono state comunque date rilevanti risorse pubbliche. Buona parte delle politiche tecnologiche e industriali di questi decenni sono state realizzate con incentivi e sussidi alle imprese, che non hanno risposto con innovazioni e sviluppi produttivi adeguati9.
Pertanto, data questa manifesta inadeguatezza (una miopia che ha portato ad un “fallimento del mercato”), seguendo una logica ordoliberista, l’Unione europea, seppure non sia uno Stato, deve entrare in campo direttamente ed intervenire con un rinnovato attivismo: deve costruire nuove regole, nuovi strumenti, favorire processi schumpeteriani di innovazione tecnologica in campo industriale ed ambientale, promuovere processi di aggregazione e centralizzazione dei capitali (industriali e finanziari), nonché finanziare direttamente – con 750-800 miliardi di euro all’anno per almeno 6 anni (2025-2030) – l’adeguamento complessivo del capitalismo europeo, compreso il sistema industriale militare, in modo che il posizionamento egemonico globale dell’Europa possa essere preservato, garantendo la “missione civilizzatrice” dell’élite europea. Il paradosso è che Draghi ammette che “dobbiamo garantire che le nostre istituzioni elette democraticamente siano al centro di questi dibattiti. Le riforme possono essere veramente ambiziose e sostenibili solo se godono del sostegno democratico”, ma detto questo procede a prescrivere nuovi compiti e poteri unilaterali per l’Unione europea, una istituzione sovranazionale top-down, verticistica e tecnocratica che si sovrappone agli Stati nazionali democratici, è del tutto priva di una vera legittimità democratica (senza neanche la classica divisione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario enunciata da Montesquieu che è la caratteristica basilare delle democrazie liberali) e opera con procedimenti decisionali in larga parte resi opachi dalle dinamiche intergovernative.

Cerchiamo di capire come Draghi costruisce il quadro logico analitico per poi passare a ragionare sulle raccomandazioni/misure di intervento (almeno 170) che identifica in relazione a quelli che lui considera essere i 10 settori strategici per il futuro della competitività dell’economia europea: energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate (includendo reti superveloci/banda larga ad alta capacità, computing e IA, semiconduttori), industrie energivore (prodotti chimici, metalli di base, minerali non metallici e carta), tecnologie pulite (turbine eoliche, fotovoltaico, elettrolizzatori, pompe di calore e combustibili a basse emissioni di carbonio), automobili elettriche e a guida autonoma, difesa, spazio, farmaceutica e trasporto. La seconda parte del rapporto è soprattutto dedicata allo stato della competitività europea e agli interventi necessari per ravvivarla in ciascuno di questi 10 settori. Allo stesso tempo, vengono trattate quelle che sono definite le “politiche orizzontali” finalizzate a stabilire le condizioni quadro per gli investimenti: accelerazione dell’innovazione, chiudere il gap delle competenze (del lavoro), sostenere l’investimento, riavvivare la concorrenza10 e rafforzare la governance dell’Unione europea (rifocalizzare e accelerare il lavoro della Ue e semplificare le regole/normative). Draghi offre una visione onnicomprensiva dei problemi e delle possibili soluzioni. Fornisce raccomandazioni molto dettagliate su come implementare nuove politiche settoriali e orizzontali, sulla riduzione delle normative e sul miglioramento del processo decisionale. Il suo leitmotiv è “un processo decisionale congiunto” per raggiungere un grado maggiore di pianificazione comune che dovrebbe essere articolato a tutti i livelli del processo decisionale, fino ad arrivare a superare il requisito dell’unanimità nel Consiglio europeo che spesso paralizza l’Ue dando ai paesi veti efficaci. Similmente a Letta, Draghi suggerisce il ricorso a un “28° regime” che consentirebbe alle aziende di uscire dai quadri normativi nazionali e seguire le regole valide ovunque nell’Ue.

Il quadro interpretativo di Draghi, suffragato da una vasta messe di dati, parte dalla constatazione che negli ultimi due decenni c’è stato un rallentamento della crescita economica europea rispetto a quelli che Draghi identifica come i due principali concorrenti, Cina e Stati Uniti. La sua diagnosi è che questo rallentamento sia essenzialmente stato causato da un rallentamento della crescita della produttività per addetto nel settore industriale. Quest’ultimo è il focus esclusivo di tutta l’analisi, anche se secondo Eurostat nell’Unione europea dà lavoro solo al 19% (circa 32 milioni di lavoratori) della forza lavoro totale, producendo il 24% del valore aggiunto complessivo, e nonostante che lo stesso Draghi affermi che “buona parte della crescita futura nel commercio intra-Ue sarà nei servizi” (pag. 17)11. Per quanto riguarda le prospettive future, Draghi sostiene che la geopolitica sia passata da stabile a instabile12, che la fase della crescita del commercio mondiale sia finita e che (quindi) “le imprese europee debbono fronteggiare una maggiore concorrenza all’estero e un minore accesso ai mercati esteri”. L’Unione europea ha perduto anche il principale fornitore di energia a basso costo, la Russia, dalla quale l’Ue importava il 45% del gas consumato nel 2021. Inoltre, siamo in presenza di un’accelerazione del cambiamento tecnologico, con Draghi che ammette che “l’Europa ha perso in gran parte la rivoluzione digitale guidata da Internet e i guadagni di produttività che ha portato: in effetti, il divario di produttività tra Ue e USA è ampiamente spiegato dal settore tecnologico. L’Ue è debole nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura. Solo quattro delle prime 50 aziende tecnologiche del mondo sono europee” (pag. 1). A questo quadro deprimente di “permacrisi”, Draghi aggiunge la nota dolente della questione demografica: nel 2040 ci saranno 2 milioni di lavoratori in meno all’anno, e vista la mancanza di una politica comune integrata sulle migrazioni, questo è un fattore che rafforza il suo argomento che l’unico motore della crescita economica dell’Europa è la produttività del lavoro.

Se questo è il quadro interpretativo generale su cui Draghi organizza tutta la sua narrazione, tre sono le aree di azione strategiche che identifica per riavvivare quella che lui definisce “una crescita sostenibile” e su cui l’Unione Europea in quanto soggetto istituzionale deve prioritariamente intervenire in prima persona:

  1. la prima area di azione della Ue è quella di chiudere il gap di innovazione con USA e Cina nelle tecnologie chiave. Draghi si accorge che tra le prime dieci imprese del settore delle tecnologie digitali nel mondo non ci sono grandi piattaforme europee (sei sono statunitensi – Alphabet, Amazon, Meta, Apple, Microsoft, X – e quattro sono cinesi – Tencent, Alibaba, Byte Dance e Baidu), mentre delle 50 più importanti società tecnologiche mondiali, appena quattro sono europee. Il sistema imprenditoriale europeo si è dimostrato del tutto inadeguato essendo rimasto concentrato nelle tecnologie mature, le “tecnologie e industrie intermedie del secolo precedente” che non sono al centro di radicali avanzamenti tecnologici. Ciò “produce un circolo vizioso di basso investimento e bassa innovazione” (pag. 24), che comporta un rallentamento dell’aumento della produttività. “L’Europa è bloccata in una struttura industriale statica con poche nuove aziende che sorgono per sconvolgere le industrie esistenti o sviluppare nuovi motori di crescita. Infatti, non esiste un’azienda Ue con una capitalizzazione di mercato superiore a 100 miliardi di euro che sia stata creata da zero negli ultimi cinquant’anni, mentre tutte e sei le aziende statunitensi con una valutazione superiore a 1 trilione di euro sono state create in questo periodo. Questa mancanza di dinamismo si autoavvera. Poiché le aziende Ue sono specializzate in tecnologie mature in cui il potenziale di innovazioni è limitato, spendono meno in ricerca e innovazione (R&I): 270 miliardi di euro in meno rispetto alle loro controparti statunitensi nel 2021. I primi 3 investitori in R&I in Europa sono stati dominati dalle aziende automobilistiche negli ultimi vent’anni. Era lo stesso negli Stati Uniti nei primi anni 2000, con automobili e farmaceutica in testa, ma ora i primi 3 sono tutti nel settore tecnologico” (pag. 2). Qui, secondo Draghi, deve intervenire l’Unione Europea su due fronti principali. Da un lato, deve creare nuove regole (compresa l’abolizione di “normative incoerenti e restrittive” che sono un aggravio normativo per le imprese, come le direttive dell’UE sulla due diligence e sulla rendicontazione di sostenibilità, nonché il regolamento generale sulla protezione dei dati e la legislazione dell’UE sui rifiuti e sugli imballaggi – vedi pp. 318-319) e rafforzare nuovi strumenti e nuove figure (come il venture capitalist, il private equity provider, l’angel investor e i fondi pensione privati) che consentano il passaggio dall’innovazione alla commercializzazione e alla creazione e crescita rapida di aziende innovative (“unicorni”). Un processo attualmente egemonizzato dal capitalismo statunitense che cattura il 30% degli innovatori europei. Dall’altro, per “sbloccare il nostro potenziale innovativo”, fondamentale non solo per guidare le nuove tecnologie, ma anche per integrare l’intelligenza artificiale nelle industrie esistenti in modo che possano rimanere all’avanguardia, “una parte centrale di questo programma sarà quella di fornire agli europei le competenze di cui hanno bisogno [opportunità di istruzione e apprendimento degli adulti] per trarre vantaggio dalle nuove tecnologie, in modo che tecnologia e inclusione sociale vadano di pari passo” (pag. 2). Draghi è ben conscio che cercare di seguire il modello economico statunitense basato sull’innovazione “disruptive” (dirompente) rappresenta un serio rischio per il sistema occupazionale e di inclusione sociale nell’Unione europea13;
  2. la seconda area di azione della UE deve essere quella di mettere a punto un piano congiunto per la decarbonizzazione e la competitività. Draghi vede la decarbonizzazione come centrale nella nuova fase. Mentre alcune voci, soprattutto all’estrema destra, descrivono la transizione verde come una minaccia esistenziale alla competitività industriale dell’Europa, il rapporto sottolinea che un’ambiziosa politica climatica può e dovrebbe liberare sostanziali opportunità industriali per il continente. La decarbonizzazione offre all’Europa l’opportunità di abbassare i prezzi dell’energia e di assumere un ruolo guida nelle tecnologie pulite, diventando al contempo più sicura dal punto di vista energetico. “Se gli ambiziosi obiettivi climatici dell’Europa saranno accompagnati da un piano coerente per raggiungerli, la decarbonizzazione sarà un’opportunità per l’Europa. Ma se non riusciamo a coordinare le nostre politiche, c’è il rischio che la decarbonizzazione possa andare contro la competitività e la crescita” (pag. 2) Secondo Draghi, le attuali “regole di mercato impediscono alle industrie e alle famiglie di catturare tutti i benefici dell’energia pulita nelle loro bollette. Le tasse elevate e le rendite catturate dai trader finanziari aumentano i costi energetici per la nostra economia. Nel medio termine, la decarbonizzazione aiuterà a spostare la produzione di energia verso fonti di energia pulita sicure e a basso costo. Ma i combustibili fossili continueranno a svolgere un ruolo centrale nei prezzi dell’energia almeno per il resto di questo decennio. Senza un piano che trasferisca i benefici della decarbonizzazione agli utenti finali, i prezzi dell’energia continueranno a pesare sulla crescita” (pag. 2). Pur riconoscendo che l’elettrificazione basata sulle energie rinnovabili sarà centrale, il rapporto lascia intendere che tecnologie come il “nuovo nucleare”, la “cattura del carbonio” e la produzione nazionale di gas possono contribuire a ridurre i costi del sistema nel prossimo futuro. Per ridurre i costi energetici per tutti i consumatori, Draghi suggerisce di ridurre l’onere fiscale sull’energia e di distribuire il rifinanziamento del costo degli investimenti di rete su un periodo più lungo. Ciò implica che una parte maggiore del costo di transizione del sistema energetico odierno dovrebbe essere sostenuta dalle generazioni future. Tra le ridistribuzioni dei costi del sistema energetico proposte da Draghi, la più controversa è il trattamento speciale di alcuni tipi di consumatori di energia. Draghi è particolarmente preoccupato per i costi energetici per l’industria. Propone quindi l’accesso per l’industria ad alta intensità energetica a speciali portafogli di generazione a basso costo, gas naturale liquefatto acquistato con fondi pubblici, sconti sulle tariffe di rete e aiuti di Stato. Ma ciò implica costi più elevati per altri consumatori di energia e forse per i contribuenti. La priorità di una categoria di consumatori di energia solleva la questione se ciò sia efficiente ed equo. Ha senso mantenere lo stesso livello di industria ad alta intensità di gas nell’Ue se i costi di fornitura di gas naturale negli Stati Uniti, esportatori di gas, saranno sempre sostanzialmente inferiori? L’energia scarsa dovrebbe essere data con uno sconto ai settori che forniscono meno valore aggiunto per unità di energia, piuttosto che consentire a settori meno ad alta intensità energetica con un potenziale di crescita più elevato di prosperare? La risposta non è chiara e Draghi non fornisce alcuna prova che spendere ingenti risorse finanziarie ed energetiche in un settore storico relativamente poco creativo migliorerebbe davvero la competitività complessiva dell’Ue. Il focus è posto sul tema della sicurezza: “evitare dipendenze strategiche nelle industrie critiche in Europa” (pag. 94), ossia di evitare di dipendere dalle importazioni dall’esterno;
  3. la terza area di azione della Ue, secondo Draghi, deve essere “l’aumento della sicurezza e la riduzione delle dipendenze” (pag. 3). Per giustificare il passaggio ad un’economia di guerra, Draghi sostiene che “la sicurezza è una precondizione per una crescita sostenibile. I crescenti rischi geopolitici possono aumentare l’incertezza e frenare gli investimenti, mentre i grandi shock geopolitici o gli arresti improvvisi degli scambi commerciali possono essere estremamente destabilizzanti. Mentre l’era della stabilità geopolitica svanisce, aumenta il rischio che l’insicurezza crescente diventi una minaccia per la crescita e la libertà”. Le dipendenze dall’esterno possono trasformarsi in vulnerabilità utilizzate come “armi geopolitiche” attraverso le restrizioni delle esportazioni. Secondo Draghi, le nuove minacce geopolitiche riportano l’attenzione sulle capacità di difesa dell’Ue. “Gli ultimi anni hanno visto il ritorno della guerra nelle immediate vicinanze dell’Ue, insieme all’emergere di nuovi tipi di minacce ibride, tra cui il targeting di infrastrutture critiche e attacchi informatici. L’Ue affronta una minaccia militare immediata e a lungo termine ai suoi confini (dalla Russia), mentre sperimenta minacce alla sicurezza più ampie nei paesi limitrofi in Africa, nel Mediterraneo e in Medio Oriente. L’Ue dovrà assumersi una crescente responsabilità per la propria difesa e sicurezza, con il suo alleato, gli Stati Uniti, che potenzialmente si concentrerà progressivamente in misura maggiore sulle vaste distanze del Pacific Rim (ad esempio nel formato di AUKUS). L’Europa dovrà anche affrontare, nell’attuale contesto geopolitico, un serio problema di deterrenza nucleare. La competitività tecnologica e industriale dell’Ue nel campo della difesa sarà fondamentale per soddisfare le esigenze attuali e future di aumentare la capacità nel contesto dell’aumento dei bilanci della difesa globale” (pag. 159). In sostanza, l’idea di Draghi non è quella di rafforzare la cooperazione a livello internazionale e di dialogare apertamente con i poteri “emergenti” (Cina, Russia, Brasile, India, Indonesia, etc.), ma di assecondare la deriva verso un mondo dominato da poli tendenzialmente autosufficienti dal punto di vista energetico e tecnologico, nonché armati fino ai denti e disposti ad entrare in guerra per risolvere eventuali controversie. L’Europa è particolarmente esposta” per le sue dipendenze (in realtà, interdipendenze) dall’esterno (dalle fonti energetiche alle materie prime critiche e tecnologie avanzate) e “circa il 40% delle importazioni europee proviene da un numero ristretto di fornitori, difficilmente sostituibili, e circa la metà di queste importazioni giunge da paesi con cui l’Europa non è strategicamente allineata”. La quota dell’Ue nella produzione mondiale della maggior parte delle materie prime critiche è inferiore al 7%. “Facciamo affidamento su una manciata di fornitori per materie prime essenziali, in particolare la Cina, anche se la domanda globale di tali materiali sta esplodendo a causa della transizione verso l’energia pulita. Siamo anche enormemente dipendenti dalle importazioni di tecnologia digitale. Per la produzione di chip, il 75-90% della capacità di fabbricazione globale di wafer è in Asia. Queste dipendenze sono spesso bidirezionali, ad esempio la Cina fa affidamento sull’Ue per assorbire la sua sovracapacità industriale, ma altre grandi economie come gli Stati Uniti stanno attivamente cercando di districarsi. Se l’Ue non agisce, rischiamo di essere vulnerabili alla coercizione”. È in relazione a questo contesto, che Draghi arriva a sostenere che c’è il bisogno di “una vera e propria ‘politica economica estera’ dell’Ue per mantenere la nostra libertà, una cosiddetta statecraft” (pp. 3; 53-54). In sostanza, l’Ue dovrà aggiornare le sue politiche neocoloniali/imperialiste, coordinando accordi commerciali preferenziali e investimenti diretti con paesi ricchi di risorse, accumulando scorte in aree critiche selezionate e creando partnership industriali per garantire la filiera di fornitura di tecnologie chiave14. Secondo Draghi, “per raggiungere una vera indipendenza strategica [ma la NATO, dominata dagli USA, la consente?] e accrescere la propria influenza geopolitica globale, l’Europa ha bisogno di un piano per gestire queste dipendenze e rafforzare gli investimenti nella difesa” (pag. 11)15. Infatti, se “la pace è il primo e principale obiettivo dell’Europa”, le “minacce alla sicurezza fisica stanno aumentando e dobbiamo prepararci. L’Ue è collettivamente il secondo più grande soggetto di spesa militare al mondo, ma ciò non si riflette nella forza della nostra capacità industriale di difesa. L’industria della difesa è troppo frammentata, ostacolando la sua capacità di produrre su larga scala, e soffre di una mancanza di standardizzazione e interoperabilità delle attrezzature, indebolendo la capacità dell’Europa di agire come una potenza coesa. Ad esempio, in Europa vengono utilizzati dodici diversi tipi di carri armati da battaglia, mentre gli Stati Uniti ne producono solo uno” (pag. 3).

Il messaggio costante di Draghi è che l’Unione europea deve agire come una vera comunità, facendo gioco di squadra e smettendo di comportarsi come un’accozzaglia di paesi diversi, debolmente connessi tra di loro. Questo richiede di superare tre ostacoli:

  1. la mancanza di focalizzazione. “Articoliamo obiettivi comuni, ma non li sosteniamo stabilendo priorità chiare o dando seguito ad azioni politiche congiunte. Ad esempio, affermiamo di favorire l’innovazione, ma continuiamo ad aggiungere oneri normativi alle aziende europee, che sono particolarmente costosi per le PMI e controproducenti per quelle nei settori digitali. Più della metà delle PMI in Europa segnala gli ostacoli normativi e gli oneri amministrativi come la loro sfida più grande” (pag. 4). Ma la semplificazione normativa/regolativa (anche in riferimento alla valutazione di impatto ambientale e alla regolamentazione delle sostanze chimiche PFAS) non è l’unico fine da perseguire, c’è anche da superare la frammentazione del mercato dei capitali europei, lo scarso sviluppo di strumenti e attori che finanziano la rapida crescita di nuove imprese in grado di accedere all’enorme risparmio delle famiglie;
  2. lo spreco delle risorse comuni. “Abbiamo un grande potere di spesa collettivo, ma lo diluiamo su più strumenti nazionali e dell’Ue diversi. Ad esempio, non stiamo ancora unendo le forze nell’industria della difesa per aiutare le nostre aziende a integrarsi e raggiungere le economie di scala. Gli appalti collaborativi europei hanno rappresentato meno di un quinto della spesa per gli appalti di attrezzature per la difesa nel 2022. Inoltre, non favoriamo le aziende di difesa europee competitive. Tra la metà del 2022 e la metà del 2023, il 78% della spesa totale per gli appalti è andato a fornitori extra-Ue, di cui il 63% è andato agli Stati Uniti” (pag. 4). Allo stesso modo, non c’è abbastanza collaborazione sull’innovazione, “anche se gli investimenti pubblici in tecnologie rivoluzionarie richiedono grandi bacini di capitale e le ricadute per tutti sono sostanziali. Il settore pubblico nell’UE spende circa quanto gli Stati Uniti in R&I in percentuale del PIL, ma solo un decimo di questa spesa avviene a livello dell’Ue” (pag. 4);
  3. l’Europa non si coordina dove conta, ha un processo decisionale lento e disaggregato. Il risultato è un processo legislativo con un tempo medio di 19 mesi per concordare nuove leggi, dalla proposta della Commissione alla firma dell’atto adottato, e prima ancora che le nuove leggi vengano implementate negli Stati membri. “Le strategie industriali odierne, come quelle degli Stati Uniti e della Cina, combinano più politiche, che vanno dalle politiche fiscali per incoraggiare la produzione interna, alle politiche commerciali per penalizzare i comportamenti anti-concorrenziali, alle politiche economiche estere per proteggere le catene di fornitura. Nel contesto dell’Ue, collegare le politiche in questo modo richiede un alto grado di coordinamento tra gli sforzi nazionali e dell’Ue. Ma a causa del suo processo decisionale lento e disaggregato, l’Ue è meno in grado di produrre una tale risposta. Le regole decisionali dell’Europa non si sono evolute in modo sostanziale con l’allargamento dell’Ue e con l’aumento dell’ostilità e complessità dell’ambiente globale che affrontiamo. Le decisioni vengono in genere prese questione per questione con più attori con diritto di veto lungo il percorso” (pag. 4).

Secondo Draghi, per superare questi tre ostacoli l’Ue deve adottare la nuova strategia industriale delineata nel suo rapporto, con le sue 170 proposte di intervento per il breve, medio e lungo termine. L’approccio è pragmatico: le proposte sono progettate per essere implementate rapidamente e per fare una differenza tangibile nelle prospettive dell’Ue. “In molti settori, l’Ue può ottenere molto adottando un gran numero di piccoli passi, ma in modo coordinato, che allinei tutte le politiche dietro l’obiettivo comune. In altri settori, sono necessari un piccolo numero di grandi passi, delegando al livello dell’Ue compiti che possono essere eseguiti solo lì. In altri settori ancora, l’Ue dovrebbe fare un passo indietro, applicando il principio di sussidiarietà in modo più rigoroso e riducendo l’onere normativo che impone alle aziende dell’Ue” (pag. 4).
La regia della trasformazione dell’economia europea prospettata da Draghi non sarà affidata alla mano pubblica ma resterà saldamente in capo alle banche e ai fondi privati da far crescere, che avranno il compito di “drenare” il risparmio privato dei cittadini europei, stimato in 33 mila miliardi di euro. Come ha sottolineato Mario Pianta, economista alla Scuola Normale Superiore di Firenze, uno dei principali limiti del piano Draghi è la sua esclusiva focalizzazione sul settore privato. “Nel piano mancano soggetti pubblici capaci di guidare la politica industriale verso l’interesse pubblico anziché le convenienze private. Si può pensare ad agenzie pubbliche europee, a nuove imprese statali, a partecipazioni pubblico-privato, soggetti che siano in grado di intervenire per riempire i vuoti delle nostre capacità produttive. Pensiamo alle energie rinnovabili, dal fotovoltaico all’eolico, dove molti protagonisti sono già imprese a partecipazione pubblica. Pensiamo alle infrastrutture urbane e territoriali necessarie per la transizione ecologica. Pensiamo al vuoto europeo nel campo delle piattaforme digitali. I fondi europei dovrebbero essere vincolati a scelte produttive precise, e un ruolo chiave può essere svolto dalla domanda pubblica, nazionale ed europea”.
Un’osservazione critica condivisa anche da Roberto Romano. “In realtà, il bilancio pubblico delineato da Draghi manca clamorosamente di uno dei grandi obbiettivi di finanza pubblica, cioè quello di individuare la migliore allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico. Draghi non immagina nessuna public utility strategica europea al netto delle Agenzie esistenti. Non solo la dizione public utility non è mai utilizzata, ma nel rapporto non si delinea nemmeno un percorso teso a creare public utility di interesse generale. Indiscutibilmente la pubblica amministrazione europea non ha la dotazione tecnica per occuparsi di utility, ma senza creare i presupposti di una loro creazione svuota il bilancio pubblico europeo di uno degli strumenti essenziali per implementare una buona politica economica, e industriale in particolare. Senza società pubbliche europee, sostanzialmente, il 4% del PIL europeo di nuovi investimenti rischia di diventare un bancomat a favore del sistema privato senza che vi sia un concorrente pubblico capace di condizionare e guidare le necessarie trasformazioni economiche e sociali. Il mercato sussidiato diventerebbe, pur indirizzato nei settori innovativi, l’alfa e l’omega della politica economica europea”.

Il finanziamento del piano Draghi e la governance europea

Una domanda chiave che si pone è come l’Ue dovrebbe finanziare le massicce esigenze di investimenti aggiuntivi che la trasformazione dell’economia delineata dal rapporto Draghi comporterebbe. Il rapporto potrebbe rappresentare un altro momento “whatever it takes” per l’Europa per evitare “un lento e angosciante declino” e raggiungere invece gli obiettivi stabiliti. Per fare questo, secondo Draghi, è necessario un investimento aggiuntivo annuo minimo di 750-800 miliardi di euro, corrispondente al 4,4-4,7% del PIL dell’UE nel 2023. Una cifra enorme. A titolo di confronto, gli investimenti nell’ambito del Piano Marshall tra il 1948 e il 1951 erano equivalenti all’1-2% del PIL dell’Ue. Per realizzare questo aumento, la quota di investimenti dell’UE dovrebbe aumentare da circa il 22% del PIL attuale a circa il 27%, invertendo un declino pluridecennale nella maggior parte delle grandi economie dell’Ue. Di questi 750-800 miliardi, 450 sarebbero destinati ad investimenti per la transizione energetica (300 per il passaggio alle energie pulite e 150 per i trasporti, inclusa l’infrastruttura elettrica per la ricarica), 150 per le tecnologie digitali, 50 per il settore militare, e 100/150 per l’aumento di produttività. Da notare che a fronte dell’indicazioni di queste cifre economiche manca un’analisi di impatto in termini di occupazione, valore aggiunto, crescita e altri indicatori socio-economici. In questo modo, tutte le iniziative delineate diventano semplicemente dei buoni propositi. Dobbiamo quindi prendere atto che Draghi ha sostanzialmente delineato una “visione”, piena di buone intenzioni, che necessita di ulteriori studi conoscitivi di fattibilità e statistica.

Nonostante l’Europa possa progredire con la sua Unione dei mercati dei capitali (delineata nel Rapporto Letta), Draghi è il primo a riconoscere che “il settore privato non sarà in grado di sostenere la parte del leone del finanziamento degli investimenti senza il sostegno del settore pubblico” (pag. 5). Dovranno essere emessi dei titoli di debito pubblico europeo comuni (“common safe assets”), com’era già avvenuto con il Next Generation Eu, per finanziare quelli che Draghi definisce come “investimenti in beni pubblici europei chiave”, come l’innovazione rivoluzionaria, gli appalti della difesa o le reti transfrontaliere, che altrimenti rimarranno sottofinanziati senza un’azione comune. Tutta questa montagna di denaro verrebbe direttamente o indirettamente messa a disposizione delle imprese private, senza che Draghi preveda che vengano richieste contropartite rispetto al “modello sociale europeo” (aumento di salari, welfare, sanità, diritti dei lavoratori, etc.).
Su tutto questo argomento, le indicazioni di Draghi rimangono vaghe, non definite, prendendo atto che tutto dipenderà da condizioni politiche e istituzionali favorevoli (o meno). Pochi si aspettano che i leader dell’Ue concordino sull’ambiziosa agenda di Draghi. In Francia, Macron è indebolito dopo che le elezioni anticipate hanno creato una prolungata situazione di stallo politico e il governo non ha una maggioranza in Parlamento. Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, presiede una litigiosa coalizione a tre che è preoccupata per la politica interna dopo le vittorie senza precedenti dell’estrema destra nelle elezioni regionali in Turingia e Sassonia e la forte crescita in Brandeburgo. Tutti i poteri sono nelle mani del Consiglio europeo – che riunisce i governi – e della Commissione, dove le posizioni spesso sono molto più arretrate delle proposte di Draghi. In particolare, molti non vogliono sentir parlare di debito comune europeo. Il ministro delle finanze tedesco, il liberale Christian Lindner, ha subito affermato che i prestiti congiunti dell’UE non risolveranno i problemi strutturali e che il problema principale non è la mancanza di sussidi, ma la burocrazia e l’economia pianificata. Secondo molti analisti, è difficile che il piano Draghi faccia molta strada e in tanti lo hanno rapidamente classificato come un libro dei sogni, destinato al cassetto o allo scaffale. Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze durante la crisi finanziaria della Grecia, ha scritto che il rapporto di Draghi “sarà onorato nella violazione, non nell’osservanza. A parole, la Commissione riutilizzerà parte del fondo per la ripresa non speso. In realtà, seppellirà la principale raccomandazione del rapporto. Draghi non lo sa? Sospetto di sì. Il suo rapporto si legge come un canto del cigno e una rinuncia alla colpa personale per la degenerazione dell’Europa in un museo di industrie passate e di eccellenti relazioni che sono state elogiate fino alle stelle prima di essere accantonate”.
Quello su cui Draghi (come Letta) realmente punta è la nascita di un vero mercato unico nel settore finanziario che consentirebbe la mobilitazione dell’enorme ricchezza detenuta dalle famiglie e dalle imprese europee e la sua allocazione alle transizioni verde e digitale, oltre che al settore delle armi. Per Draghi, il completamento dell’unione dei mercati dei capitali dell’Ue è cruciale, poiché le banche non sono adatte a finanziare questo tipo di investimento, che è, per così dire, lungo nelle idee e corto nelle garanzie. Dunque, l’Ue ha bisogno dell’unione dei mercati dei capitali e dello sviluppo dei mercati di private equity e venture capital per sostenere una produzione innovativa e sostenibile, ma con il rischio di alimentare distorsioni del mercato (la speculazione tipica del mercato finanziario degli Stati Uniti).
Allo stesso tempo, le raccomandazioni di Draghi equivalgono a una combinazione di un bilancio Ue riformato ed ampliato che stabilisca una capacità fiscale centrale con una nuova politica industriale europea. Questa combinazione legittimerebbe l’affermazione ricorrente, fatta nel suo rapporto, secondo cui le transizioni verdi e innovative dovrebbero essere rese compatibili e dovrebbero persino rafforzare il modello sociale europeo. Rimarrebbe il paradosso che la scelta espansiva a livello di Unione europea si accompagnerebbe a una politica di austerità legata all’implementazione del Patto di Stabilità che ha chiuso la stagione delle politiche fiscali espansive post-pandemiche e che probabilmente costringerà a tagliare la spesa pubblica nazionale. Sarà estremamente difficile fare le transizioni produttive auspicate da Draghi con economie nazionali, redditi e consumi in recessione.

Ugualmente vaghe sono le proposte avanzate dal rapporto sulla riforma dei processi decisionali e della governance europea. Consapevole che il contesto politico non consente di ipotizzare revisioni dei Trattati, Draghi si è limitato a riproporre soluzioni non particolarmente innovative: un alleggerimento della regolamentazione, più ricorso al principio di sussidiarietà, una assunzione del principio di competitività in quasi tutte le politiche comuni della Ue, il ricorso alle clausole cosiddette “passerella” per aumentare il numero delle decisioni da adottare a maggioranza qualificata (un passaggio difficile da realizzare visto che richiederebbe un accordo preliminare, soggetto all’unanimità a livello del Consiglio europeo, tanto è vero che questa clausola non è mai stata utilizzata finora).
Come ha notato un attento osservatore come Sergio Fabbrini (Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2024), la “sfida esistenziale” evocata da Draghi richiederebbe un cambiamento di paradigma relativamente al governo dell’Ue. “Avendo costruito istituzioni a pezzi e bocconi, i funzionalisti hanno portato l’Ue in un vicolo cieco sul piano della governance, consentendo ai governi nazionali di perseguire i loro interessi ritenendo che essi coincidano con l’interesse europeo. Le 393 pagine del Rapporto Draghi finiranno in un cassetto, in assenza di attori sovranazionali, legittimati democraticamente, che abbiano un interesse a perseguire un interesse (una policy) a sua volta sovranazionale”.

La Strategia europea per l’industria della difesa e il Rapporto Draghi

Il 5 marzo scorso la Commissione europea ha presentato una Strategia europea per l’industria della difesa (EDIS) che invita gli Stati membri a investire “di più, meglio, insieme ed in modo europeo” nell’acquisizione di capacità militari. L’idea di fondo su cui si basa la Strategia è che unire le forze per procurarsi collettivamente e localmente i sistemi militari dovrebbe aumentare drasticamente l’efficienza degli investimenti e stimolare il consolidamento della base industriale e tecnologica di difesa europea (EDTIB). Oggi, la domanda nel mercato industriale e di difesa europeo è, con poche eccezioni, frammentata lungo i confini nazionali, soprattutto al di fuori del settore aeronautico e missilistico: gli Stati membri tendono ad acquisire, a livello nazionale quando possibile, capacità militari su misura che rispondono a decisioni di investimento radicate nei processi di pianificazione della difesa nazionale16. Di conseguenza, anche i produttori di livello superiore della catena di fornitura dell’industria della difesa – i principali fornitori dell’Europa – sono frammentati lungo la stessa linea. Operano in mercati nazionali ristretti, le cui dimensioni non giustificano i grandi investimenti per aumentare la capacità produttiva richiesti dall’odierno contesto di sicurezza globale. Come riconosce l’EDIS, la mancanza di prevedibilità del volume della domanda impedisce ai fornitori europei di realizzare economie di scala e li costringe a fare affidamento sulle esportazioni per rimanere redditizi. Di conseguenza, non sono stati in grado di soddisfare l’improvviso aumento della domanda sia di materiali di consumo che di nuovi sistemi d’arma derivante dal sostegno degli Stati membri all’Ucraina. Questi ultimi sono stati così costretti a guardare altrove: secondo l’EDIS, “il 78% dei 240 miliardi di euro di acquisizioni per la difesa effettuate dagli Stati membri tra febbraio 2022 e giugno 2023 sono stati effettuati al di fuori dell’Ue”, con il 60% che provenivano dagli Stati Uniti. La maggior parte di queste acquisizioni (63%) consisteva in prodotti standardizzati provenienti da scorte industriali esistenti (Strategia, pagg. 3-4). Cioè, il denaro che avrebbe potuto finanziare l’aumento della capacità dell’EDTIB non è arrivato, perché attualmente questa base produttiva non è in grado di fornire grandi volumi di armi in tempo (e la promessa di consegnare un milione di proiettili da 155 mm. all’Ucraina entro un anno, non è stata mantenuta mentre il prezzo di un proiettile è aumentato da 2.100 dollari al pezzo a 8.400 dollari dall’inizio della guerra nel febbraio 2022)17.

L’EDIS è una proposta politica con implicazioni politiche di vasta portata: se dovesse riuscire a raggiungere l’obiettivo di stabilire “gli appalti comuni [di prodotti per la difesa] come norma18, la Commissione compirà il passo più importante finora per affermarsi come un policy maker nel campo della difesa-industriale. Svolgere tale ruolo è ciò che la Commissione ha cercato di fare sin dall’istituzione del Fondo europeo per la difesa (FES) nel 2021, a cui hanno fatto seguito altre iniziative dell’UE che hanno visto la Commissione tentare di espandere la propria portata nella politica industriale-difensiva. Sfruttando lo slancio politico conferitole dalla guerra in Ucraina, Bruxelles cerca ora di accelerare questo processo attraverso l’EDIS, con l’obiettivo di superare la frammentazione nazionale del mercato (frutto degli incentivi e sussidi offerti dagli Stati membri, desiderosi di preservare la propria sovranità individuale e le rispettive industrie), rendere più efficiente (“razionalizzare”, minimizzando moltiplicazioni e sprechi) il sistema di difesa europeo e di far diventare l’UE un attore potente geo-politico-militare sulla scena internazionale. Verrebbe istituito un Gruppo europeo di alto livello dell’industria della difesa per aiutare a coordinare gli appalti e la programmazione. Il Gruppo avrebbe il compito di identificare progetti di interesse comune su cui concentrare gli sforzi e i programmi di finanziamento dell’Ue (per cui il Gruppo è destinato a diventare un “campo di battaglia” delle lobby); l’obiettivo è che il blocco crei una rete di capacità di difesa informatica, nonché sistemi europei integrati di difesa aerea e missilistica.

Ogni paese ha la propria storia per quanto riguarda la base e le ambizioni dell’industria della difesa. L’industria europea della difesa è stata tradizionalmente una questione nazionale e interna, con assetti di governance diversi e indipendenti in ciascun paese, il che a volte ha impedito una più profonda integrazione europea dell’industria e della politica a livello dell’Unione europea. Per cui si tratterà di vedere se gli Stati membri saranno disponibili – e questo non è per nulla garantito – a sacrificare la sovranità nazionale in misura maggiore di quanto siano stati disposti a fare finora per far diventare l’Unione l’attore principale negli appalti per l’industria della difesa19. La quasi assenza di un dibattito su una maggiore cooperazione tra gli Stati membri dell’Ue sembra indicare che a breve termine non ci sia molta voglia da parte dei governi di dare all’Ue un ruolo più ampio sia nella difesa (nonostante la guerra della Russia in Ucraina abbia portato gli interessi della sicurezza in primo piano nelle menti dei politici) che nella politica generale.

In ogni caso, la comunicazione sull’EDIS definisce una serie di iniziative politiche che l’Unione intende perseguire per realizzarla, anche se il quadro delle risorse finanziarie necessarie è ancora tutto da inventare20. Tra le più importanti ricordiamo l’istituzione di:

  1. un Gruppo europeo di alto livello dell’industria della difesa per coordinare i piani di appalto degli Stati membri sulla base degli strumenti esistenti, per dare priorità ai finanziamenti dell’Ue per capacità selezionate e collaborare con l’industria per aumentare la capacità produttiva, al fine di definire obiettivi informati di produzione industriale della difesa;
  2. un nuovo quadro giuridico – la Struttura per il Programma Europeo di Armamento (SEAP) – per formalizzare le procedure di appalto cooperativo, ovvero per garantire la cooperazione durante l’intero ciclo di vita della capacità (dalla fase di ricerca e sviluppo alla fase di approvvigionamento e sostegno). Il SEAP è inteso come un percorso per dare seguito ai progetti FES e PESCO (quest’ultimo ha fornito il quadro giuridico e impegni vincolanti per una difesa collaborativa). I governi che acquisteranno congiuntamente beneficeranno di esenzioni IVA;
  3. un “Meccanismo Europeo di Vendita Militare” che faciliterà l’acquisizione dei prodotti della base industriale e tecnologica di difesa europea, finanziando l’accumulo di capacità acquisite attraverso il SEAP (per ridurre i tempi di consegna), aprendo contratti di appalto della difesa ad altri Stati membri rispetto a quelli stipulanti e fornendo assistenza tecnica per lo sviluppo della capacità amministrativa nelle agenzie nazionali di appalto;
  4. una serie di misure per potenziare la capacità produttiva – come il sostegno alla valorizzazione di prototipi innovativi derivanti da progetti FES e il sostegno per facilitare l’accesso ai finanziamenti per le PMI della base industriale e tecnologica di difesa europea – e altre per migliorare la prontezza nella risposta alle crisi;
  5. un Fondo per accelerare la trasformazione della catena di approvvigionamento della difesa (FAST), che mira a portare il finanziamento dell’Ue di hardware di livello militare oltre le munizioni e i missili. Il Fondo potrà sovvenzionare la capacità produttiva con 1 miliardo di euro – raccolto da prestiti e investendo 100 milioni di euro di denaro pubblico – per sostenere l’industria degli armamenti anche quando la domanda è stagnante. Ad esempio, i finanziamenti FAST verrebbero utilizzati per coprire i salari e la manutenzione dei macchinari negli stabilimenti degli appaltatori della difesa, ma la Commissione vuole anche – e in modo controverso – prendere in considerazione il potere di requisire linee di produzione civili, se necessario.

Tutte queste iniziative e politiche, però, avranno l’effetto di deviare maggiori risorse finanziarie dalla ricerca, dall’innovazione e dalle esigenze industriali delle economie europee, per favorire attività che mirano alla potenza militare anziché allo sviluppo economico e alla transizione energetica. Tali politiche avvicinano l’Europa al modello statunitense di “complesso militare-industriale”.

D’altra parte, è proprio al modello statunitense che punta il Rapporto Draghi per rafforzare la NATO, seguire la formula del “keynesismo di guerra” di Washington, far consolidare gli oligopoli multinazionali europei (modificando/allentando le norme antitrust per consentire economie di scala superando la frammentazione tra Stati membri) e prepararsi alle eventuali minacce e sfide future russe e cinesi. La visione su cui si basa il Rapporto Draghi è quella della “autonomia strategica” europea. Il concetto era stato introdotto in modo prominente attraverso la Strategia globale dell’Ue nel 2016, in cui l’Ue ha delineato la sua ambizione di diventare un attore bellicoso e assertivo nel campo della sicurezza e della difesa21. Un elemento chiave della “autonomia strategica” è lo sviluppo di una base industriale integrata di difesa europea in grado di produrre i principali sistemi d’arma in Europa. Secondo questo concetto, la base industriale e tecnologica di difesa europea dovrebbe essere in grado di fornire alle forze armate europee tutte le armi di cui hanno bisogno senza dover fare affidamento sugli Stati Uniti o su altri paesi terzi. In breve, i paesi dell’UE dovrebbero acquistare attrezzature europee dai produttori europei. I sostenitori della “autonomia strategica” vedono una base industriale e tecnologica di difesa europea autosufficiente come vitale per rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Europa e quindi aumentare il suo peso geopolitico nella competizione imperialistica sistemica.

Tuttavia, questa non è affatto una visione indiscussa nei paesi dell’Ue. Alcuni governi, compresi quelli che fanno parte del nucleo centrale, desiderano consentire a paesi terzi come Regno Unito, Giappone, Australia, Canada e Stati Uniti di partecipare ai programmi finanziati dall’Ue22. Altri vogliono limitare l’accesso ai fondi Ue al continente europeo e ai paesi dell’Ue. In secondo luogo, molti paesi periferici ed emergenti all’interno dell’Ue non considerano la “autonomia strategica” europea una priorità, principalmente perché non ne vedono i benefici. Al contrario, sospettano che i paesi chiave con industrie all’avanguardia dal punto di vista tecnologico stiano perseguendo i propri interessi sotto la maschera di una visione apparentemente imparziale. Si dà il caso che i più forti sostenitori del concetto di “autonomia strategica” europea siano i paesi meglio posizionati per beneficiare economicamente dei progetti di sviluppo europei. Infine, gli atteggiamenti riguardo al futuro dell’integrazione europea differiscono grandemente all’interno dell’Europa. Paesi come Polonia, Ungheria e Regno Unito desiderano difendere la propria autonomia nazionale, il che ha implicazioni anche per il settore della difesa. Di conseguenza, non esiste una visione o un’idea comune coerente di come dovrebbe essere la base industriale e tecnologica di difesa europea in termini di distribuzione regionale, portafoglio di produzione, regole per le esportazioni o partner di cooperazione23. Né c’è consenso su quanto l’Europa dovrebbe importare o quale grado di autonomia dovrebbe mirare a raggiungere.
Ciò non significa, tuttavia, che non esista un terreno comune. L’Ue ha creato una serie di strumenti per facilitare lo sviluppo congiunto di armi che sono ampiamente considerati efficaci, in particolare il FES. Sebbene questi strumenti manchino di chiarezza, coerenza e compatibilità con i processi della NATO, la maggior parte dei governi concorda sul fatto che tali politiche dell’Ue saranno cruciali per il futuro sviluppo della base industriale e tecnologica di difesa europea.

L’analisi fin qui presentata suggerisce che in assenza di importanti iniziative politiche condivise, non ci saranno sostanziali cambiamenti al disegno e al coordinamento della crescita e di un possibile consolidamento della base industriale e tecnologica della difesa europea nei prossimi anni, anche in presenza di un aumento dei budget. Le cose andranno avanti come al solito, con la spesa della UE che si somma a quella dei singoli Stati e non la sostituisce. Il nucleo centrale europeo continuerà cioè a produrre sistemi d’arma all’avanguardia che garantiscono un certo grado di autonomia politica e operativa dagli Stati Uniti. La periferia cercherà di ridurre la propria dipendenza, anche dai suoi alleati europei, mantenendo un atteggiamento ambivalente nei confronti della cooperazione europea e della “autonomia strategica” europea. Sebbene saranno possibili fusioni, la struttura industriale frammentata complessiva rimarrà probabilmente invariata nel prossimo futuro.
Solo se i paesi europei riusciranno a concordare ampi programmi multilaterali (delle vere e proprie coerenti “politiche industriali”) con finanziamenti sufficienti per generare importanti progressi tecnologici, potrebbero emergere nuovi “campioni” e aziende paneuropee, che trasformerebbero il panorama industriale.

Lottare contro il “capitalismo di guerra”

È all’interno di questo quadro complesso e problematico che, come sostiene Giulio Marcon nel suo saggio nell’ebook Economia a mano armata 2024. Spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia realizzato da Greenpeace e Sbilanciamoci, quello che per tutti noi, cittadini e attivisti, deve essere chiaro è che siamo chiamati a fare una scelta “politica” tra una politica della guerra e una politica della pace, per cui dobbiamo essere pienamente consapevoli di quali siano le diverse conseguenze della nostra scelta. “La politica della guerra si basa sul riarmo, sul nazionalismo, sul dominio degli interessi economici e delle materie prime, sulla politica di potenza, sull’ideologia della geopolitica, sulle aree di influenza, su un’economia liberista e delle diseguaglianze. La politica della pace si basa sul disarmo, sulla prevenzione dei conflitti, sulla cooperazione internazionale, sulla democrazia internazionale ed il ruolo degli organismi sovranazionali, su un’economia di giustizia e l’eguaglianza. Non c’è un realismo dei governi (la politica, che presuppone anche la guerra) cui si contrappone un idealismo della pace (che rifiuta le armi): si tratta invece di politiche diverse, di strategie contrapposte, di visioni tra loro irriducibili” (pag. 5). Il bilancio della difesa devia fondi da altre forme di spesa pubblica che sono o più vantaggiose per l’economia o socialmente preferibili rispetto alla spesa militare. Razionalizzare la spesa militare è quindi una strategia desiderabile ed essa può essere possibile se cambiano le istituzioni che governano i sistemi di difesa. In questo senso, il disegno di una difesa comune europea può anche apparire come desiderabile, ma rimane per ora assai difficile da realizzare. Soprattutto, non dovrebbe essere l’unico focus delle politiche perché ci sono altri mezzi non militari per raggiungere la “sicurezza” e su cui investire il capitale politico europeo: l’integrazione politica regionale (ad esempio, nell’area mediterranea), la cooperazione economica internazionale, la diplomazia e il rafforzamento della fiducia, i trattati sul disarmo, la tutela dei diritti umani e gli aiuti allo sviluppo.

Mentre le élite che governano la Ue lavorano alacremente per fomentare un clima di ansia e paura, per creare un complesso militare-industriale in grado di svuotare la democrazia24, per militarizzare le relazioni internazionali e per trasformare il blocco in una potenza militare geopolitica, nonostante l’assenza di una vera forza politica di sinistra, si intravede uno spiraglio di speranza. In tutto il continente, l’attivismo contro la guerra e l’oppressione è stato risvegliato dal genocidio di Gaza che ha ripoliticizzato milioni di persone. Ora, si tratta di capire dove e come si può esercitare la stessa pressione su un’istituzione antidemocratica come l’Unione europea. Dobbiamo modificare la traiettoria bellicista voluta dai governanti prima che sia troppo tardi per evitare la transizione verso un “capitalismo di guerra25 e una spirale dell’uso della forza militare che potrebbe portare allo scontro militare imperialista (anche atomico) tra l’Occidente e il resto del mondo. La sopravvivenza dell’umanità è in pericolo a causa dell’incapacità dell’Occidente (e quindi dei governanti dell’Unione europea) di venire a patti con il proprio lento declino politico, economico, sociale e morale come blocco dominante nel mondo e di accettare l’emergere di un mondo multipolare e policentrico.

È sempre bene ribadire che la nostra Costituzione del 1948 afferma che “L’Italia ripudia la guerra”, una dichiarazione politica carica di intelligenza e civiltà da difendere con tutte le forze dall’aggressiva irresponsabilità delle élite mainstream e di destra che attualmente governano il nostro paese e l’Unione Europea.

Note

  1. Per far passare la legislazione, von der Leyen ha bisogno non solo degli Stati membri dell’Ue, ma anche del Parlamento europeo, che ha più eurodeputati di estrema destra, nazionalisti e sovranisti ostili all’Ue che mai. Non si parla più di 30 “pazzi”, ma di 150 eurodeputati che non hanno buone intenzioni. La grande coalizione di partiti pro-Ue che hanno sostenuto von der Leyen, dal suo stesso partito di centro-destra del Partito popolare europeo, ai socialisti, ai centristi e ai verdi, sarà messa alla prova, nonostante von der Leyen abbia accolto nella Commissione diversi rappresentanti di partiti di destra che non la sostengono apertamente.
  2. Dalla crisi della pandemia tutti i paesi europei sono usciti con grandi aumenti di spesa pubblica – grazie alla sospensione delle regole dell’austerità europea – che hanno portato ad aumentare tra il 10 e il 20% del rapporto debito pubblico/PIL. Aumenti che il nuovo Patto di stabilità ora vuole cancellare, con il rischio di una nuova stagione di tagli e recessione. I decisori politici europei si trovano ora di fronte a un dilemma. L’Ue ha concordato nuove regole fiscali che richiedono che gli elevati debiti pubblici dei paesi dell’Ue siano messi su un percorso discendente per aumentare lo spazio fiscale. Se i decisori politici le applicano in modo poco stringente, è improbabile che riescano a costruire la fiducia reciproca necessaria per intensificare gli interventi a livello Ue. Ma un’applicazione rigorosa del nuovo quadro fiscale limiterebbe lo spazio di manovra a livello nazionale. Superare il dilemma è difficile. Le nuove regole fiscali consentono un aggiustamento fiscale più graduale, ma ciò richiede l’impegno dei governi a realizzare riforme e investimenti, in particolare quelli in linea con le priorità dell’Ue. Pertanto, sarà cruciale vedere come la Commissione europea implementerà questa clausola.
  3. La definizione del termine “complesso militare-industriale” è stata coniata dal generale Dwight Eisenhower nel suo “discorso di addio” al termine del suo mandato alla presidenza degli Stati Uniti, nel quale ammoniva sugli effetti economici distorsivi e sui pericoli autoritari sulla natura delle istituzioni, delle culture politiche e della società, con una possibile erosione della democrazia. “Questa congiunzione tra un’immensa struttura militare e una grande industria degli armamenti è nuova nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica e persino spirituale – si fa sentire in ogni città, in ogni sede statale, in ogni ufficio del governo federale. […] Nei consigli di governo, dobbiamo vigilare contro l’acquisizione di un’influenza ingiustificata, ricercata o meno, da parte del complesso militare-industriale. Il potenziale per un disastroso aumento di potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e informata può costringere l’enorme apparato di difesa industriale e militare a integrarsi adeguatamente con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme”. – Dwight D. Eisenhower, “Discorso d’addio alla nazione“, 17 gennaio 1961.
  4. Sinteticamente, si può dire che il neoliberismo è una filosofia economico-politica che consiste in due affermazioni, una economica e l’altra politica. L’affermazione economica è che le economie di libero mercato basate sul laissez-faire sono il modo migliore per organizzare l’attività economica in quanto generano risultati efficienti che massimizzano il benessere. L’affermazione politica è che i sistemi economici di libero mercato promuovono la libertà individuale. Entrambe le affermazioni sono problematiche. Le prove dell’esperimento quarantennale iniziato nel 1980 mostrano che il neoliberismo ha minato la prosperità condivisa e scatenato forze illiberali e proto-fasciste che ora minacciano libertà e democrazia.
  5. Draghi sembra essere in parte consapevole del costo sociale imposto alle società europee negli ultimi 30 anni e lo definisce come frutto di “errori” dovuti alla “insensibilità” dei decisori politici rispetto agli effetti della “iper-globalizzazione” e dell’automazione. Errori di cui ritiene occorra tener conto e da evitare nella nuova fase: “L’Europa dovrebbe imparare dagli errori commessi nella fase di “iper-globalizzazione” e prepararsi a un futuro in rapido cambiamento. La globalizzazione ha portato molti benefici all’economia europea e ha anche sollevato centinaia di milioni di persone dalla povertà in tutto il mondo. Ma i decisori politici sono stati probabilmente troppo insensibili alle sue conseguenze sociali percepite, in particolare al suo effetto apparente sul reddito da lavoro. Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni come quota del PIL sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota del reddito da lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo, il calo più ripido da quando i dati per queste economie sono diventati disponibili nel 1950. Mentre questa relazione potrebbe essere dovuta più all’automazione che all’open trade, l’idea che la globalizzazione avesse esacerbato la disuguaglianza si è infiltrata nella percezione pubblica, mentre i governi erano visti come indifferenti. I decisori politici dovrebbero imparare da questa esperienza per riflettere su come la società cambierà in futuro e su come possono garantire che lo Stato sia visto dalla parte dei cittadini e attento alle loro preoccupazioni. Una parte fondamentale di questo processo sarà l’empowerment delle persone. I leader e i decisori politici dovrebbero impegnarsi con tutti gli attori all’interno delle rispettive società per definire obiettivi e azioni per la trasformazione dell’economia europea. Un coinvolgimento più efficace e proattivo dei cittadini e un dialogo sociale, che unisca sindacati, datori di lavoro e attori della società civile, saranno centrali nel costruire il consenso necessario per guidare i cambiamenti. La trasformazione può portare al meglio, alla prosperità per tutti quando è accompagnata da un forte contratto sociale” (pag. 15). Per quanto riguarda la globalizzazione bisognerebbe riconoscere anche che questa viene sabotata con misure di protezionismo dall’Occidente nel momento in cui la Cina ha una certa superiorità tecnologica in alcuni settori. L’Occidente era a favore della globalizzazione fino a che esportava i beni tecnologicamente più avanzati e lasciava agli altri l’esportazione di meri prodotti manifatturieri e materie prime. Non lo è più ora, che gli altri sono in grado di esportare beni che sono alla frontiera dell’innovazione che ora sarebbe l’Occidente a dovere importare. Inoltre, la globalizzazione ha causato un numero crescente di “perdenti” nelle società occidentali. Ad essi non era stata assicurata alcuna “protezione”, soprattutto perché non erano quei perdenti che controllavano le regole del gioco. Le classi medie, i professionisti, del resto se ne stavano ben al riparo delle rigide regolamentazioni delle loro professioni: la globalizzazione andava bene fintanto che il prezzo erano gli altri ceti sociali più deboli a pagarlo. Non a caso le grandi proteste di massa contro la globalizzazione, durante la conferenza interministeriale del WTO di Seattle (novembre-dicembre 1999) e il tragico G8 di Genova (luglio 2001), sono state duramente represse. Fino alla crisi finanziaria globale del 2008/09, si credeva nell’acronimo “TINA” coniato dalla Thatcher: “There Is No Alternative” (“non vi è alternativa” alla globalizzazione) e che la marea della globalizzazione sollevasse tutte le barche, le grandi e anche le piccole.
  6. In molti si sono dimenticati o non sanno che l’Ue nacque con i Trattati di Roma del 1957, oltre che per evitare nuove guerre fratricide, anche dall’umiliazione subita da Francia e Regno Unito nella crisi di Suez del 1956, e dai carri armati sovietici a Budapest dello stesso anno. È nata cioè dalla consapevolezza che da soli i paesi europei non avevano alcuna possibilità di resistere alle potenze mondiali militarizzate (con arsenali nucleari) che stavano crescendo: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica.
  7. Così, ad esempio, Draghi auspica la concessione di finanziamenti della BEI (la Banca Europea per gli Investimenti) alle industrie delle armi. Questo richiede la modifica dello statuto della banca che, allo stato attuale, esclude i progetti militari e di difesa dall’elenco delle attività che possono essere finanziate.
  8. Draghi fa un ulteriore richiamo ai valori europei nel contesto delle raccomandazioni finalizzate ad accelerare l’innovazione. “Gli sforzi dell’Ue per affinare il proprio vantaggio competitivo devono essere guidati dai valori europei, che dovrebbero essere ulteriormente rafforzati dalla sua azione. Questi comprendono valori fondamentali, tra cui i diritti umani, lo Stato di diritto e la democrazia, ma anche valori di specifica rilevanza per la ricerca e l’innovazione, come la libertà e l’indipendenza accademica, l’integrità e l’etica della ricerca, la trasparenza, la diversità, l’inclusione, l’uguaglianza di genere, la scienza aperta e l’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche e ai dati di ricerca. Questi valori e principi dovrebbero rimanere al centro dell’approccio europeo e costituire la forza del suo modello di ricerca eccellente e collaborativa. La promozione di questi valori rende l’Europa un luogo più attraente per ricercatori e aziende di tutto il mondo” (pag. 246). Per quanto riguarda il finanziamento in R&I, Draghi ha proposto di riformare Horizon Europe, il principale programma di finanziamento della R&I dell’Ue, per concentrarsi su un insieme più ristretto di priorità comuni. Ha anche suggerito di raddoppiare il budget di quest’ultimo in sette anni, portandolo da 93,5 miliardi di euro a 200 miliardi di euro, ma  “la governance del programma dovrebbe essere gestita da project manager e da persone con comprovata esperienza alla frontiera dell’innovazione” (pag. 29). Vuole anche rafforzare e riformare il Consiglio europeo per l’innovazione (EIC), un’iniziativa finanziata da Horizon Europe per un importo di 10 miliardi di euro e che mira a sostenere finanziariamente le tecnologie innovative. Draghi vuole farne un’istituzione simile all’Agenzia americana per i progetti di ricerca avanzata della difesa (DARPA), che fa affidamento sui mercati pubblici per consentire il finanziamento su larga scala di programmi tesi a sviluppare tecnologie dirompenti “dual use”, ossia con utilizzo sia civile sia militare.
  9. Un raro caso di successo è stato quello dell’Airbus, realizzata facendo esattamente quanto Draghi auspica oggi. Il fatto è che Airbus fu vista come un anatema rispetto ai sacri principi del libero mercato dal Fondo monetario internazionale e dall’Organizzazione mondiale per il commercio e fu osteggiata anche in Europa ad ogni livello in nome del rifiuto al sussidio pubblico.
  10. Come abbiamo visto, l’innovazione è un tema importante nel rapporto e compare anche nel capitolo sulla concorrenza. Draghi esorta a includere l’innovazione nelle valutazioni delle fusioni (merger & acquisition), come già avviene, delineando un approccio per garantire che l’applicazione della concorrenza non danneggi accidentalmente l’innovazione. La prima delle dieci proposte relative alla concorrenza da lui avanzate suggerisce di consentire alle aziende che si fondono e che non sono dominanti e affrontano la concorrenza di giustificare la loro fusione dimostrando che aumenterà l’innovazione. Draghi non è ingenuo riguardo al possibile abuso di questo nuovo argomento, chiedendo prove sugli effetti di miglioramento dell’innovazione di una fusione che siano “abbastanza specifiche da limitare il rischio che le aziende abusino di questa strategia di difesa, pur dando loro l’opportunità di giustificare la loro fusione”. In un’altra proposta, Draghi offre un’interpretazione sofisticata dell’idea controversa di incorporare la resilienza nella politica sulla concorrenza. Alcuni problemi di resilienza hanno un impatto diretto sui consumatori attraverso carenze, ad esempio di medicinali essenziali o chip nei prodotti per il trasporto. Questo rischio di prezzi elevati o di carenza può già essere incorporato nel quadro esistente per il controllo delle fusioni e Draghi raccomanda di farlo più spesso. Ma alcuni problemi di resilienza si verificano nelle aree della sicurezza e della difesa, dove un’autorità garante della concorrenza non ha la capacità di valutare o fare compromessi. Draghi propone quindi un’agenzia separata che fornirebbe un contributo all’autorità garante della concorrenza in questi casi speciali, anche se avrebbe potuto essere più chiaro nello stabilire quali fattori possono essere gestiti tramite le procedure di concorrenza esistenti e quali da un organismo esterno, e come i due dovrebbero essere bilanciati. Ad ogni modo, Draghi propone un allentamento delle regole della concorrenza per alcuni importanti settori, per esempio la difesa e le telecomunicazioni (definendo i mercati a livello europeo e non nazionale). Per quanto riguarda gli aiuti di Stato, Draghi afferma che gli aiuti di Stato a livello di Stato membro dovrebbero cessare ed essere sostituiti da sussidi a livello Ue perché sono meno distorsivi e aiutano ad approfondire il mercato unico. A volte la concorrenza è difficile da ottenere perché un mercato funziona in modo più efficiente se c’è una rete o uno standard, e questo può portare a una struttura di mercato monopolistica. In questo contesto, la concorrenza può essere ottenuta attraverso l’interoperabilità: molte aziende possono competere utilizzando la stessa rete o standard (o eventualmente set di dati). Un’altra delle proposte di Draghi spiega che in alcuni casi le aziende devono essere costrette ad aprire le loro reti tramite regolamentazione (come l’EU Digital Markets Act), o obbligate a farlo se vogliono accedere ai sussidi Ue. Ad esempio, se l’Ue sta stanziando fondi pubblici per aiutare un settore, può condizionare i sussidi all’interoperabilità per aumentare la concorrenza. Poiché sempre più mercati coinvolgono big data, standard digitali e reti che possono avvantaggiare tutte le aziende, la regolamentazione UE di apertura e interoperabilità sarà un vantaggio competitivo. Draghi sostiene con forza anche la necessità di più strumenti di applicazione della concorrenza. Egli suggerisce un “Nuovo strumento per la concorrenza” per le indagini in quattro aree che oggi mancano di applicazione: mercati che hanno prestazioni scadenti a causa della tacita collusione delle aziende; sottoperformance del mercato correlata a pregiudizi comportamentali da parte dei consumatori; investimenti insufficienti nel bene pubblico della resilienza; e fallimenti dell’applicazione passata per riformare un mercato. Le prime due aree sono notoriamente difficili da affrontare per le autorità di concorrenza. Uno strumento per raccogliere informazioni solo quando l’autorità sospetta uno di questi gravi problemi bilancerebbe il costo dell’indagine con i suoi benefici.
  11. Anche l’analisi del settore digitale soffre di un pregiudizio “industrialista” ed è focalizzata sulle industrie digitali (sull’hardware piuttosto che sul software), che rappresentano solo il 5,5% del PIL dell’UE, e sulle infrastrutture delle telecomunicazioni. Ciò non riesce a riconoscere che il digitale è una tecnologia di uso generale che non è confinata a un settore particolare. Di conseguenza, le raccomandazioni di Draghi si concentrano su hardware e infrastrutture digitali, tra cui telecomunicazioni, chip e infrastrutture cloud (per le quali il mercato dell’Ue è dominato da grandi imprese statunitensi), nonostante il fatto che il rapporto presenti effettivamente prove che la crescita dei servizi di contenuti digitali (eufemisticamente etichettati come telco “over-the-top”) siano un motore economico molto più importante. L’enfasi di Draghi sull’hardware e sulle infrastrutture delle telecomunicazioni ripete un vecchio mantra della politica digitale dell’Ue che ha contribuito a far perdere all’Ue la rivoluzione dei servizi digitali.
  12. Certamente, negli ultimi anni l’ordine commerciale multilaterale è entrato in una profonda crisi e la situazione politica internazionale si è sostanzialmente polarizzata in due schieramenti in evidente concorrenza per l’egemonia, che vedono da un lato gli USA, l’Ue e il resto del mondo occidentale (compresi paesi “bianchi onorari” come Giappone e Corea del Sud), e dall’altro la Cina con i paesi del Sud globale ad essa collegati attraverso istituzioni come BRICS, RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), ASEAN (Association of Southeast Asian Nations), BRI (Belt and Road Initiative), GDI (Global Development Initiative) e SCO (Shanghai Cooperation Organization). Finora, l’UE sembra voler tenere un profilo diverso rispetto a quello americano, come dimostra la definizione di ”rivale strategico” attribuita alla Cina, a differenza di quella di “avversario” usata dagli USA. Questi ultimi, poi, auspicano un “decoupling” (separazione) nei confronti della Cina, a differenza del più blando “de-risking” perseguito dagli europei.
  13. A questo proposito, Draghi nota che “come delineato sopra, gli Stati Uniti hanno superato l’Ue grazie alla loro posizione più forte nelle tecnologie innovative, ma mostrano tassi di disuguaglianza più elevati. Un approccio europeo deve garantire che la crescita della produttività e l’inclusione sociale vadano di pari passo. L’Europa sta entrando in un periodo senza precedenti nella sua storia, in cui rapidi cambiamenti tecnologici e transizioni settoriali si combineranno con una popolazione in età lavorativa in calo. In questo contesto, l’Europa dovrà garantire il miglior utilizzo delle sue competenze disponibili mantenendo intatto il tessuto sociale. Il cambiamento tecnologico può implicare una significativa interruzione per i lavoratori in settori precedentemente dominanti che non lo sono più, nonché una crescente disuguaglianza: dal 1980 al 2016, si è scoperto che l’automazione ha rappresentato il 50-70% dell’aumento della disuguaglianza salariale negli Stati Uniti tra lavoratori più e meno istruiti. Lo stato sociale europeo sarà quindi fondamentale per fornire solidi servizi pubblici, protezione sociale, alloggi, trasporti e assistenza all’infanzia durante questa transizione. Allo stesso tempo, l’Europa avrà bisogno di un approccio fondamentalmente nuovo alle competenze. L’Ue deve garantire che tutti i lavoratori abbiano diritto all’istruzione e alla riqualificazione, consentendo loro di ricoprire nuovi ruoli man mano che le loro aziende adottano la tecnologia, oppure di trovare buoni posti di lavoro in nuovi settori” (pag. 15). Al tema delle competenze (intese come skills), Draghi dedica una sezione delle “politiche orizzontali” (pp. 257-279). È l’unico tema che si riferisce direttamente alla questione del lavoro, trattando della carenza di competenze in relazione ad alcuni settori – digitale, tecnologie pulite e trasporti -, e auspicando la necessità di interventi di formazione e re-training della forza lavoro.
  14. Le proposte di Draghi includono l’aggiornamento del programma Global Gateway, che promuove gli investimenti in paesi terzi, per concentrarsi sulle esigenze strategiche dell’UE e lo sviluppo di strategie congiunte con altri acquirenti di “paesi strategicamente allineati”, ad esempio attraverso un G7+ Critical Raw Materials Club (tra cui Canada, Giappone, Corea del Sud e Australia). L’Ue dovrebbe anche esplorare attentamente il potenziale dell’estrazione mineraria in acque profonde ecosostenibile per approvvigionarsi di rame, titanio, manganese, cobalto, nichel e terre rare.
  15. Draghi parla di indipendenza strategica europea, un concetto che presuppone lo sviluppo di catene del valore e di approvvigionamento interne all’Ue (tra autarchia e protezionismo), ma essendo assai pragmatico riconosce anche l’importanza di “stabilire partnership industriali tra l’Ue e paesi terzi sotto forma di accordi di prelievo lungo la catena di fornitura o di co-investimento in progetti di produzione. L’Ue potrebbe: i) mappare con i consorzi commerciali dell’Ue il potenziale di queste partnership in termini di importazioni o esportazioni della catena di fornitura e produzione locale dell’Ue in paesi terzi con idee simili” (pag. 136). Nonostante tutto, Draghi riconosce che “l’Europa ha una lunga e fruttuosa storia di cooperazione globale aperta. Questo è uno dei suoi principali vantaggi comparativi. La nuova realtà geopolitica odierna evidenzia potenziali rischi per questo approccio, anche nel campo della ricerca e dell’innovazione. I nostri strumenti dovrebbero essere il più aperti possibile e chiusi quanto necessario per mitigare i rischi di trasferimento involontario di conoscenze e tecnologie. Garantire un maggiore coordinamento tra gli Stati membri sulla sicurezza della ricerca è fondamentale. L’Ue dovrebbe approfondire attivamente e in modo più strategico le sue relazioni con i paesi che la pensano allo stesso modo. Più ricchi e forti sono i legami reciproci con partner che la pensano allo stesso modo, più tutte le parti ne trarranno beneficio” (pag. 246). Il rapporto Draghi respinge fermamente la tentazione di emulare l’approccio degli Stati Uniti di escludere sistematicamente le tecnologie pulite cinesi (pannelli solari fotovoltaici, batterie per le auto e auto elettriche), il che renderebbe la transizione verde europea più difficile e costosa. Invece, Draghi suggerisce che l’Europa dovrebbe implementare politiche industriali verdi “intelligenti” e specifiche per la tecnologia, adattate alle circostanze di ciascun settore industriale (vedi pag. 37). Per quanto riguarda i pannelli solari fotovoltaici, ad esempio, per i quali l’Europa non ha più un forte vantaggio comparativo, il rapporto suggerisce di tenere aperte le porte dell’Europa e sostanzialmente di approfittare gratuitamente dei costosi sussidi alla produzione forniti dai paesi di origine (Cina), diversificando al contempo i fornitori il più possibile per massimizzare la sicurezza. Tuttavia, in settori come le turbine eoliche, in cui l’Europa ha un forte vantaggio comparativo, Draghi suggerisce che l’Europa aumenti il sostegno, introducendo anche quote minime esplicite per prodotti e componenti locali negli appalti pubblici. Il rapporto sottolinea anche la necessità di fare più uso, quando necessario, degli strumenti di politica commerciale, a partire dalle tariffe, per garantire parità di condizioni. Sottolinea la necessità di impiegare tutti gli strumenti possibili per sostenere e proteggere le industrie nascenti in cui l’Europa ha un vantaggio innovativo e un potenziale di crescita futura.
  16. Anche nei casi in cui più paesi europei si procurano la stessa capacità militare, come nel caso del carro armato Leopard II, diversi stati membri europei tendono a procurarsi versioni personalizzate. Ad esempio, i Leopard II acquistati da Svezia, Germania e, più recentemente, Italia, hanno tutti specifiche diverse. Le parole spesso utilizzate sono “duplicazione”, “moltiplicazione” e “spreco di risorse” per indicare il fatto che la mancata integrazione tra gli Stati membri lascia sopravvivere una pletora di progetti industriali in ambito militare di fatto inefficienti. Tra gli esempi che vengono spesso citati, il più noto è quello degli aerei da combattimento. Francia e Germania hanno firmato un accordo per sviluppare un cacciabombardiere di ultima generazione, mentre Italia, Paesi Bassi e Regno Unito sono coinvolti nel progetto di costruzione del caccia F35 Joint Strike Fighter della Lockheed Martin statunitense. La Svezia (SAAB) continua a sviluppare il caccia Gripen, scelto anche da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia. Nel frattempo, nel 2019, Regno Unito, Italia e Svezia (con il Giappone) hanno firmato un accordo per sviluppare un caccia di sesta generazione, il Tempest di BAE Systems. Mogherini e Katainen (2017) evidenziavano che nell’Ue ci sono 17 carri armati principali, 29 tipi di fregate e 20 aerei da combattimento, laddove le cifre corrispondenti per gli Stati Uniti sono rispettivamente 1 (l’M1 Abrams), 4 e 6. Con maggiore dettaglio, Hartley (2020) mostrava che in Europa ci sono 180 diversi tipi di equipaggiamento militare (fucili, munizioni, carri armati, aerei, navi, etc.) rispetto ai soli 30 negli Stati Uniti. Dopo un lungo, complesso e travagliato percorso di convergenza dei rispettivi requisiti operativi e di coinvolgimento delle relative industrie, lo scorso 26 aprile, i ministri della Difesa francese Sébastien Lecornu e tedesco Boris Pistorius hanno siglato a Parigi, “l’accordo di impegno” per la fase 1A del programma MGCS (Main Ground Combat System) destinato allo sviluppo e messa in servizio di un nuovo “sistema di sistemi multipiattaforma” per il combattimento terrestre che dovrà rimpiazzare l’attuale generazione di veicoli corazzati rappresentati dai carri armati Leclerc e Leopard II entro il 2045: non più un carrarmato, ma una piattaforma equipaggiata con un cannone di grosso calibro, accompagnato da altri moduli complementari interconnessi come una piattaforma protetta equipaggiata con missili anti-carro, nonché un veicolo d’appoggio robotizzato dotato di armi laser, droni ed altri armamenti innovativi. Un progetto che vedrà coinvolte 4 società: KNDS Deutschland, KNDS France, Rheinmetall Landsysteme e Thales SIXGTS, prevedendo anche la partecipazione, quali partner industriali subcontraenti, i gruppi MBDA, Safran, Hensoldt e Diehl Defence, nonché fornitori di sistemi specifici come la propulsione oltre a società medio-piccole e centri di ricerca ed accademici. I due ministri hanno affermato che il programma MCGS è aperto alla cooperazione di altri Stati membri della NATO, dell’Ue e ad altri potenziali paesi partner. L’Italia vuole essere assolutamente della partita e il 29 aprile Crosetto, ha incontrato Lecornu in Corsica, con il quale ha firmato una lettera di intenti per la costituzione del Polo Industriale Terrestre Europeo, “dove confluiranno le migliori aziende italiane e francesi del settore”. Nelle varie iniziative annunciate, la Commissione Europea ha affermato che sosterrà gli sforzi per garantire la definizione di requisiti di capacità comuni, l’adozione di standard condivisi e il riconoscimento reciproco delle certificazioni, affrontando così tre questioni che di fatto impediscono la completa “interoperabilità” tra le forze armate europee. Gli analisti sostengono anche che le inefficienze derivanti dalla frammentazione del mercato militare europeo sono aggravate da altri fattori che incidono sulla capacità di fornire risultati: ad esempio, molte delle piccole e medie imprese di livello inferiore che popolano il settore militare-industriale affrontano difficoltà nell’accesso ai finanziamenti privati e, in una sfida in qualche modo correlata, molti dei progetti FES perseguiti da queste PMI incontrano difficoltà nel passare dalla fase di prototipo alla piena commercializzazione.
  17. MBDA ha affermato di puntare a ridurre i tempi di produzione dei missili di difesa aerea Aster30 dai 42 mesi del 2022 a “meno di 18 mesi nel 2026” e aumentare del 50% la produzione entro le stesse scadenze, anche creando in Italia una seconda catena di montaggio del missile. Molte aziende produttrici di armi europee non sono riuscite ad aumentare in modo significativo la capacità produttiva a causa della carenza di manodopera, dell’aumento dei costi (anche per l’impennata dell’inflazione) e delle interruzioni della catena di approvvigionamento (mancato accesso a materie prime critiche grezze e raffinate, “terre rare” e semiconduttori), esacerbate dalla guerra in Ucraina. Attualmente, la base industriale e tecnologica di difesa europea non è in grado di soddisfare le richieste del tempo di guerra. Si è adattata con successo a decenni di pace, mantenendo alti profitti nonostante livelli relativamente bassi di spesa per la difesa, ma ha perso la capacità di aumentare la produzione per le esigenze belliche. I tradizionali produttori europei saranno in grado di assorbire parzialmente la nuova domanda creando nuove capacità produttive, ma ciò non sarà sufficiente né in termini di volume né di velocità. La Commissione europea ha stanziato i 500 milioni di euro previsti a sostegno della produzione di munizioni (ASAP). Ciò dovrebbe consentire all’industria militare europea di aumentare la sua capacità di produzione di proiettili d’artiglieria portandola a 2 milioni l’anno entro la fine del 2025.
  18. La Strategia invita gli Stati membri a progredire verso obiettivi per gli appalti comuni e locali di attrezzature militari: si chiede rispettivamente che il 40% di tutte le attrezzature siano acquistate in comune entro il 2030, contro un valore attuale del 18%, e che il 50% di tutte le spese per gli appalti della difesa sia indirizzata ai fornitori dell’Ue entro il 2030 – il 60% entro il 2035 – contro un valore attuale del 22%.
  19. D’altra parte, gli Stati Uniti, in linea di principio, pur invitando gli europei a fare di più per la loro autodifesa, hanno allo stesso tempo sottolineato la necessità di evitare duplicazioni con la NATO e si sono costantemente opposti al consolidamento della base industriale e tecnologica di difesa europea, ovvero sostenere la domanda europea per i suoi prodotti, in modo da salvaguardare gli interessi del proprio complesso militare-industriale. In tal modo, gli USA hanno trovato aiuto in alcuni Stati membri dell’Europa orientale (come la Polonia) che desiderano preservare la presenza americana sul fianco orientale dell’Europa (il che significa che gli Stati dell’Europa centrale e orientale preferiscono acquistare prodotti made in USA piuttosto che europei). Varsavia ha annunciato che otterrà una serie di forniture militari, principalmente da fornitori sudcoreani (carri armati, artiglieria cingolata, sistemi di artiglieria e missili, a seguito di accordi di co-produzione con Hanwha Aerospace e Hyundai Rotem) e statunitensi (aerei, sistemi di difesa aerea, etc.). Ma anche la Germania ha deciso l’acquisto di aerei da combattimento F35 dalla Lockheed Martin, sta comprando gli elicotteri Chinook dalla statunitense Boeing e ha firmato un contratto da 3,5 miliardi di dollari con l’industria aerospaziale israeliana per acquisire il sistema di difesa antimissile Arrow 3 sviluppato con gli USA, oltre al sistema antimissile americano Patriot. Pur avendo partecipato insieme alla Francia al programma per una nuova nave da pattugliamento marittimo (MAWN), i tedeschi hanno deciso di acquistare cinque nuove navi da pattugliamento marittimo P-8A Poseidon dall’americana Boeing (1,43 miliardi di euro). Gli interventi militari passati, come quello in Libia nel 2011, hanno evidenziato che le forze armate europee dipendono dalle capacità degli Stati Uniti in una serie di campi, in particolare per i fattori strategici aviotrasportati (trasporto aereo strategico e vari sottocampi di attività di intelligence, sorveglianza e ricognizione, come gli AWACS) e la guerra antisommergibile. Significativamente, la sezione dell’EDIS dedicata alla cooperazione con la NATO è poco definita, un tentativo deliberato da parte della Commissione di lasciare agli Stati membri il compito di definire la portata del partenariato.
  20. Una questione chiave per lo sviluppo futuro di una base industriale e tecnologica di difesa europea è la sostenibilità dell’aumento della spesa per la difesa. Costruire una base industriale e tecnologica in grado di soddisfare il nuovo livello di ambizione richiede un livello elevato e sostenuto di spesa per la difesa per evitare che i fondi vengano dirottati verso altre funzioni governative in caso di recessione economica o di rivalutazione delle priorità politiche. La maggior parte dei governi europei sembra capire che la spesa per la difesa deve essere sostenibile per produrre risultati. Non solo sono disposti a mantenere i loro budget al livello elevato attuale, ma prevedono anche ulteriori aumenti nel prossimo futuro. Per ora la dotazione di finanziamento dell’Unione europea, prevista come transitoria verso il periodo di programmazione 2028-2034, ammonta a un magro 1,5 miliardi di euro, molto al di sotto di quanto è necessario per stabilire “appalti comuni come la norma“. Tuttavia, a questo riguardo, l’EDIS richiede decisioni politiche che sblocchino altre fonti di finanziamento, come l’adeguamento della politica di prestito della BEI, il riutilizzo dei futuri programmi di spesa dei fondi strutturali per convogliare più finanziamenti verso l’EDTIB e, cosa più controversa, “utilizzando i profitti dei beni russi congelati per acquistare congiuntamente attrezzature militari per l’Ucraina”. Secondo il commissario per il mercato interno Thierry Breton, l’obiettivo finale dovrebbe essere disporre di un fondo di 100 miliardi di euro per l’industria europea della difesa – una proposta condivisa da esponenti governativi tra cui la primo ministro estone Kaja Kallas (ora designata come Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri). Alcuni Stati membri dell’Ue stanno spingendo per un approccio più aggressivo. Francia, Polonia ed Estonia hanno invitato Bruxelles a mobilitare finanziamenti “adeguati” per i programmi di difesa, suggerendo un approccio simile al fondo di recupero pandemico del blocco in cui sono state emesse obbligazioni congiunte. Un altro gruppo di paesi settentrionali, per lo più “frugali”, sono diffidenti all’idea, con paesi tra cui Germania, Danimarca, Svezia, Paesi Bassi, Austria e Cechia contrari all’emissione di nuovo debito.
  21. Sebbene il documento impegni l’Ue verso un ordine globale basato sul diritto internazionale, si discosta chiaramente dalle valutazioni precedenti per affermare che “l’idea che l’Europa sia esclusivamente una ‘potenza civile’ non rende giustizia a una realtà in evoluzione”. “Per l’Europa”, affermava con un forte senso di inquietudine, “il soft power e l’hard power vanno di pari passo”.
  22. Enrico Letta, ad esempio, autore del recente rapporto sul mercato unico dell’Ue, auspica che l’Ue e gli Stati Uniti costruiscano un “mercato unico transatlantico” per combattere “comportamenti aggressivi” da parte di gran parte del resto del mondo, con un chiaro riferimento a Cina, Russia e paesi del Sud del mondo.
  23. Una delle misure proposte della Strategia copia addirittura il programma statunitense Foreign Military Sales (per cui Washington firma contratti di vendita di armi direttamente con altre capitali), rendendo più semplice la vendita di armi a paesi terzi, mentre un’altra renderebbe più semplice per i governi assumere il controllo della produzione civile in caso di emergenza. L’Ue lavorerebbe su un catalogo di ciò che è disponibile in tutto il blocco. La Commissione sosterrebbe inoltre finanziariamente l’accumulo di scorte per ridurre i ritardi di consegna per i potenziali acquirenti. Il testo prevede un’eccezione alla Direttiva sugli appalti della difesa per consentire ai governi di aggiungere nuovi paesi ai contratti già firmati senza dover riavviare il processo di appalto.
  24. Già ora la spinta alla militarizzazione si accompagna ad un’agenda politica interna sempre più repressiva, con un nuovo maccartismo e un rinnovato autoritarismo, proto-fascismo e razzismo spinto dallo sdoganamento del suprematismo bianco da parte dei politici mainstream e conservatori. Pertanto, tendono a prevalere poteri governativi sempre più intolleranti ai loro limiti e alle contestazioni, che cercano di imporre la “ragione di Stato” (declinata nella logica di un “capitalismo di guerra”) e di restringere gli spazi democratici di discussione e contestazione, garantiti dai diritti costituzionali, attraverso atti riconducibili a forme di violenza istituzionale che vanno dalle manganellate e criminalizzazione degli studenti all’imposizione del bavaglio e del carcere per coloro che esprimono opinioni/manifestazioni di dissenso e alle querele per diffamazione contro la critica politica.
  25. Lo storico Sven Beckert nel suo libro capolavoro L’impero del cotone. Una storia globale (Einaudi, Torino 2023) ha usato il termine “capitalismo di guerra” per definire la strategia utilizzata dalle potenze europee per estendere e consolidare il loro dominio dopo il 1492 e creare le precondizioni per il capitalismo industriale (nato nel 1780). Misero in moto un insieme di processi sociali, politici ed economici profondamente radicati basati sulla militarizzazione del commercio, la conquista violenta, il brutale furto e saccheggio di risorse, l’espropriazione massiccia delle terre, il genocidio di centinaia di milioni di persone delle popolazioni indigene colorate e la schiavitù di milioni di africani. Il “capitalismo di guerra” era un sistema che poggiava sull’uso della forza armata da parte degli Stati europei per riconfigurare le altre società del mondo in funzione dei propri interessi (accumulazione di grandi ricchezze e nuove competenze e rafforzamento di istituzioni e Stati europei). Per questo l’Occidente ha una storia condivisa di brutalità che ne ha plasmato istituzioni, identità e ideologia (su questo tema si veda il mio libro: Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023). Una strategia di espansione e dominio che è continuata fino ai nostri giorni utilizzando il neocolonialismo e il cosiddetto “metodo Giacarta” (si veda qui e qui), un programma che prevede omicidi di massa e mirati degli oppositori, “cambi di regime” e altre ingerenze coercitive (come violazioni del diritto internazionale, interventi militari, terrorismo, sabotaggi finanziari, sanzioni unilaterali, embarghi e propaganda) nei confronti di paesi del Sud del mondo. L’attuazione di un programma che spesso ha visto e vede il contemporaneo intervento militare di governi nazionali in partnership (con il sostegno militare diretto) con le maggiori potenze occidentali. L’obiettivo di fondo è sempre lo stesso: far rimanere concentrato nel Nord globale il potere, insieme al processo decisionale, all’allocazione delle risorse e alla produzione di conoscenza. Dietro l’attuale spinta verso un “capitalismo di guerra” c’è un rilancio della strategia imperialista degli Stati Uniti e degli altri paesi dell’Occidente (si veda il nostro articolo qui) teso ad evitare il loro declino egemonico, soprattutto economico e commerciale. Come argomenta Emiliano Brancaccio nel saggio Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano 2024), siamo di fronte ad una feroce controffensiva combattuta con armi militari, protezionistiche, finanziarie e politiche che ha l’obiettivo di cercare di controllare e dominare economicamente e militarmente il maggior numero possibile dei paesi del Sud globale che cercano di liberarsi dalle catene del neocolonialismo (indipendenza politica nominale e subordinazione economica quasi totale) e dell’estrattivismo (uno sfruttamento di tipo predatorio di popolazioni e risorse naturali esercitato attraverso i monopoli sulla tecnologia e sulle materie prime, nonché il dominio sugli investimenti diretti esteri) per tentare di recuperare e gestire le proprie risorse. È con il “capitalismo di guerra” – con tattiche modellate in parte dalla modernizzazione della guerra ibrida, che comprende leggi, iper-sanzioni unilaterali, sequestro di riserve monetarie e beni nazionali e altri modi di guerra, oltre che militare, anche non militare – che l’Occidente prova a ricacciare i 145 paesi del Sud del mondo – Cina compresa – in una condizione di subalternità e di sfruttamento.

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